La scienza dietro ai menù delle catene di ristoranti

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Cibo

La scienza dietro ai menù delle catene di ristoranti

Ho lavorato come consulente nel settore della ristorazione. Ecco come creiamo le catene di ristoranti che vi piacciono tanto.
AW
illustrazioni di Adam Waito

I consulenti si accertano che il cibo sia invitante e a prova di cliente. Armati di lavagne, mappe concettuali e post-it, i consulenti ideano e modellano la scena della ristorazione, scervellandosi su quei dettagli che decreteranno la riuscita o meno di un progetto.

Ogni vetrina su cui sono disposte le pizze racconta una storia a sé. E chi l’ha creata lo sa bene. Nulla, dalla grandezza delle fette alla quantità di parmigiano o di peperoncino a scaglie, è lasciata al caso, soprattutto quando si tratta del primo cliente di cui vi parlerò oggi: una catena di pizzerie con base a San Diego. Il CEO di quest’azienda è particolarmente contento della disposizione delle vetrine, perché porta il cliente a non pensare si tratti di una catena di ristoranti.

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E così, adesso (cioè qualche tempo fa), immaginatevi che su quelle mensole di metallo laminato ci siano sei pizze diverse, fra calzoni, insalate e bevande di ogni tipo. Ci sono volute tre settimane intere di test per rendere quelle pizze così buone e speciali. Per ogni cliente che trovava la formula perfetta, ce n’erano almeno sei che notavano una qualche mancanza o imperfezione nella ricetta, che si trattasse del livello di croccantezza, della mozzarella o dei peperoni poco cotti.

La strategist addetta alla disposizione degli interni di questa catena aveva tirato su una pila di lavagnette minuscole dalla sua scrivania e le aveva utilizzate per scrivere su i nomi di ogni pizza. Dalla “Bronx” alla “Triboro,” ogni nome ammiccava al target audience della catena, che di base ricercava un’esperienza da pizzeria simile a quelle che puoi trovare a New York. Completato il lavoro agli interni, la strategist aveva chiamato il capo della nostra agenzia per valutare il lavoro.

Lui, dopo aver toccato delicatamente alcuni pezzi di pizza, e dopo essersi visibilmente meravigliato della loro durezza, aveva affermato che i pizza roll non fossero al loro stato ottimale, soprattutto tenuto conto di come sembrassero costretti in uno spazio così piccolo. “Abbiamo altre opzioni? Forse una teglia rettangolare con bordo?”.

“Sì,” aveva allora risposto la strategist. "È una soluzione.”
“Servono caraffe più piccole per il vino. Non vogliamo che i clienti siano tratti in inganno dalle porzioni.”

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Fu allora che incrociò le braccia e aggrottò le sopracciglia.

Queste IPA evocano scenari piovosi, neanche fossimo a Portland. Qual è la birra newyorkese per eccellenza? Quella che trovi ovunque, anche al locale sotto casa?”.
“La Brooklyn Lager?” chiese lo strategist.
“Cosa mi dite della Blue Point?” rilanciai io dall’altra parte della stanza. “È un po’ più cool.”

Speravo non notasse la nota sarcastica nella mia voce. Sebbene non potessi affatto lamentarmi dei benefit del mio lavoro (leggasi: pizza gratis), lavorare in quell’agenzia era un’arma a doppio taglio. Avevo passato quasi 8 anni in università ad analizzare i banchetti ottocenteschi a base di carne di cervo, e ora mi trovavo qui, a cercare su Google immagini in alta definizione di contenitori per patatine fritte. Ovviamente era comunque meglio di una qualsiasi posizione da professoressa associata in un’università di serie B. Cercavo di non lamentarmi troppo. E poi il capo non sembrava notare la mia esasperazione.

“Perfetto, facciamo in modo di averne qualcuna pronta per gli assaggi di domani,” aveva persino risposto.

È solo da pochi anni che le agenzie specializzate in strategie di marketing hanno mostrato interesse in pizzette e alette di pollo, perché fino a vent’anni fa le catene di ristoranti abitavano un mondo molto più semplice. Da un lato non erano ancora fast food, dall’altro per i modelli di “semplice cena in famiglia o tra amici” si è dovuto aspettare fino agli anni Settanta/Ottanta.

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La nascita e conseguente gloria dei cosiddetti ristoranti “fast casual ha avuto luogo a fine anni Novanta (soprattutto grazie agli americani Chipotles e Paneras), e da lì ha poi sconvolto per sempre lo status quo della ristorazione. I ristoranti fast casual, grazie alla maggiore qualità del cibo e all’atmosfera accogliente, che dal canto suo non implica i limiti operativi di un ristorante classico fatto e finito, sono allo stesso tempo prodotto e fautore di un cambiamento dell’esperienza gastronomica. Grazie ai ristoranti fast casual noi clienti possiamo lasciarci andare ma anche mangiare sano, ordinare cibo su richiesta ma anche non spendere tutti i risparmi del mese. Nell’ultimo periodo, poi, il lato salutistico e sostenibile si è accentuato maggiormente, rendendo tutti davvero felici (investitori compresi).

E così i consulenti della ristorazione si sono dovuti adoperare di conseguenza. Tra una catena che vende sandwich ai pretzel al cinema, i consulenti si accertano che il cibo sia invitante e a prova di cliente. Armati di lavagne, mappe concettuali e post-it, i consulenti ideano e modellano la scena della ristorazione, scervellandosi su quei dettagli che decreteranno la riuscita o meno di un singolo progetto.

Aperitivo o accompagnamento? Portate separate o combinazione di tutti i piatti? Il menù dovrebbe essere personalizzabile? O curato dallo chef?

Grazie ai dipartimenti marketing interni alle aziende, molte catene non necessitano realmente di un consulente. Però da noi consulenti arrivano comunque i clienti, con nuove idee, le domande sui catering e i loro ristoranti che non sono davvero ristoranti. C’è anche chi ci raggiunge in quanto ultima (loro) spiaggia. Ecco, questi ultimi sono i dipendenti o i proprietari di catene che non hanno mai sbancato, che sono nel bel mezzo di una crisi d’identità o necessitano il prima possibile di una rivitalizzazione.

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Un cliente, una volta, è giunto da noi con una storia familiare. Si trattava di un ristorante fast casual dell’Arizona, che aveva speso quantità ingenti di denaro in indagini di mercato che, alla fine, non avevano portato a niente. Per di più il loro menù era vecchio, ordinare qualcosa era complicatissimo, i clienti abituali stavano invecchiando e i guadagni erano ai minimi storici.

Il CEO del ristorante, un uomo del Sud un po’ allampato e con un’esperienza ventennale nell’industria del pollo fritto, ci aveva rivelato che “i clienti valutano il nostro cibo come migliore di quello di Panda Express, eppure Panda Express guadagna di più.” Panda Express, nota catena statunitense, non usa ingredienti di grande qualità, quindi il paragone rivelava parecchi dei problemi del ristorante fast casual in questione.

Fase Iniziale della Consulenza

Non sapete quanti ristoranti sono andati in malora perché un piatto particolare era stato rimosso dal menù o una polpetta si era trasformata in una polpettina.

Ogni progetto che prendevamo in considerazione iniziava con una “Fase Iniziale,” il cui culmine era rappresentato da un colloquio faccia a faccia con il cliente, per capire quali fossero i suoi obiettivi e le sue intenzioni. Queste riunioni spesso finivano per sembrare sessioni di terapia. Noi dovevamo porre svariate domande, passando dai successi agli insuccessi, e ancora dagli eventuali cambiamenti e investimenti che erano disposti ad affrontare. Più di ogni altra cosa, la Fase Iniziale ambiva a creare un linguaggio comune con il cliente, e non si trattava sempre di una cosa semplice. Anche perché ogni CEO o gestore utilizzava un vocabolario diverso e unico nel suo genere.

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“Allora, per differenziarci da Panda Express,” aveva continuato il CEO, “il consiglio ha votato all’unanimità per l’adozione di un menù più fresco e leggero, e di un posizionamento del brand più cool.”

Sicuro di sé, con un debole per le bici da strada in fibra di carbonio e i blazer dal taglio europeo, il nostro client manager era quindi subito intervenuto, parlando velocissimo come faceva sempre. “Lasciate che io vi chieda una cosa. C’è qualche elemento del vostro menù che rappresenta la nuova direzione verso cui volete dirigervi?”.

Il CEO e il CTO del ristorante (era venuto pure lui alla riunione), si guardarono un attimo e poi, all’unisono, risposero “il pollo caramellato.”

Fu allora che il nostro manager annuì solennemente. Il Caramel Chicken era un successo della nostra agenzia, sviluppato circa cinque anni prima e ancora largamente apprezzato secondo indagini di mercato. Dopo aver esaminato più di 12000 commenti, infatti, il CEO ci aveva rivelato che il pollo al caramello fosse uno dei più richiesti dai clienti. E dato il recente adattamento della cucina asiatica a quello che è il mercato americano, ancora timido nei confronti della fermentazione e del pho, non è difficile capire perché. In un menù come quello del nostro cliente, carico di sapori familiari e poche sparute carote, il pollo caramellato era l’unico con verdure fresche al suo interno.

Più di qualsiasi altra cosa, però, il pollo caramellato sembrava trovare il favore del target audience principale dell’azienda: “la clientela femminile, età 24-39, che ama gli stili di vita sani.” Istruita, attenta, forse sposata, forse no, gli studi indicavano questa cliente tipo come amante della freschezza, dell’autenticità, dei nutrienti e della manodopera. Era un po’ un enigma da risolvere. I guru del marketing avevano provato a corteggiarla con il riso di venere nel sushi, invano. Contemporaneamente, però, soddisfare lei rischiava di allontanare i clienti più conservatori. E questo era il problema. Non sapete quanti ristoranti sono andati in malora perché un piatto particolare era stato rimosso dal menù o una polpetta si era trasformata in una polpettina.

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Insomma, avevamo una bella gatta da pelare fra le mani.

Fase d'Identità

Ispezionavamo la dispensa, il team, i gesti, ogni singola portata del menù, presentazioni del piatto incluse

Se la Fase Iniziale chiariva la visione del cliente, quella d’Identità rendeva evidenti tutte le erbacce da estirpare. La Fase d’Identità scavava a fondo in quelle che erano le debolezze e i punti di forza dell’azienda, iniziando da un’immersione totale in loco, tra le mura di uno (o più) punti vendita dell’azienda. Ispezionavamo la dispensa, il team, i gesti, ogni singola portata del menù, presentazioni del piatto incluse. Valutavamo tutti i cibi, sedendoci e osservando il comportamento dei clienti. Cosa ordinavano? Come lo mangiavano? Con chi arrivavano? Quanto rimanevano nel ristorante?

In questa fase suonavano tutti i campanelli d’allarme del caso. Per questo cliente nello specifico, la cui catena si basava su di un “concept pan-asiatico,” erano evidenti le lacune sia nel menù che altrove. Nel primo avevamo trovato quasi esclusivamente piatti che strizzavano più di un occhio solo alla cucina cinese. C’erano problemi con i fornitori, e i cuochi realizzavano i ravioli a mano senza ricevere alcun merito per questo, senza che neppure i clienti lo sapessero.

Finita anche questa disamina, il nostro team era tornato in ufficio, decorando la lavagna bianca con tantissimi post-it colorati e pieni di annotazioni.

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“I piatti non danno alcun segno di freschezza.” “La presentazione dei piatti non invoglia alla condivisione.” “Le portate di Pad Thai non richiamano la tradizione del piatto.”

Anche il nostro manager aveva parecchie cose da dire. “Continuavano a parlare del target audience, della donna sana a cui piace mangiare sano. Ok, ma dov’erano le mamme hipster lì? Perché non ho visto nessuno con gli yoga pants?”. Così, per rispondere a quelle domande, avevamo ipotizzato una sorta di tour culinario partendo alla volta d’indagini di mercato tarate sulle grandi città, focalizzandoci sulle ultime tendenze gastronomiche e di design. In quel caso eravamo arrivati a visitare dodici ristoranti in due giorni, che era poco per i nostri standard (a volte si arrivava a mettere piede in trenta ristoranti in un giorno).

Alla seconda fermata della giornata, per le mani rugose del CEO dell’azienda nostra cliente era passato uno ssam wrap. “Amo questo foglio di pasta di… riso? Non so, emana freschezza.”

Anche in questo caso il nostro manager aveva risposto annuendo con la testa. “Ora guarda quel piatto lì, quel piatto di riso nel tavolo accanto. Ecco le proteine contemporanee, marinate e grigliate. Nessuna salsa.”

CEO e CTO si girarono ancora, notando subito una bistecca morbida e rosata. “Ecco, soffermatevi anche sull’insalata di cetrioli d’accompagnamento, e alle cipolline che regalano sicuramente una consistenza diversa,” aveva quindi continuato sempre il nostro manager. “C’è l’elemento aspro, quello sottaceto, e tutti gli altri gusti. Tutti in uno. Qui c’è tutto e il cliente sceglie davvero quello che vuole.”

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Rapito dalle sue stesse parole, il nostro manager decise di spostarsi sul lato dell’interior design. “Guardatevi attorno! Soffermatevi sui materiali argentati, sul menù-lavagna in stile vintage a sostituzione di quello digitate… soffermatevi sull’esperienza da fast casual d’eccellenza, o meglio fine casual, che emana.”

“Ho già sentito il termine fine casual,” ci aveva tenuto a rivelare il CEO. “ Quando penso a fine casual penso a una frequenza inferiore della consumazione, e ciò mi rende nervoso.”

Dal tour, come sempre, erano uscite 80 slide su cui avevamo appuntato svariate linee guida. E con le slide, ovviamente, finiva anche questa fase identitaria.

Abbracciate un concetto più ampio di “cucina asiatica.” Siate i fautori innovativi di una cucina asiatica salutare. I menù devono esse più facilmente fruibili. Siate più solidali con i clienti solitari.

Il CEO, tuttavia, non era soddisfatto. Era nervoso, lo avevo capito da un tic vocale durante una chiamata, e smaniava per il menù nuovo quando ancora nessun piatto era stato presentato.

Il menu sarebbe arrivato, lui però doveva calmarsi.

Il linguaggio che utilizzano i consulenti della ristorazione è freddo, asettico, un po’ cinico. Il menu lo chiamiamo “offerta,” il pollo e le bistecche rientrano nella categoria delle “proteine” e “aggiunte di freschezza e consistenza,” erano espressioni comuni. La stesura del menù, che poi decretava anche la Fase Creativa, si fondava su questo registro linguistico.

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Rendere il Menu desiderabile

La “desiderabilità” alimentava l’appetito, e l’empatia rafforzava l’esperienza complessiva

Quello che una catena di ristoranti deve diventare, però, è “desiderabile.” Rendere il cibo “desiderabile” era il nostro scopo, ed era molto frequente sentire questo aggettivo o i suoi sinonimi in giro per i nostri uffici. “Cibo da orgasmo,” “bomba all’umami,” “cibo che non riesci a smettere di mangiare”: questo era il fine ultimo.

La “desiderabilità” alimentava l’appetito, e l’empatia rafforzava l’esperienza complessiva. Un “menù empatico” garantiva un buon inizio di giornata a qualsiasi gestore, perché sapeva che nel suo ristorante sarebbero arrivate mamme desiderose di viziare i propri figli con qualcosa di sano, studenti in post-sbornia alla ricerca di comfort, e adolescenti desiderosi di caricare un post acchiappa-like su Instagram. E come rendere un’esperienza culinaria empatica? Beh, a volte basta togliere i piatti e mettere le ciotole.

Nomi ironici, tipici di una zona o stimolanti da un punto di vista nostalgico sono sempre i benvenuti.

La stesura delle parole del menu è poi la ciliegina sulla torta. Calibravamo a lungo le parole, cercando di trovare termini che intrigassero le aspirazioni di chi poi lo avrebbe scorto da inizio a fine. “Nori roll” suona più sofisticato di “sushi roll,” ma allo stesso tempo può far storcere il naso al cliente più conservatore. “Carne di maiale” è di solito un grosso “no” nell’industria del fast casual, e in genere è sempre meglio optare per un più succulento “bacon.” Nomi ironici, tipici di una zona o stimolanti da un punto di vista nostalgico sono sempre i benvenuti.

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Fase di Sviluppo

Voi non avete idea di quante volte una singola salsa poteva subire processi di rivisitazione o stravolgimento.

Nella Fase di Sviluppo tutti gli elementi si scontrano, creando qualcosa di unico. Si chiama il team di lavoro, fra cui si contano chef, degustatori e chili di piatti scartati che io e i miei colleghi divoravamo. Come ribadiva il nostro manager, solo con la pratica si poteva raggiungere la perfezione, e voi non avete idea di quante miriadi di volte una singola salsa poteva subire processi di rivisitazione o stravolgimento. I piatti fatti e finiti venivano poi mostrati e degustati. Questa fase nella fase creava molto fermento all’interno della nostra agenzia, e anche i non addetti ai lavori cercavano un modo per passare “casualmente” nella sala conferenze in cerca di un gesto, un movimento o un qualsiasi cenno da parte dei clienti. Io spesso ero incaricata di portare forchette o di riempire le brocche d’acqua, quindi sovente mi capitava di scorgere pezzi di conversazione o discussioni. “Il cibo asiatico non è più automaticamente ritenuto salutare. Nessuno crede più che il riso venere e le ciotolone d’insalata siano salutari solo perché asiatiche,” aveva specificato il nostro manager. “Adesso i clienti percepiscono altri cibi come salutari e freschi, prendete a esempio l’avocado.”
In quell’occasione specifica il mio compito era quello di entrare con dell’hummus all’edamame, riponendo una ciotolina con tanto di verdure e patatine wonton al centro del tavolo (questa era solo a scopo espositivo) e le sette mini-porzioni ai degustatori. “Questa è la nostra versione delle patatine da condividere con gli amici. Si discosta molto dal vecchio menu, ma siamo certi piacerà,” aveva spiegato il manager. “È più divertente.”
Il socio aveva annuito. “Abbiamo notato questo tipo di piatto ovunque nelle indagini di mercati. Un sacco d’ingredienti asiatici stanno facendo breccia in esperienze culinarie tipiche del mondo non-asiatico.” “Rimane l’associazione tra cibo asiatico e salute.”
“Esattamente. L’hummus all’edamame non toglie niente. È desiderabile, se lo vedi lo brami, ma allo stesso tempo non scoraggia la cliente amante del cibo sano che pensa di far bene alla propria salute mangiandolo.

Tutti in agenzia sapevano quanto fosse importante mangiare prima di questa fase per poi limitarsi a degli assaggini. Parliamo di una maratona del cibo della durata di tre/quattro ore e più di venti piatti sul tavolo. Spesso i clienti non erano dei veri esperti.

“Sì, è credibile,” aveva esordito la rappresentante del dipartimento di branding. “Sicuramente lo ordinerei per l’aperitivo.”
Il suo entusiasmo non mi aveva sorpresa. Il vecchio menu soffriva del paradosso dell’abbondanza. Ricreava l’illusione della scelta quando, in realtà, ogni tre piatti c’era la solita rimescolanza d’ingredienti americani e cinesi.

Per (ri)finire il tutto, avevamo optato per una serie di ammiccamenti ad altre realtà culinarie asiatiche, tra piatti di chirashi al salmone e avocato, bibimbap coreano, ramen e “menù famiglia” ripieni di germogli di soia e broccoli. Non ci eravamo neppure fatti mancare caffè vietnamita e tè chai.
“Questo menu sta prendendo il volo,” aveva quindi affermato il CMO, “ma non è in linea con il posizionamento del brand, che si focalizza su freschezza, leggerezza e un’esperienza cool. Qui vedo più una ricerca di un lifestyle.”
“Quali sono le prospettive di vita di questo menù?” aveva poi chiesto anche il CEO. “Questi piatti quanto rimarranno popolari?”. A questa domanda non avevamo una risposta, perché nessuno può saperlo. Parte dei nostri compiti era “evolvere i menù,” ma l’evoluzione non capita in pochi giorni. Sviluppare un menu valido significa analizzare tanto materiale, ciarpame incluso, spolverare le superfici per renderle più brillanti e pulite, persino sapendo che, a volte, i risultati potrebbero rivelarsi più vicini all’originale che a qualcosa di nuovo. Nulla è certo. Ci sono clienti che tornano chiedendo aiuto per un altro menù, altri che vogliono coinvolgerci in nuovi progetti. C’è chi non torna mai più da noi. C’è chi si rivela una barchetta giocattolo che sperava di navigare nell’oceano. Per quanto riguarda questo famoso cliente, stanno ancora cercando di far quadrare tutti i conti e le opinioni. Non fanno più affidamento alla nostra agenzia, ma ogni paio di mesi so che provano a lanciare un nuovo menu. Una volta ci hanno provato con la quinoa, poi con il poke, e ancora con il pollo all’arancia, che poi è uno dei punti di forza del loro competitor più grande, il Panda Express.
Chi lo sa per quanto andranno avanti. Dopotutto nessuno sa quale sia la ricetta matematica per il successo assicurato.

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Quest'articolo è originariamente apparso su Munchies US.