Cosa c'entrano le lacrime e la politica nella Guida Michelin?
Jeppe Foldager. Illustration. Søren Arildsen

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Cosa c'entrano le lacrime e la politica nella Guida Michelin?

Il tuo ristorante è eccellente, ma la Rossa non ti premia. Succede spesso nel mondo dell'alta cucina. Qui la storia di uno chef che ci è passato.

Non aveva nulla a che fare con il cibo, né con le vaschette di plastica o altro. Si trattava di politica. E non potevo farci nulla.

Attorno ai tavoli delle migliori cucine del mondo, al momento, operano mani impregnate di sudore freddo. E possiamo facilmente capirne il motivo: ogni anno arriva un particolare momento in cui gli chef crollano, i destini e le carriere possono rovesciarsi, e le nuove stelle della gastronomia si accendono nel firmamento delle eccellenze. Ogni anno, insomma, c'è periodo in cui tutti cercano di capire chi vincerà e chi perderà, capitolando fra i meandri più impietosi dell’industria del cibo. È quel periodo è notoriamente quello dell'assegnazione delle stelle Michelin.

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Soddisfare la vecchia e cara Guida Rossa è difficile, poiché si tratta di un’amante esigente. Non si può prevedere cosa succederà né perché; non si lascia sfuggire di bocca nulla.
Uno degli chef che più di tutti ha dovuto gestire i capricci della guida, venendo trattato da stella della gastronomia senza però riceverne ancora una, è Jeppe Foldager, chef dell’Alberto K di Copenaghen dal 2013 al 2017. Lo incontro a Nørrebro, davanti a un piatto di cozze. “I primi due anni in cui non avevo vinto nemmeno una stella, li ho passati a versare lacrime,” rivela subito Jeppe senza pensarci troppo. Gli lancio qualche occhiata dubbiosa. Dovete sapere che Jeppe è uno dei figli del noto ristorante Søllerød Kro (dove ha lavorato in veste di sous-chef), e ha vinto la medaglia d’argento a una delle competizioni più importanti al mondo, il Bocuse d’Or, nel 2013.
Il suo ristorante, l’Alberto K, è tra i più rinomati al mondo ed è consigliato direttamente dalla guida Michelin, e credo fermamente Jeppe non abbia niente da dimostrare a nessuno, data la sua indiscutibile bravura.

Jeppe nota subito il mio sguardo perplesso. “Cosa diavolo avrò mai fatto di così sbagliato? Era questo che mi domandavo. Non ho mai dubitato l’Alberto K fosse eccellente in termini di qualità, sia per quanto riguarda il cibo che il vino. Ne ero e ne sono convinto davvero. È un ristorante da guida Michelin, punto. Eppure qualcosa mi doveva essere sfuggito, qualcosa a cui non avevo prestato le dovute attenzioni.”

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Ecco, quella sensazione di mancanza, di un qualcosa che inspiegabilmente è sfuggito agli occhi degli chef, è invece ben chiara agli ispettori della guida Michelin, come dimostrato anche dai numerosi articoli che, fino ad ora, hanno trattato questa tematica. A quanto pare, infatti, gli ispettori sono dotati di particolari sensi che permettono di analizzare e scovare persino gli errori più impercettibili, si trovino essi sotto una sedia, un tavolo o in un angolo nascosto del ristorante.
Il problema più grande è che solo la guida sa di cosa si tratti, e se qualcuno chiede delucidazioni, non ottiene risposta. Dopotutto, è uno dei prezzi da pagare. “Il primo anno avevo fatto sparire tutte le vaschette di plastica che usiamo per conservare gli alimenti. Credevo avrebbero dato l’idea il nostro cibo fosse di qualità dozzinale.”
Dopo questa confessione, ammetto di aver trattenuto a fatica le risate. Davanti a me avevo uno degli chef migliori al mondo, e in pochi secondi me lo sono dovuto immaginare a gattoni intento a far sparire da ogni pertugio, sedia o tavolo, delle vaschette di plastica. L’anno seguente, prosegue, non è andata poi tanto diversamente. Aveva aggiustato un po’ il tiro a livello estetico, rendendo il ristorante più piacevole alla vista, perché non aveva idea di cosa avesse potuto sbagliare l’anno precedente, ma alla terza stella Michelin mancata, aveva dovuto fermarsi un attimo a pensare più attentamente. “Non aveva nulla a che fare con il cibo, né con le vaschette di plastica o altro. Si trattava di politica. E non potevo farci nulla.”
Se vale la regola che sport e politica non dovrebbero mai mischiarsi, allora non dovrebbero farlo neanche politica e cibo. Com'era possibile quindi, fosse successo?

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“Non m’importa,” risponde Jeppe divorando le cozze. “Cosa succede se non gradiscono particolarmente la catena di hotel per cui un dato ristorante fornisce il proprio servizio? Cosa posso farci io? Mica cucino cibo per loro.” Molti degli chef più famosi al mondo sanno stare al gioco. E non c’è nulla di male in questo. Sono bravi, caricano la giusta foto su Instagram al momento giusto, ovviamente senza sbagliare gli hashtag, poi ritwittano il tweet giusto dalla pagina della Guida Michelin (o di un’altra guida), supportandone e mantenendone alte la rilevanza e la legittimità. Facendo ciò, di rimando, attirando attenzione su di sé. Anche qui, al tempo giusto. “Mentirei se ti dicessi che non mi sono mai chiesto come fare per ingraziarmi la Guida Michelin. Il punto è che non voglio vendermi a questo meccanismo, non sono una prostituta. Per questo non ho mai usato, per esempio, l’hashtag #michelin. Se è così che si diventa parte del club, be’, allora non m’interessa farne parte.” Il 31 marzo 2017 Jeppe ha gestito per l’ultima volta la cucina dell’ Alberto K, pronto per una nuova avventura. Non mi spiega bene dove andrà, so solo che lo troverò in un nuovo hotel di Copenaghen, in un ambiente più grande. Anche quest’anno ha visto sfumare la possibilità di vincere una stella.
“Se la dovessi vincere quest’anno sarebbe decisamente divertente, perché non ci ho pensato nemmeno un momento. Almeno fino ad adesso, a quest’intervista.” Il tempo dei menu giganti è terminato per Jeppe, così come, in realtà, per tutta Copenaghen. “Ora il trend prevede menù con meno portate e più ingredienti locali. Il mio menù sarà a quattro portate e à la carte, sarà grandioso. Un po’ più vivace e selvaggio rispetto a quello all’Alberto K. Tutto questo ha decisamente senso per me, ora. All’Alberto K cercavo la perfezione in ogni cosa e sempre, e non m’importava molto se gli ingredienti provenissero dalla Francia o dal Lammefjord. Ora però la provenienza fa la differenza, e m’interessa. Ho già preso i contatti con dei produttori locali, voglio usare solo formaggio scandinavo e carne proveniente da realtà locali, piccole e controllate. È arrivato il momento di farlo.”

Vorrei chiedergli se pensa di vincere una stella Michelin ora, ma mi trattengo perché so che per lui non è più importante. Il cibo è presenza, conversazione, talento e buoni ingredienti, e a me, nel giro di questa chiacchierata, tra cozze e vino, non è mancato nessuno di questi fattori, anzi. E a tutto questo non c’è stella che tenga. N.d.T. Jeppe Foldager oggi lavora come Chef de cuisine al Restaurant Niels del Nobis Hotel di Copenhagen.


Quest’articolo è originariamente apparso su MUNCHIES Danimarca nel febbraio del 2017.