Cosa sono i solfiti
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Cibo

Il problema dei solfiti nel vino non è legato solo al tuo mal di testa

Avvertenza: una discussione sull’argomento solfiti può trasformare il tuo amico appassionato di vino nel drago zombie di Game of Thrones
Diletta Sereni
Milan, IT

I solfiti sono un argomento incandescente nella bolla del vino, capace di rendere scalmanata anche la persona più mite. Se ne parla tanto, spesso sotto forma di slogan, spesso in toni ideologici, altre volte imparo qualcosa. Se ne inizia a parlare anche fuori dalla bolla del vino, in quel pacifico restante 95% della popolazione che ogni tanto pascola l’argomento senza sapere da dove cominciare. Caro 95%, è per voi che inizio col mettere in fila un po’ di informazioni di base.

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Iniziamo a dire cosa sono i solfiti e a cosa servono. I solfiti sono uno della lunga lista di additivi ammessi nella vinificazione, lista che comprende: lieviti di laboratorio, enzimi, acidi, tannini enologici, e altre cose usate per correggerne gusto, colore e consistenza come albumina, colla di pesce, caseina, ecc.. Come avrete notato tenendo in mano una bottiglia di vino, a differenza di ogni altro alimento, non è prevista la lista di ingredienti in etichetta, per cui anche se contiene molte cose oltre all’uva, non sappiamo quali. Unica eccezione i solfiti – poiché sono anche un allergene – grazie alla vaga dicitura “contiene solfiti”, che forse ha contribuito a farne il capro espiatorio perfetto.

Solfiti è il nome generico con cui chiamiamo l’anidride solforosa (SO2) un composto a base di zolfo che ha proprietà antisettiche, antiossidanti e conservanti. Viene usata come conservante anche per altri cibi: frutta secca, patatine fritte, succhi di frutta…

Nel vino i solfiti sono aggiunti in varie forme, la più comune è quella solida del metabisolfito di potassio, un sale. E possono essere aggiunti in vari momenti della vinificazione. All’inizio, prima che parta la fermentazione, con lo scopo di selezionare i lieviti presenti; durante i travasi, per contrastare l’ossidazione; oppure a vino fatto, prima di imbottigliare. Sono interventi con scopi diversi: all’inizio agisce sulla fermentazione, alla fine è confinato alla conservazione. Ma in fondo animati dallo stesso principio: controllare l’evoluzione del vino, scongiurare che prenda direzioni non previste, fino a sfociare in quelli che i tecnici definiscono “difetti”.

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Un vino che declama zero solfiti in etichetta basta a dirmi che si tratta di un vino naturale? Purtroppo no, perché l’enologia industriale ha già imparato a fare a meno della solforosa, usando altro al suo posto.

Quanta solforosa posso trovare in un vino? In Europa i limiti per i vini convenzionali sono 160 mg/litro per i rossi, 210 mg/litro per bianchi e rosati e 400 mg/litro per i dolci. Nel biologico si abbassano di poco: 100 mg/litro per i rossi, 150 mg/litro per i bianchi. Più ne aggiungi, più il vino sarà “controllato” chimicamente e però anche più “chiuso”, “ingessato” al palato.

Ogni tanto, anziché la scritta “contiene solfiti” sulla bottiglia trovate: “non contiene solfiti aggiunti”. Questo vuol dire che il vino ne contiene meno di 10 mg/litro. È difficile che sia proprio a zero, perché il processo di fermentazione produce spontaneamente SO2, in quantità variabili. Per questa ragione – mi baso su quello che mi dicono i produttori – capita che anche senza aggiungerne, la quantità totale superi il limite burocratico dei 10 mg/l e si è costretti a esporre comunque la dicitura “contiene solfiti”.

Spesso i solfiti vengono associati al mal di testa e su questo mi spiace, ma non ci sono conferme né smentite definitive. C’è sicuramente una variabilità individuale.

La solforosa fa male? Anche qui dipende dalle quantità. Di certo c’è che si tratta di una sostanza irritante, per cui va evitata soprattutto l’inalazione. L’organizzazione mondiale della sanità (OMS) consiglia di non assumere più di 0,7 mg di SO2 per chilo di peso corporeo, al giorno. Tradotto: io peso 58 chili, il limite consigliato sarà 40 mg al giorno, se a cena tracanno una bottiglia di vino convenzionale sono già ampiamente fuori. Certo immagino che l’OMS mi sconsiglierebbe di traccannarla a prescindere dai solfiti.

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Spesso i solfiti vengono associati al mal di testa e su questo mi spiace ma non ci sono conferme né smentite definitive. C’è sicuramente una variabilità individuale, come del resto è variabile la sensibilità di ognuno; ad esempio io che sono abituata a basse quantità di solfiti, quando incappo in un vino che ne contiene livelli più alti ho sistematicamente mal di testa, ma temo che il mio caso non sia generalizzabile.

È possibile fare vino senza aggiungere solfiti?

Non solo è possibile, ma è il vero tema caldo di tutta la questione. Per affrontarlo dobbiamo entrare nell’ecosistema del cosiddetto vino naturale, un colorito angolo di mondo a cui voglio molto bene. La definizione originale di vino naturale, quella cioè fedele alle prime teorizzazioni di Jules Chauvet e compagni, intende il vino come fatto di sola uva e dunque esclude ogni aggiunta, solforosa compresa. Quello che chiamiamo vino naturale oggi però, nella maggior parte dei casi, ammette la solforosa come unico additivo, in quantità nettamente più basse rispetto al convenzionale, ad esempio l’associazione VinNatur prevede massimo 30-50 mg/l di solforosa.

Come sempre, non essendoci un disciplinare comune, quel che è accettato o meno nel naturale è frutto di una sgangherata adorabile intelligenza collettiva del famose a capì. E ci sono almeno due correnti di pensiero con una sostanziale differenza di vedute. Chiamiamole: la scuola “purista”, quella dello zero-zero, rappresentata ad esempio dall’associazione francese S.A.I.N.S. (Sans Aucun Intrant Ni Sulfite), dalla spagnola PVN (Asociación de Productores de Vinos Naturales); e la scuola “moderata”, rappresentata dalle italiane VinNatur, VAN (Vignaioli Artigiani Naturali) e altre.

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Io per esempio, da quando scrivo di vino, mi sono presa paternali da affiliati di entrambe queste scuole. Dai moderati, perché scriverei di vini difettati; dai puristi perché metterei insieme naturali veri (leggi: senza solforosa aggiunta) e naturali opportunisti (leggi: che aggiungono solforosa). In questo fuoco incrociato di paternali, osservo con interesse antropologico le certezze categoriche degli altri. Intanto studio e ascolto chi in questa materia ci mette le mani da decenni.

Non c’è una ricetta, ma ci sono alcune “condizioni di base” che ti permettono di lavorare senza solfiti.

Vini senza solfiti

I vini di Pierre Frick, Alsazia. Foto dell'autrice

Pierre Frick è un illustre vigneron alsaziano. Prima biologica (1970) poi biodinamica (1981), la sua azienda produce vini senza solfiti aggiunti dal 1998. Oggi quasi tutti i suoi vini lo sono, come si legge sulle sue etichette e, al di là del fatto che piacciono a me, credo di poterli prendere come esempio di vini senza difetti. Quindi si può fare, chiedo a Pierre Frick, come si fa? Lui risponde con parole lente e rodate che “non c’è una ricetta”, ma ci sono alcune “condizioni di base” che ti permettono di lavorare senza solfiti.

Tutto parte dal suolo, che deve essere vivo, coltivato in biologico o in biodinamico, per tenere la vigna e l’uva in salute. Se il terreno è asfissiato dai pesticidi non avrai mai uve sane. Dovrai avere rese basse – la sua si aggira intorno ai 40 quintali a ettaro, le Appellations alsaziane ne prevedono fino a 80 – perché con le alte rese non puoi mantenere alti livelli qualitativi. La fermentazione deve partire velocemente e per questo, a suo dire, aiuta molto la macerazione sulle bucce (per capirci: la macerazione, il contatto con le bucce, è quella che rende arancioni i vini bianchi).

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Poi il vino possiede già dei conservanti naturali, prosegue, ad esempio acidità e alcol, per cui i vitigni o le annate che sviluppano maggiore acidità saranno più facili da lavorare senza solfiti. E ovviamente anche il territorio ha un ruolo cruciale, e per ogni territorio valgono considerazioni diverse. Ad esempio nelle zone più umide sarà complicato portare in cantina un’uva perfetta, è più probabile che il vino sia fragile e necessiti di aiuti esterni.

Pierre Frick utilizza solforosa solo nelle situazioni che lui definisce “di crisi”, cioè quelle in cui iniziano a esserci delle deviazioni batteriche e ad esempio può innalzarsi l’acidità volatile (che porta al gusto di aceto). Si può provare a fare qualche travaso ( soutirage) e nei casi estremi, dice, bisogna aggiungere solforosa, per evitare di perdere tutto. Quanta? Intorno ai 20 mg/litro, precisa, perché se ne aggiungi 3 mg/litro non serve a niente.

Aggiungere solforosa, soprattutto in fermentazione, è un disastro per il vino, perché altera il sistema di microrganismi presenti sull’uva.

Il secondo testimone che ho scelto è un maestro del vino naturale italiano. Quarant’anni di esperienza, in parte passati a liberarsi dalle prassi enologiche “raccomandate”, fino a rifondare una prassi nuova o come direbbe lui “antica”, a fare un vino di sola uva o come direbbe lui “un vino di terroir”.

Vini piacentini senza solfiti

I vini de La Stoppa di Giulio Armani, azienda Denavolo.

Giulio Armani (a La Stoppa dal 1980 e alla sua azienda Denavolo) fa vini senza aggiungere solforosa che viaggiano in tutto il mondo e invecchiano benissimo, anzi lui vorrebbe farli invecchiare molto di più dei ritmi con cui vengono richiesti dal mercato. Anche lui insiste sulle uve: devono essere perfette, e questo spesso comporta una meticolosa selezione in vigna, basta qualche grappolo marcio per inoculare batteri acetici in fermentazione. Con uve sane, il bello sta nelle bucce: la complessità, la qualità, tutto ciò che dà a un vino la capacità di durare nel tempo. Le macerazioni dunque, come per Frick, sono un modo per per proteggere il vino, fargli trovare il suo equilibrio. Più lo spogli (pressi, filtri) più lo rendi fragile e bisognoso di aggiunte esterne, la solforosa tra queste.

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Aggiungere solforosa, mi dice, soprattutto in fermentazione, è un disastro per il vino, perché altera il sistema di microrganismi presenti sull’uva, quelli che ti permettono di fare un vino tipico del territorio. Però, sottolinea, concentrarsi solo sulla solforosa può essere fuorviante, perché distoglie l’attenzione da altri additivi fabbricati allo stesso scopo, come i tannini enologici.

Comunque, più affondo nel tema solfiti, più mi appare come prettamente agricolo.

20 milligrammi

Vini senza solfiti aggiunti

Concludendo, un vino purista di sola uva e un vino di sola uva più 20 milligrammi/litro di solforosa aggiunta sono equiparabili? Non credo, no, perché rispondono a due principi diversi. Chiamarli entrambi naturali crea confusione? Può darsi, allora impegniamoci a trovare definizioni migliori perché il mondo dei naturali “moderati” non può essere assimilato al convenzionale.

Ci sono alcuni difetti (brett, buccia di salame) che possono essere evitati con quei famosi 20 milligrammi? Ho chiesto a tante persone del settore, molti dicono di sì, altri che non è detto. Alcuni puristi dicono che è meglio buttare tutto e impegnarsi di più l’anno prossimo, ed è su questo sadismo ideologico che mi perdo.

Comunque, più affondo nel tema solfiti, più mi appare come prettamente agricolo. E sarebbe bello un giorno sezionare il bicchiere di vino per i pregi e difetti del metodo agricolo con cui è stato prodotto, con lo stesso professionismo che viene applicato alle sue caratteristiche organolettiche.

Allo stesso tempo, un vino che declama zero solfiti in etichetta basta a dirmi che si tratta di un vino naturale? Purtroppo no, perché l’enologia industriale ha già imparato a fare a meno della solforosa, proprio per la sua popolarità negativa, usando altro al suo posto. E il marketing delle grandi aziende vinicole convenzionali è pronto a cavalcare il tema del naturale in modo, stavolta sì, opportunista. Per cui gli appigli sono pochi, cari naviganti, ci resta il nostro palato e la nostra curiosità.

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