Perché i vini del lago di Bolsena sono adesso fra i più interessanti d'Italia
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Cibo

Perché i vini del lago di Bolsena sono adesso fra i più interessanti d'Italia

E pensare che qui c'erano - e ci sono - un sacco di vigne abbandonate. Sono andata sul Lago di Bolsena per incontrare i produttori che hanno scommesso su questo territorio.
Diletta Sereni
Milan, IT

Il vino naturale è nato come rivoluzione contro la chimica, contro il sistema. Non ci sono sfaccettature: se non curi l’aspetto agricolo, puoi pure mettere zero solfiti, puoi pure chiamarlo naturale, ma stai facendo un vino di sistema

A un certo punto quest’inverno ho realizzato che dovevo fare un viaggio sul Lago di Bolsena. La ragione era altamente scientifica e cioè: mi piacciono i vini che arrivano da lì. Mi ricordo che a una fiera, mentre sprofondavo il naso dentro a un bicchiere di aleatico di Gradoli, ho pensato: non è solo che i vini di questa zona mi piacciono, è che hanno tutti qualcosa che rimanda forte al territorio, al suolo, un’energia addirittura. Non era un pensiero particolarmente fine, ma le fiere di vino hanno il pregio che da un certo punto alcolico in poi ti fanno sentire molto intelligente. Per cui, deciso: parto.

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Per fortuna poi alla fine le migliori decisioni si prendono grazie al vino, e ora che li ho incontrati uno per uno posso dirlo: intorno al lago di Bolsena c’è una gran vitalità di produttori di vino naturale, che fa di questo territorio uno dei più interessanti d’Italia.

vista del lago da Bolsena (vigna di Trish Nelson)

Siamo a nord di Viterbo, vicini al confine tra Toscana, Lazio e Umbria. Il lago di Bolsena è un lago profondo di origine vulcanica e nonostante l’ultima eruzione risalga a qualcosa come centomila anni fa, il vulcano dentro a questi vini ce lo senti eccome. Sta in quella nota minerale, quasi salina, che li rende vibranti. Ma soprattutto il suolo vulcanico è una gran cosa per le piante perché, nel suo misto di tufo, sabbia e lapilli, è ricco di minerali ma povero di materia organica e la vite, come i poeti romantici, se soffre un po’ genera cose migliori. Aggiungici il microclima del lago: ventilato, con buone escursioni termiche giorno-notte e ottieni davvero delle ottime premesse per la viticultura.

Gian Marco Antonuzi (Le Coste) e il suolo vulcanico

Un territorio molto vocato, ma poco considerato. In parte perché l’area intorno al lago è stata per decenni ostaggio di una viticultura orientata alla quantità e non alla qualità, fino al conseguente abbandono di moltissime vigne. In parte perché essendo un territorio con proprietà molto frazionate, non ha favorito l’insediarsi di cantine dai grandi nomi, ad esempio i vicini colossi toscani.

Benché non sia mai citata tra le zone nobili del vino (che sia un bene?) questa terra ha ormai una sua fama consolidata per quanto riguarda i vini naturali, grazie a due cantine nate nel 2004 e oggi molto note: Le Coste, guidata da Gian Marco Antonuzi e Clémentine Bouvéron, e l’Azienda Agricola Occhipinti, di Andrea Occhipinti.

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Andrea Occhipinti nella sua cantina

Gian Marco Antonuzi e Andrea Occhipinti incarnano forse gli antipodi di quello che puoi incontrare nell’ambito del vino naturale. Gian Marco ha una visione del vino naturale senza compromessi, ha fondato Le Coste 14 anni fa con la stessa posizione netta e assoluta che ha oggi: agricoltura biodinamica, zero solforosa.

Andrea è arrivato al vino naturale più gradualmente, da studi di agronomia dove il vino naturale semplicemente non esisteva, e scoprendo anno dopo anno che togliere trattamenti e interventi rendeva il vino più vivo.

Gian Marco ha alle spalle una gavetta nelle cantine francesi; Andrea una tesi sulla zonazione dell’aleatico di Gradoli.

Per come la vedo io, la loro diversità è una risorsa per questo territorio e per il vino naturale in genere. In più, negli ultimi anni le loro cantine hanno fatto da incubatore e anche un po’ da scuola per gran parte dei vignaioli che si stanno installando intorno al lago.

Li incontro entrambi nella stessa giornata di sole, perché entrambi lavorano a Gradoli, località passata alle cronache per via di una seduta spiritica e un grande malinteso, sulla riva nord ovest del lago.

Gian Marco Antonuzi, Le Coste

Le Coste prende il nome dal terreno su cui Gian Marco e Clémentine hanno iniziato nel 2004, recuperandolo dallo stato di abbandono e piantando le loro vigne. È subito fuori dal paese di Gradoli: un susseguirsi di piccole particelle distribuite su più livelli (coste, appunto) dove insieme alle viti, allevate ad alberello, convivono vecchi ulivi e altri alberi, oltre a inerbimenti fissi e molto vari: trifoglio, broccoletti, avena, sorgo e i fiori viola della facelia.

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La biodiversità in vigna (Le Coste)

È l’azienda più grande di quelle che incontro, 20 ettari, tutti in biodinamica dal 2006. Moltissimi vitigni diversi, da varietà antiche come greco, pedino, romanesco, agli autoctoni più noti (aleatico, procanico) fino a uve francesi come pinot nero e syrah “sono dei fuori menù, perché piacciono a me” dice Gian Marco. E la stessa esuberanza poi la ritrovi nelle vinificazioni: tante, diverse, spinte ogni anno dal voler sperimentare ancora un po’, senza paura di aspettare il vino per lunghi periodi di affinamento.

Zappatura a mano (Le Coste)

Gian Marco insiste sull’agricoltura: “tu vuoi scrivere di vino – mi fa – ma anche che palle il vino, parliamo di agricoltura, di biodiversità. Io e Clementine abbiamo iniziato con l’ambizione di creare un’azienda a ciclo chiuso e piano piano la stiamo costruendo: abbiamo un bosco, pianteremo altri alberi da frutto, prenderemo degli animali.”

E insiste sull’aspetto politico, con toni di chi sente di combattere una battaglia culturale: “la coerenza è quello che ci distingue. Il vino naturale è nato come rivoluzione contro la chimica, contro il sistema. Non ci sono sfaccettature: se non curi l’aspetto agricolo, puoi pure mettere zero solfiti, puoi pure chiamarlo naturale, ma stai facendo un vino di sistema. Io faccio 80mila bottiglie, quelli sono 80mila messaggi che mando alla gente.”

Andrea Occhipinti

Per raggiungere la cantina di Andrea Occhipinti mi inoltro per una stradina bianca che sale dal lago verso ovest, in località Montemaggiore. Siamo a 450 metri di altitudine, il lago è a 300 e da qui riesci a vederlo quasi tutto. Andrea mi accoglie insieme a Riccardo Danielli, che lavora con lui sin dall’inizio. Ci mettiamo a camminare per le vigne, tutte coltivate in biologico, con loro due che controllano in silenzio se è tutto a posto.

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Andrea Occhipinti e Riccardo Danielli

Guardiamo un pezzo di terra e Andrea spiega: “Vedi sono sassetti, lapilli, un po’ di pietra pomice. Un terreno relativamente povero, che obbliga la vite a cercare una maggiore profondità. E che nei vini si traduce in una struttura leggera, freschezza e grande bevibilità.

Suolo vulcanico (azienda Le Coste)

Andrea ha scelto di concentrarsi su due uve locali: l’aleatico e il greghetto rosso. Col suo modo mite e privo di vanità racconta che quando ha iniziato nel 2004 andavano per la maggiore i terreni bassi, quelli a ridosso del lago, e l’aleatico si faceva quasi solo dolce. Lui invece scelse dei terreni più alti e di esplorare tutte le potenzialità di questo vitigno. A partire dal suo lavoro di tesi, ha scelto le varietà più adatte al terreno vulcanico e le ha impiantate per selezioni massali. Dopodiché ha cominciato a divertirsi con le vinificazioni, tanto che oggi tra le sue etichette l’aleatico può essere rosso, ma anche bianco o rosato, frizzante o passito.

Massimo Antonuzi, Cantina Ortaccio

I terreni qui costano ancora poco e poi ci sono molte vigne abbandonate che rischiano di essere estirpate

A Latera, un borgo a qualche chilometro da Gradoli, incontro Cantina Ortaccio, fondata nel 2015 da Massimo Antonuzi e Patrizia Montanari, che hanno scelto di cambiar vita e iniziare quella nuova in questo territorio semi sperduto, per farci il vino. Che poi col vino già ci avevano a che fare da tempo, visto che a Roma avevano un’enoteca, ma ovviamente prima non si zappava.

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La loro cantina è un piccolo sogno bucolico, le botti stanno in fondo a una galleria scavata nel tufo, dove la temperatura costante di 12 gradi aiuta a tenere il vino stabile. E poi però c’è anche una terrazza affacciata sulla campagna, una grande cucina, poltrone, libri, quadri. C’è anche un giradischi, Massimo mette su Astor Piazzolla e racconta: “abbiamo recuperato piccole parcelle di vigne vecchie sparse qua attorno. E poi un ettaro l’abbiamo abbiamo piantato noi. Le uve sono quelle locali: procanico, greghetto, aleatico, roscetto. I terreni qui costano ancora poco e poi ci sono molte vigne abbandonate che rischiano di essere estirpate.”

Massimo Antonuzi (Cantina Ortaccio) nella sua cantina scavata nel tufo

Questo tema delle vigne abbandonate e recuperate torna di continuo, e racconta in parte anche il cambio di approccio verso il vino e l’agricoltura, da mestiere di sola fatica a mestiere di ricerca: “la nostra idea è fare un vino integro, che parte da un’uva sana, valorizzata in tutte le sue componenti e senza aggiunte di solforosa o altro.”

Mentre Massimo mi racconta del loro impegno per rilanciare il territorio, penso che davvero vorrei far assaggiare i suoi vini a chi dice che senza solfiti aggiunti il vino puzza. Nel frattempo me li bevo io volentieri, anche perché al momento sono abbastanza introvabili fuori da Roma.

Il Vinco, cioè Nicola Brenciaglia, Daniele Manoni, Marco Fucini

A sud del lago c’è invece Il Vinco, una cantina nata dalla lunga amicizia tra Nicola Brenciaglia, Daniele Manoni, Marco Fucini, trentenni e qualcosa cresciuti intorno al lago. Tutti e tre volevano lavorare alla valorizzazione di un vitigno locale, il canaiolo nero, e raccontano di aver essersi decisi a fondare la cantina grazie a una sbornia collettiva (già ho detto cosa penso delle decisioni migliori). Era il 2014.

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I loro vigneti, sparsi tra Marta e Capodimonte, vanno da una vecchia particella a piede franco a un nuovo appezzamento piantato da loro. Anche qui, come è giusto che sia se vuoi fare vini naturali, camminarci in mezzo vuol dire camminare in un misto di fiori, erbe spontanee, favino per il sovescio: vegetazione che aiuta a creare equilibrio nel suolo e proteggere le piante.

La vigna vecchia del Vinco

Chiacchieriamo nella loro nuova cantina, dopo che per un paio d’anni hanno vinificato da Andrea Occhipinti. Mi spiegano: “l’uva canaiolo (o cannaiola come la chiamano qui) in questa zona si fa da 5 secoli ma ormai è quasi tutta in abbandono o rimpiazzata da vitigni internazionali, noi invece ci crediamo. Del resto non s’è capito perché con tutta la varietà che abbiamo in Italia dovremmo metterci a fare uve francesi.”

Non c’è solo canaiolo, ma anche procanico, rossetto, malvasia bianca con cui fanno il bianco, la loro versione non ufficiale dell’Est! Est!! Est!!! di Montefiascone. E, come nel caso di Cantina Ortaccio, delle loro 5000-6000 bottiglie all’anno gran parte viene venduta all’estero.

Canaiolo

Il bello del vino naturale è anche non fare ogni anno la stessa cosa, ma anzi sperimentare sempre.

Estero che arriva sul lago di Bolsena in vari modi, ad esempio nelle personalità di due vignaiole, approdate qui partendo dai capi opposti del mondo e tutte e due formatesi lavorando a Le Coste.

C’è Joy Kull, che è originaria del Connecticut e ha lavorato a New York come sommelier e venditrice di vino, prima di capire che invece il vino lo voleva proprio fare. Così pensa all’Italia e seguendo i consigli e il caso arriva a Gradoli: “appena ho messo piede qui ho capito subito che ci volevo rimanere: l’energia che sentivo, il terreno, le potenzialità per il vino.” Cinque anni dopo aver guardato per la prima volta il lago, le sue radici sono salde: si è sposata con un pastore di qui, è diventata madre e la sua azienda, La Villana, cresce ogni anno un pezzettino.

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Joy Kull, La Villana

“Ho scelto il nome Villana perché quando sono arrivata sentivo gli anziani raccontare storielle sul villano e il pecoraro, cioè il contadino e il pastore. Nelle storie i due litigano sempre perché le pecore rovinano la vigna. Mi piace pensare che io e mio marito abbiamo risolto questa tensione: anzi si è creata una simbiosi tra le sue pecore e le mie vigne, gli animali ci aiutano a tenere il terreno in salute.”

Nei vini di Joy e anche nelle sue parole si sente che ha imparato molto a Le Coste, è lei stessa a dirlo: “è stata una scuola incredibile, mi ha insegnato a non aver paura di lavorare senza solfiti, e che il bello del vino naturale è anche non fare ogni anno la stessa cosa, ma anzi sperimentare sempre.”

Trish Nelson, Gazzetta

Un approccio simile si riconosce nelle parole di Trish Nelson, che invece arriva da Sidney e sta iniziando a fare il suo vino sulle colline a ridosso di Bolsena, riva nord est del lago. Prima di arrivare qui Trish ha lavorato in varie cantine: Cantina Giardino, Le Coste e dal 2015 Ajola,. Nel 2017 ha fatto la prima vendemmia del nuovo progetto e tra qualche mese sarà imbottigliata ed etichettata col nome di Gazzetta, che poi è come si chiama la località dove si trovano le vigne.

Il lago visto dal lato ovest (vigna Andrea Occhipinti)

Sono ripartita dal Lago di Bolsena con molte bottiglie nel portabagagli e qualche pensiero: che un merito indubbio dei vini naturali, oltre ad aver messo in discussione la noiosa (per me) retorica della degustazione, è che ci fanno volgere lo sguardo al di là delle zone blasonate del vino per scoprire territori meno noti, ma altrettanto interessanti.

Dove forse è più facile far partire un’azienda se non vieni da una stirpe di viticultuori, perché non c’è una fama da rispettare o più semplicemente per il costo abbordabile dei terreni.

E che poi paradossalmente sono questi piccoli eretici del vino quelli che vanno a recuperare la memoria del territorio e la rimettono in sesto, una particella alla volta.

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