Perché questo è il festival gastronomico che tutti dovrebbero imitare
Tutte le immagini per gentile concessione di Festa a Vico

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Cibo

Perché questo è il festival gastronomico che tutti dovrebbero imitare

Sarà la pizza che ti ritrovi tra le mani ogni due minuti o gli chef che si sbronzano con te, ma Festa a Vico è un festival gastronomico perfetto.
Andrea Strafile
Rome, IT

Quando in redazione mi hanno chiesto se volessi andare a Festa a Vico (Vico Equense, Napoli), ho fatto una faccia strana. Di quelle che fai finta di aver capito benissimo, ma non hai idea di cosa si stia parlando. “Ma quando?”
“Parti domenica, ritorni mercoledì.”
“Sì, ma che devo fare?”
“Mangiare, che devi fare! Vai, vedi com’è e mangi.”

Festa a Vico è un festival di stereotipi italiani, ma di quelli belli, della dolcevita, del godimento all’italiana, dei problemi e delle meraviglie del nostro amato Sud.

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Lo ammetto, so alcune cose, ma non tutte: e di Festa Vico non sapevo molto. La mattina della partenza mi sono svegliato in hangover, ho perso un treno e ho preso quello dopo facendo uno sforzo da eroe per non addormentarmi o vomitare come un bambino. Non mi ero informato su cosa ci sarebbe stato: ho pensato che a quel punto era meglio viverla come un’avventura e prendere quello che veniva. In treno ho dato una spulciata al sito della manifestazione: tre serate, circa 150 chef e pizzaioli eccellenti, da quelli poco conosciuti a nomi come Antonino Cannavacciuolo e Carlo Cracco. Non sono riuscito a capire molto altro - forse era colpa del sito, forse dell'hangover.

Una volta arrivato, la sensazione era che nemmeno gli abitanti della zona sapessero bene di cosa si trattasse. “È una bella festa”, mi ha detto semplicemente Ludovico, l’autista che mi ha portato in hotel e che mi ha anche spiegato come pescare le seppie. Dopo un rapido check-in, sedevo davanti al golfo con in faccia il Vesuvio in attesa per ore che qualcuno si facesse vivo: avrei dovuto essere preoccupato, invece poche volte mi sono rilassato tanto. Un Old Fashioned, il tramonto, un gatto accanto. C’era un tizio che guidava un carretto col sombrero e sotto la straordinaria scritta “HERMESSICO”. Sì, con il font di Hérmes, se non l’aveste capito.

"Funziona così: tu parli, bevi, fai quello che ti pare. E a un certo punto ti ritrovi una fetta di pizza in mano. E te la mangi. Punto"

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L’incertezza, l’attesa, l’organizzazione raffazzonata, avrebbero dovuto essere tutte cose negative. E invece no: erano l’esatta, romantica, splendida espressione di Napoli e della Costiera Amalfitana, dove le cose si fanno, ma non c’è fretta e un modo si trova sempre. Per esempio, quando la prima sera non sapevo come andare in paese, che si trovava parecchio in alto rispetto all’hotel, il tizio che guidava la navetta ha chiuso le corse per ore. “Che parto a fare, tanto c’è un traffico che non s’arriva mai”. Dategli torto, forza. Festa Vico, per riassumervela in due parole, è un festival di cibo e vino organizzato dal grande chef campano Gennaro Esposito, che fa incontrare una straordinaria manciata di grandi cuochi e li fa cucinare per la gente che vive in paese o la gente che ci viene apposta. Tutto il ricavato dei piatti comprati, delle cene di gala e di qualsiasi si ordini, viene devoluto a diversi progetti onlus.

Vico Equense durante Festa a Vico 2018

Una volta arrivati nel centro del paese, le cose si sono fatte ancora più confuse e affascinanti. Ogni via, ogni negozio, aveva davanti chef intenti a cucinare e far assaggiare i propri piatti alla gente che passeggiava in maniche corte.

Quando dico ogni negozio, intendo letteralmente ogni negozio di Vico Equense: si cucinava nelle farmacie, nelle gelaterie, nelle toelettature per cani. Un intero paese fumava di piatti fatti da chef e non. E di pizza, ovvio. La scena ripetuta random, in qualsiasi punto, era di una pizza che ti finiva tra le mani da qualcuno che intanto ti spronava con un “Mangia, Mangia, ch’è bbbuona”.

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Chef che cucinano a Festa a Vico

E tu mangiavi. Tra i vicoli e la prima cena al tavolo in cui 50 chef stellati divisi in brigata servivano i loro piatti, la testa ha cominciato ad andare per i fatti suoi, lasciando il comando allo stomaco.

Il cibo entrava e ogni volta era un morso di godimento, Cannavacciuolo era costretto a girare con due guardie del corpo per la marea di gente che voleva farcisi un selfie e si chiacchierava tutti con tutti. I miei colleghi stranieri si giravano ogni tre secondi a chiedermi cosa stessero mangiando, aggiungendo un “wow” in loop. Le storie delle persone si incrociavano con la rilassatezza della convivialità e dovunque girassi la testa era pronto un nuovo dolce, una nuova pizza. Un pasticcere napoletano ha servito un babà ripieno di gelato alla pastiera, per dire. Il. Gelato. Alla. Pastiera. Dentro un babà. Mentre bevi. In Costiera Amalfitana. Se conoscete qualcosa di più godurioso in questa vita, ahahhahaha, non vi crederò. La sera è diventata notte, la notte mattina e la mattina, secondo il programma, significava incontrare i produttori: allevatori, contadini, salumai. Credo sia stato il momento più bello di tutto l’evento. Perché capisci la ricchezza dei territori, la bellezza della diversità e il dramma che spesso queste persone vivono ogni giorno.

C’erano salami e prosciutti di maialino nero, che ha un grasso così morbido e dolce da poter usare per mantecare il risotto. Due tizi ci hanno spiegato come hanno fatto risuscitare i ceci rossi e neri di puglia dall’aldilà dei legumi antichi. Un gruppo di uomini vendevano cozze di lago salato e anguille, parlando del mistero che le circonda e facendoti assaggiare queste cozze gigantesche piene di sapore del mare. E poi c’era gente come Gregorio, meraviglioso pastore abruzzese dalla barba ingiallita per il fumo e il cappello di lana per mantenere la testa fresca. “Ormai il lavoro che ho scelto di fare, portare al pascolo i miei animali, sono costretto a non farlo più. Devo essere sempre in viaggio per vendere i miei prodotti, ma non è la vita che ho scelto. Ho visto tanti, troppi, che sono falliti. Purtroppo, a noi arriva sempre meno, stiamo perdendo la nostra identità per colpa delle multinazionali, mentre potremmo vincere facendo le cose naturalmente: solo in Italia il terreno cambia palmo palmo, è una diversità unica.”

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A seguire pizza. Una valanga di pizza al metro. E i primi pomodori della stagione. Il sole che picchiava sulla testa sempre più forte, insieme al vino buono, è stata un’ottima scusa per mettersi in spiaggia a prendere del sole e immergersi nell’acqua fresca dopo il consueto viaggio di ritorno della speranza.

A seguire una cena pomposamente rinominata “La Cena delle Stelle”. Giustamente, visto che praticamente tutti i pluristellati d’Italia erano sotto lo stesso tetto nello stesso momento. Decine di chef hanno fatto assaggiare i loro piatti, uno più incredibile dell’altro: dal riccio di mare sotto una spuma di acqua marina fatto ampress ampress da Pino Cuttaia, alla frittatina di vongole di Moreno Cedroni, a molte altre cose che non ricordo più, perché ormai ubriaco di cibo. Si mangiava, si scherzava, si beveva e a un certo punto è spuntata una pizza. Enorme. Condita da Massimo Bottura. Non ero molto sicuro di voler andare via da lì per il resto della vita. Il tempo sembrava fermarsi in una condizione di perfezione nebulosa. Il Vesuvio stava ancora lì, scuro di notte e sovrastato dalle nuvole di giorno, cartone animato di un’esplosione cui non si crede più.

Massimo Bottura

Quella notte c’è stata anche una festa. Ricordo del gin tonic e gente che sfornava margherite alle 2 di mattina. Funziona così: tu parli, bevi, fai quello che ti pare. E a un certo punto ti ritrovi una fetta di pizza in mano. E te la mangi. Punto.

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Alla fine della seconda notte non avevo ancora bene idea di cosa avrei dovuto fare il giorno dopo. Si concordava un orario, l’orario slittava perché si usa così, e qualcosa veniva fuori. Il qualcosa dell’ultimo giorno - inaspettato, o mi sarei vestito decentemente - era un pranzo alla Torre del Saracino di Gennaro Esposito. Ora, immaginatevi di non sapere cosa vi aspetta. Vi caricano in macchina, passate i lavori, il paese dove siete stati per i due giorni prima e vi ritrovate in un ristorante a due stelle Michelin sovrastato da una torretta medievale, ricoperto di fiori, di fronte a un vulcano e al mare. E immaginatevi lì dentro almeno dieci giovani che preparano piatti tra i più belli che abbiate mai visto. Dalla trota con i fiori di sambuco a un maccherone trasparente di riso, a mò di reinterpretazione del sushi, fino a un’alice poggiata su salse di uno splendore colorato quasi abbacinante. A questo aggiungeteci Massimo Bottura che assaggia tutto con le mani, e avrete quel pranzo.

Un’esperienza così densa da non sembrare vera. Niente pizza, stavolta, ma il caffè con la moka napoletana sì, eccome. Sembravo essere l’unico completamente spaesato questo limbo idilliaco, forse era pure così, ma non me ne importava niente. Tutto era perdonato: le attese, gli spostamenti, il taglio delle piante in strada che bloccavano il passaggio. L’avventura stava per finire e stavo finalmente cominciando a capire cosa fosse questo festival gastronomico. Tutte quelle pippe mentali per la risposta più semplice del mondo: il cibo. Il cibo inteso come dovrebbe essere sempre, in termini di festa e condivisione. Niente di più facile, niente di più appagante.

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La prova definitiva di questa teoria è arrivata l’ultima sera. Sul lungomare di Seiano baracchini a perdita d’occhio facevano uscire dalle piccole cucine novità gastronomiche come quelle dei ragazzi di Barabba a Copenaghen e sapori antichi come i fritti napoletani e la pasta al sugo. E, tanto per cambiare, ti ritrovavi costantemente con una pizza in mano. Alla fine ci siamo ritrovati seduti sulle sdraio della spiaggia, in silenzio, a contemplare il mare ormai nero cercando di infilare in bocca l’ultima zeppola.

Festa a Vico è stato un festival di stereotipi italiani, ma di quelli belli - della dolcevita, del godimento all’italiana, dei problemi e delle meraviglie del nostro amato Sud - che ha mostrato alla gente del posto, agli stranieri e ai turisti come si fa un evento gastronomico come si deve. Mentre ero lì mi sono sentito tutto il tempo spaesato, confuso, sazio e felice. Ma soprattutto orgoglioso di vivere in questo Paese. Una stupenda palette di persone colorate e sorridenti pronte a scannarsi per un piatto gourmet o una pasta fatta sul momento, dai contorni rilassati e mai pesanti. E alla fine il ricavato ha superato i 250.000 euro. Non so voi, ma io questa la definirei un'italiana, romanticissima vittoria.

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