Ristoranti cinesi prato
Tutte le foto Alice Gemignani per MUNCHIES Italia

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Cibo

Sono andata alla ricerca della migliore cucina cinese di Prato

Fra pasta fresca, pene di manzo e ristoranti che sembrano sempre vuoti ma non lo sono.

Per noi rimane il primo grande amore dopo la cucina italiana. In un ristorante cinese abbiamo cominciato a familiarizzare con i sapori asiatici e i nuovi ingredienti; qui abbiamo iniziato a giocare con le bacchette - e dopo qualche anno abbiamo anche imparato ad usarle. Sono la terza comunità straniera più presente sul suolo italiano, ma forse non li conosciamo davvero abbastanza. Qui a MUNCHIES, allora, abbiamo pensato di dedicare alla cultura gastronomica cinese una settimana a tema in occasione del Capodanno Cinese.

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Benvenuti alla Chinese Week di MUNCHIES Italia.


La comunità cinese ha un ruolo decisivo nel definire l’identità di Prato: i cinesi residenti sono oltre 20.000, quasi l’11% della popolazione totale e il Pil cinese ha un valore per la città stimato intorno al 22%.

Nella Chinatown di Prato puoi mangiare a qualsiasi ora. I ristoranti sono sempre aperti, dalla mattina a tarda sera, senza pause, anche se restano vuoti, però vuoti non sono mai. Il problema piuttosto è ordinare, o diciamo in generale comunicare con i ristoratori, perché anche l’informazione più basilare rischia di perdersi nella traduzione. Cioè puoi chiedere funghi e ricevere verdure; o chiedere pene di manzo e poi scoprire che c’era anche quello di cervo, molto più appetibile.

Quanto dici Chinatown a Prato stai parlando soprattutto di due vie, via Pistoiese e via Filzi, che partono a ridosso del centro e si allungano verso la periferia: l’area intorno a queste due vie è conosciuta come Macrolotto Zero, cioè la prima area di estensione industriale della città. Via Pistoiese è una via stretta e trafficata, fitta di negozi e ristoranti cinesi. Sui suoi bordi spingono capannoni ed edifici industriali, dove a partire dagli anni Ottanta è iniziata l’ascesa del “pronto moda” cinese (per approfondire).

La comunità cinese ha un ruolo decisivo nel definire l’identità di Prato: i cinesi residenti sono oltre ventimila, quasi l’11% della popolazione totale (a Milano siamo intorno al 2%) e il Pil cinese ha un valore per la città stimato intorno al 22%.

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Ai miei occhi l’unica cosa certa è una vistosa barriera linguistica: pochi cinesi parlano italiano, malgrado vivano qua da dieci, vent’anni. Per fortuna che ho con me Roberto Pecorale, che fa l’insegnante di cinese in un liceo di Prato e che oggi ci accompagnerà in questo tour de force gastronomico.

Diletta e Roberto

Allora eccoci qui tutti e tre: io, Roberto e Alice la fotografa, seduti in una gastronomia coi vetri appannati, intorno a una colazione di baozi e latte di soia, che guardiamo la mappa e il numero utopistico di tappe che ci ho segnato sopra.

La Chinatown di Prato e la Cucina wenzhounese

La traduzione delle varietà vegetali è forse uno dei luoghi più grigi (e affascinanti) del contatto tra le due lingue o i dialetti

Iniziamo da Bin Bin, un ristorante che fa cucina di Wenzhou, cioè la città da cui vengono quasi tutti i cinesi di Prato (ma in realtà di tutta Italia e di gran parte d’Europa). Il flusso migratorio da Wenzhou – me l’ha spiegato Sara Iacopini, antropologa che si è a lungo occupata dell’argomento – inizia in seguito a un forte e insostenibile sviluppo urbanistico che ha arricchito alcuni (abitanti del centro città) e distribuito effetti collaterali su altri (aree periurbane e rurali); sono questi che hanno iniziato a emigrare. Un flusso che ha avuto il suo picco nei primi anni Duemila, quando molti cinesi da terzisti diventano imprenditori, e si è stabilizzato negli anni più recenti, diversificando le aree di provenienza, non più solo Wenzhou.

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Bin Bin a Prato

Bin Bin ha numerosi piatti finti esposti all’ingresso (non pensate a un luogo turistico, niente della Chinatown pratese è turistico) e una fornita vetrina di pesce e frutti di mare. Il pesce è molto importante per la cucina wenzhounese, del resto è una regione costiera, e quello che ordiniamo noi è un pesce persico cotto al vapore, insaporito solo da aglio, peperone sottile, zenzero, erba cipollina e un guazzetto di salsa di soia.

Pesce persico cotto la vapore con aglio, peperone e zenzero.

Un sapore delicatissimo, direi quasi francescano, funestato da un numero improbo di spine.

Straccetti di pasta fresca tagliata al coltello in brodo con ragù di maiale e manzo a fette.

Le tre cameriere, rapite dal fatto che Roberto parli così bene la loro lingua, ci propongono la specialità della casa: straccetti di pasta fresca tagliata al coltello e serviti in brodo, insieme a verdure, abbondante coriandolo, ragù di maiale e carne di manzo a fette intere. È molto buono, non c’è niente di speziato o agrodolce o clamorosamente piccante, cioè i sapori che siamo abituati ad associare alla cucina cinese.

È una cucina sobria, leggera, non unta, con pochi ingredienti di cui senti bene il sapore.

Chiudiamo con un altro piatto tipico wenzhounese: un tortino di patate ricoperto da spesse strisce di pancetta brasata e circondato da bacche di goji e verdure al vapore.

Tortino di patate ricoperto da spesse strisce di pancetta brasata e circondato da bacche di goji e verdure al vapore.

Si capisce che resto vaga sulle verdure. Non ne sono felice ma è il meglio che posso fare poiché, malgrado Roberto e il ricorso a varie app di traduzione, non c’è stato verso di dare un nome alle cose.

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A quanto pare quello che io ho sempre chiamato pak choi qui si chiama qingcai (pronuncia cinzai). Il problema è che questo qingcai deve avere confini un po’ elastici, stando almeno al mio dialogo col fruttivendolo ambulante incontrato fuori da Bin Bin che ha risposto “cinzai” a qualsiasi verdura verde gli indicassi: cavolo, coriandolo, pak choi. Come mi ha poi confermato Leone Contini, un artista pratese che da tempo lavora proprio su questi temi, la traduzione delle varietà vegetali è forse uno dei luoghi più grigi (e affascinanti) del contatto tra le due lingue o i dialetti usati comunemente dalle persone per definire un cibo e quell’altro.

Pentola mongola (Hot Pot)

Ci dirigiamo verso la seconda tappa: la pentola mongola (hot pot). Il ristorante si chiama CIAO(via Pistoiese 146), e sta al secondo piano di un palazzo, affacciato su quello che sembra essere uno dei fulcri della vita di quartiere: pescheria cinese, fruttivendolo cinese, un albergo, un bar, un’associazione culturale. Quanto l’esterno è rumoroso e denso di persone, tanto CIAO è gigantesco, deserto e buio; la luce arriva dalle vetrine di cibo e da un acquario coi crostacei.

L’hot pot è un piatto del Sichuan, anche se ne esistono varie versioni regionali. Si tratta di un pentolone di brodo che viene piazzato su una piastra rovente al centro del tavolo e nel quale i commensali immergono gli ingredienti per cuocerli. Prima si sceglie una base per il brodo – verdure, pollo, manzo, piccante – e poi cosa immergerci dentro, il tutto da una lunga lista ricca di sorprese.

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La lista degli ingredienti per l'Hot Pot del ristorante CIAO

Le opzioni spaziano da innocui germogli di soia e fette di bambù, fino a: pelle di maiale, polmone di maiale, pene di manzo e un criptico cento pelle”. Optiamo per il pentolone di brodo diviso in due: mezzo semplice e mezzo piccante. Il piccante è così piccante che la nuvola di fumo che si alza dal centro del tavolo mi fa tossire come se avessi l’allergia.

Poi ordiniamo il pene di manzo (si poteva fare altrimenti?) e per darci un tono anche carne di capra tagliata sottile (il ristoratore dice che è il tipico ingrediente da hot pot) e dei non meglio specificati funghi dal gusto acidulo (forse degli Shiitake).

Che sapore ha il pene di manzo? Direi nessun sapore, almeno questo specifico pene qui. In compenso ha una consistenza callosa e pastosa insieme, qualcosa di cui si può vivere senza, insomma. Ed eccomi qui, a masticare pene di manzo per lunghi minuti col sorriso tirato, e poi a mostrare tutta la mia inettitudine nell’immersione degli ingredienti, dati sistematicamente per smarriti in questo enorme catìno di brodo bollente nel quale galleggia di tutto, ma non il fungo che ci ho lanciato dentro due minuti fa. È stato divertente.

Non me ne vado prima di aver chiesto cosa c’è nei boccioni poggiati sul bancone e la risposta non delude: pene di cervo, corna di cervo, tutto sotto grappa. Prossima volta, dai.

Pene di Cervo, Corna di cervo sotto grappa.

Cucina del nord

“Ma allora, com’è che tutti avete il pene di cervo in bella vista?”
“È buono, dà vigore agli uomini e fa bene anche alle donne, ai reni"

Ho chiesto molti consigli su dove mangiare a Prato e Ravioli Liu è stata una costante nelle risposte di tutti. Non a caso è l’unico ristorante dove troviamo degli italiani. Si entra da quello che sembra il retro, una stradina interna che ti obbliga a uno slalom tra cassoni di imballaggi e camion in fase di carico-scarico. I proprietari non sono di Wenzhou ma della Manciuria, per cui fanno cucina del nord della Cina e il piatto forte sono appunto i ravioli: jiaozi.

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I ravioli al vapore con uovo, gamberetti ed erba cipollina con aceto di soia.

Assaggiamo dei ravioli al vapore con uovo, gamberetti, erba cipollina, accompagnati da aceto di soia (“la salsa di soia la usano solo gli italiani”, dice la cameriera).

E un piatto di straccetti di agnello al cumino, moderatamente piccanti, con coriandolo e peperone. È tutto buono, mi unisco al coro dei consigli, solo rispetto ai primi due l’impressione di autenticità è più annacquata e, forse anche per il successo di pubblico, si sente una maggiore consapevolezza commerciale.

Certo, stiamo comunque parlando di un locale dove un tavolo di sala viene usato dai dipendenti per pulire e tagliare un grosso cesto di agli. E però è come se gli stickers di Babbo Natale appesi ovunque o la felpa sportiva di ciniglia turchese della proprietaria fossero parte di un ragionamento sul trash non del tutto ingenuo.

Anche qui, come da CIAO, ci sono dei boccioni di simil-salamoie poggiati sul bancone. Anche qui, alla mia domanda, mi viene risposto: pene di cervo, sotto alcol, con rafano e bacche di goji.

“Ma allora, com’è che tutti avete il pene di cervo in bella vista?” chiedo.
“È buono, dà vigore agli uomini – risponde facendo i pugni con le mani – e fa bene anche alle donne: ai reni.

Poi mi regala delle bacche di goji nere, fanno bene anche queste, dice, ma sono meno banali di quelle rosse.

Bubble tea e uova al tè verde

Roberto ci consiglia una fermata al Taro Garden, per un cambio di atmosfera radicale. È un bar colorato, gestito e frequentato da giovani, conosciuto per il Bubble Tea, una bevanda taiwanese che adesso spopola anche tra i giovani cinesi. Si tratta di un beverone dolce a base di tè misto a latte, a cui aggiungi un gusto (noi optiamo per il mango) e delle palline di tapioca da cui non perviene alcun sapore bensì il rischio di aspirarle con la cannuccia e trovartele in gola. O forse semplicemente non sono più giovane abbastanza per apprezzarlo.

Diletta mentre beve il Bubble Tea.

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A pomeriggio inoltrato azzardiamo una merenda nella zona industriale a sud della città. Ho ricevuto racconti di “baracchini che grigliano di tutto in mezzo ai capannoni”, di “barbecue notturni”, “di focaccine calde per le pause dei lavoratori che escono dalle fabbriche”. Scene irresistibili che grazie al mio talento nel credere a qualsiasi cosa riuscirò a visualizzare ancora a lungo.

Uova al tè Verde

Purtroppo, in questo giorno piovoso di gennaio, di baracchini aperti ce n’è uno solo e ha finito tutto (forse le focaccine erano buone davvero). Tutto, eccetto le uova al tè verde. Uova sode con l'albume marrone, da sgusciare e mangiare a morsi indossando un guanto di plastica.

Finisce qui il mio viaggio gastronomico nella Prato cinese, in mezzo ai capannoni, ed è giusto così.

Prendo a morsi l’uovo, è molto salato, ma Roberto se n’è andato e non posso chiedere perché.

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