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Cibo

Il doppio problema di quando sei donna e di colore in cucina

Noi donne di colore spesso rimaniamo inascoltate nell'industria del cibo. Ancora per poco, però.
Foto via Getty Images.

La telecamera è fissa su Mark Bittman, che è seduto di fronte a una stanza gremita di gente allo Stone Barns Center for Food and Agriculture.

“Risponderai alla mia domanda?” incalza quindi Nadine Nelson (che nel video non potete vedere ma sentire sì, e benissimo). Nadine Nelson è una donna di colore, una chef e un’attivista. Ha appena chiesto a Bittman “in quale misura si assume responsabilità per le persone di colore e per le comunità più vulnerabili” che operano nel settore gastronomico.

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“Non credo di aver capito bene la domanda. Non sono certo di aver capito cosa lei intenda per ‘assumere la responsabilità'” è stata la sua unica risposta. Bittman è giunto agli onori della cronaca anche per aver parlato apertamente del razzismo e del sessismo all'interno del Good Food Movement, ed è quindi comprensibile che Nelson voglia sapere se, a conti fatti, lui stia facendo qualcosa in nome dell’inclusività o meno. Anziché ricevere una risposta chiara, tuttavia, Nadine Nelson incontra un muro d’ostilità e viene invitata a sedersi nuovamente al proprio posto. A quando pare la sua domanda non merita nessuna risposta.

Ecco, se mi chiedeste di riassumere cosa significhi essere una donna di colore nell'industria del cibo nel 2017, penso proprio che questo scambio di battute basterebbe. “Inascoltate” e “inosservate” sono altre due parole che userei per descrivere la situazione, perché anche quando qualcuno ci ascolta e ci osserva, il passaggio successivo è comunque farci risiedere al nostro posto. Dobbiamo farci forza da sole, con meno risorse a disposizione e spesso con meno investimenti. Dicono che, sebbene non saturi certo il mercato del lavoro, il valore delle donne di colore nel settore alimentare non si possa enfatizzare troppo.

Quest’anno abbiamo analizzato a fondo la vecchia guardia dell’industria del cibo, azzardando domande scomode. È stato l’anno delle notizie strazianti e delle prese di posizione contro alcuni dei nomi più importanti del settore. Un sacco di donne si sono fatte avanti raccontando le molestie sessuali subite, permettendo che le proprie storie si propagassero a macchia d’olio e venissero lette da tutti, sia sui vari siti specializzati che sui social media.

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Per noi adesso è difficile continuare a credere ci sia ancora integrità all'interno settore, o che potrà mai essere considerato un luogo sicuro per le donne.

Quando lavoravo nei ristoranti, spesso venivo ricoperta di complimenti per le mie capacità d’ospitalità e interazione con i clienti. Ero un po’ un camaleonte dei suoni, modulavo il tono della mia voce a seconda di chi dovevo servire, mutando il mio atteggiamento in base a cosa pensavo volesse il cliente (una coppia che sta festeggiando il proprio anniversario, ad esempio, mostra bisogni diversi di un tavolo di cinque colleghi di lavoro). Mi muovevo seguendo le onde del ristorante, da dietro a davanti il bancone, fra i tavoli della sala. Quando non volevo ricevere attenzioni, mi mimetizzavo con il muro.

Il 2017 ha segnato l’anno in cui ho finalmente capito che prendermi e rivendicare i miei spazi, sia in senso fisico che metaforico (grazie al mio lavoro da food writer), non sia sbagliato.

Ho creduto a lungo che essere al servizio degli altri fosse la mia più grande abilità. Misuravo il mio valore in base a questo, pensando che solo così fosse possibile lasciare il mio contributo al mondo della gastronomia. La mia felicità e motivazione si alimentavano in questo modo: provvedendo al bene altrui.

Il 2017 ha segnato l’anno in cui ho finalmente capito che prendermi e rivendicare i miei spazi, sia in senso fisico che metaforico (grazie al mio lavoro da food writer), non sia sbagliato. Non m’interessa più “muovermi seguendo l’onda” alla continua ricerca d’approvazione. Sono una donna di colore, la mia storia è importante ed è importante condividerla con il resto del mondo. Ora so che ha lo stesso valore di qualsiasi altra storia, e spero così, raccontandola, di aprire un piccolo spiraglio che incoraggi qualsiasi altra donna di colore a condividere la propria.

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Sono davvero stanca di tutte quelle pubblicazioni che prima evidenziano la mancata presenza di diversità nell’industria, e poi pensano bastino due o tre articoli su personalità di colore o ristoranti ad Harlem per ricucire le toppe problema.

È arrivato il momento di analizzare attentamente la base della struttura piramidale che governa la stampa a tema, nonché i vari locali e ristoranti, per ricostruirla poi da zero ponendo tutti sullo stesso livello, donne di colore incluse.

E con questo non voglio dire ci serva un invito formale per prendere posto a tavola, bensì che noi donne di colore rivendicheremo di diritto il nostro posto attorno al tavolo delle trattative, gustandoci nel mentre dei piatti che ci siamo cucinate da sole.

Per questo, mentre siamo tutti intenti a progredire verso una società migliore, non dobbiamo mai smettere di ricordare che, per giungere alla parità, sia assolutamente necessario ascoltare le voci delle donne di colore. I passi mossi versi il progresso, fino a ora, sono stati tanti, ma abbiamo ancora molti chilometri da macinare. La meta finale non sarà raggiungibile facilmente, infatti, se lasciamo queste voci indietro a riecheggiare.

Uno degli aspetti più piacevoli del cibo è che, come siamo soliti pensare, abbia la capacità di unirci a prescindere dall'identità di genere e dalle etnie di provenienza. Crediamo che l'amore condiviso per la cucina consolidi tutti i rapporti nell'accezione migliore del termine. In realtà, l’arte culinaria non è immune alle dinamiche di potere presenti in qualsiasi altro tipo di settore, ed è necessario perciò demolire, mattone dopo mattone, il muro d'oppressioni che la circonda.

“Nessuno è libero se non sono liberi tutti” affermava Fannie Lou Hamer. E io non posso che concordare con lei.