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Foto by Anita Peeples via Unsplash

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Cibo

Hanno chiesto di applicare il copyright al sapore di un formaggio, e non è andata benissimo

L'Unione Europea, per la prima volta nella sua storia, si è trovata a decidere se riconoscere il diritto d’autore al sapore di un formaggio spalmabile e condannare l’altro per plagio contraffazione.

Nel momento in cui riconosciamo il diritto d’autore a un quadro in quanto somma dei suoi elementi grafici, perché non riconoscere il diritto d’autore anche ad un alimento in quanto somma dei suoi elementi organolettici?

Sono tempi questi in cui il vituperato diritto d’autore gode di una cattiva fama, complice una discussa riforma che pregiudica il nostro presunto diritto all’impunita e infinita replicabilità di contenuti online. Ma davvero ci interessa? Voglio dire, nel grande disegno della vita è essenziale alla nostra sopravvivenza nel senso cacciatore raccoglitore? (cit.)

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Ho letto su Instagram che le cose davvero importanti non sono cose. Sono, per come la vediamo noi, i sapori.

Per questo motivo ho seguito con interesse una questione della massima urgenza che mi ha lasciato insonne francamente da troppo tempo: al sapore di un formaggio può riconoscersi il diritto d’autore?

Sappiate che la nostra insonnia ha radici profonde, tanto quanto il legame che l’arte culinaria ha con la proprietà intellettuale. Per capire dove stiamo andando permettetemi un salto nel passato, poco meno di una trentina di secoli fa.

Nella Biblioteca Marciana di Venezia è infatti conservato un singolare manoscritto che risale al 7°-6° secolo avanti Cristo e proveniente dalla città di Sibari, allora Magna Grecia, oggi in provincia di Cosenza. Il manoscritto è un editto promulgato dagli allora governanti della città calabrese e recita:

“Se uno dei cucinieri o dei cuochi inventa un piatto originale ed elaborato, a nessun altro è concesso utilizzare la ricetta se non all’inventore stesso prima che sia trascorso un anno, e così, a chi per primo l’abbia inventata sia riservato di trarne profitto durante il suddetto periodo […].”

L’editto in questione viene considerato da chi si occupa di proprietà intellettuale come uno dei primi antenati del brevetto, non di una ricetta o nel circoscritto ambito culinario, bensì in assoluto. E appare perlomeno sintomatico il fatto che sia stato promulgato in Italia, da sempre in guerra col mondo per proteggere dalle contraffazioni i propri prodotti alimentari.

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Sai fare la sacher torte senza uova? Meriti l’inferno, però bravo, ecco il tuo brevetto!

D’altro canto c’è da fare una precisazione:

quando si parla di brevetto si intende un meccanismo di protezione pratico e definito. Hai sviluppato un sistema innovativo o una serie di istruzioni che compiute con un certo ordine mai pensato prima producono un risultato che è più vantaggioso rispetto al passato? Bene, benissimo, puoi scrivere un bel libretto di istruzioni della tua idea e andare a registrarla all’ufficio brevetti in modo da essere l’unico a poterla usare per 30 anni.

Sotto questo punto di vista è intuitiva la brevettabilità in cucina: cos’è una ricetta, se non una serie di azioni e di ingredienti che combinati in un certo ordine producono una prelibatezza o una schifezza atomica? Sai fare la sacher torte senza uova? Meriti l’inferno, però bravo, ecco il tuo brevetto!

Sto naturalmente semplificando, la brevettabilità delle ricette è questione spinosa e tuttora dibattuta, ma questo esempio è servito per entrare nell’ordine di idee che la proprietà intellettuale in cucina passa da un’attività inventiva con un effetto tecnico del tutto nuovo, capace di migliorare la produzione industriale. Il brevetto è freddo, meccanico, governato da ragioni puramente economiche. Al brevetto non interessa il sapore.

Il sapore è tutt’altra storia, interessa a noi e interessa al cuoco.

Mettiamola così: non è la fredda ricetta a farci apprezzare un ristorante; non ci tocca il fatto che sia stato utilizzato latte scremato anziché intero, che l’agente lievitante sia chimico o naturale, o che le spezie siano state aggiunte a metà o a fine cottura. Nulla di questo è importante finché le nostre papille apprezzano e ringraziano.

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Il sapore è un fattore esperienziale dato dal carattere organolettico di certo un alimento inteso come la somma delle sensazioni gustative, tattili e olfattive percepite tramite gli organi del gusto. Con questa tronfia definizione utile solo a nutrire la mia boria voglio dire, in sostanza, che il sapore è l’insieme delle sensazioni con cui il nostro corpo reagisce nel momento in cui addentiamo un boccone: è amaro, è dolce, è sapido, è salato, è viscido, è bruciato, è avvolgente, è persistente.

Il passo successivo è a questo punto dovuto: nel momento in cui riconosciamo il diritto d’autore ad un quadro in quanto somma dei suoi elementi grafici - tratto, forme e colori - percepibili tramite gli organi della vista, perché non riconoscere il diritto d’autore anche ad un alimento in quanto somma dei suoi elementi organolettici?

Sulla base di questa enorme domanda esistenziale due industrie alimentari, la Levola Hengelo BV e la Smilde Food BV stanno litigando sul sapore dei propri formaggi spalmabili con erbe, rispettivamente l’Heksenkaas e il Witte Wievenkaas. I sapori dei due formaggi in questione sono del tutto simili, benché siano prodotti utilizzando ricette e procedimenti diversi (escludendo di conseguenza la tutela brevettuale). Capite l’impasse.

La causa tra le due società, promossa dalla Levola nel 2015, è arrivata fino alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea che il 13 novembre, per la prima volta nella sua storia,

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si è trovata a decidere se riconoscere il diritto d’autore al sapore di un formaggio spalmabile e condannare l’altro per plagio contraffazione.

Il dibattito creatosi attorno a questo caso è stato particolarmente vivace per ovvie ragioni: è stato messo in discussione cosa sia un'opera, cosa sia il sapore e perché consideriamo opere d’arte solo quelle percepibili con occhi e orecchie.

La premessa necessaria è che quella delle opere d’arte è una categoria assolutamente aperta: tutto può essere un'opera purché rispecchi i requisiti di originalità (non un plagio) ed espressione di una creazione intellettuale (la creazione deve poter essere percepita).

Siamo abituati a pensare che un'opera, per essere tale, debba avere quindi una certa materialità, anche se non è del tutto vero e vedo già le vostre espressioni dubbiose. Pensate alla musica, vero? Bravi. Non c’è nulla di materiale nella musica, sono solo onde sonore che si propagano nello spazio fino a sollecitare il nostro organo uditivo e decodificate dal nostro cervello come “musica”. O ancora, cosa c’è di materiale in un gioco di luci? In un ologramma? in un audio-libro?

Il sapore si scontra con questo bisogno di certezza perché basato su esperienze soggettive e variabili che dipendono da molteplici fattori sia interni che esterni: le preferenze, la tolleranza e la sensibilità al gusto dell’assaggiatore.

La verità, quando si parla di diritto d’autore, è che un'opera è tale a prescindere dal mondo fisico, dalla forma d’espressione, o dall’organo sensoriale con cui viene percepita. Delitto E Castigo rimane Delitto E Castigo sia che io legga il libro, che lo ascolti in audio-libro, o che lo legga in braille.

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Questa considerazione è il nucleo della tesi della Levola e in generale dei sostenitori del sapore come opera: la tutela autoriale è senz’altro riconoscibile anche al sapore, considerato che il gusto altro non è che un insieme di percezioni e sensazioni gustative dato dall’originale equilibrio tra dolce e amaro, acido e salato, e così via.

Per quanto questa tesi appaia poetica nella sua logica, non ha purtroppo trovato accoglimento. I giudici della Corte di Giustizia hanno infatti sollevato alcuni dubbi in merito all’identificabilità di un sapore.

Affinché un’opera sia tutelata è infatti necessario, individuare con precisione e obiettività gli elementi caratterizzanti dell’opera stessa. In altre parole, dobbiamo poter dire che un certo colore è sicuramente rosso, un certo accordo è sicuramente un la minore, o una certa parola esprime quel determinato concetto. Abbiamo bisogno di canoni certi, riconosciuti come tali dalla collettività.

La decisione presa dai giudici appare senz’altro sensata da un punto di vista economico: le ripercussioni sul mercato sarebbero state dirompenti considerato che in certi settori - pensate a quello dei soft-drink alla cola o delle creme alla nocciola spalmabili …

Da parte sua, il sapore si scontra con questo bisogno di certezza perché basato su esperienze soggettive e variabili che dipendono da molteplici fattori sia interni che esterni: le preferenze, la tolleranza e la sensibilità al gusto dell’assaggiatore, oppure la contaminazione dell’ambiente circostante rispetto all’assaggio (pensiamo agli odori che possono influenzare la percezione gustativa della pietanza).

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Di conseguenza, secondo i giudici, non sarebbe possibile elaborare un'identificazione precisa e obiettiva del sapore di un alimento che consenta di distinguerlo dal sapore di altri prodotti dello stesso tipo.

La decisione presa dai giudici appare senz’altro sensata da un punto di vista economico: le ripercussioni sul mercato sarebbero state dirompenti considerato che in certi settori - come quello dei soft-drink alla cola o delle creme alla nocciola spalmabili - si sarebbe sviluppato un monopolio immediato, con una crescita esponenziale di liti giudiziarie.

D’altra parte, la decisione ha un retrogusto di sconfitta per noi romantici del sapore.

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