Cosa fa il direttore di sala di un tre stelle Michelin (e perché è importante)
Foto per gentile concessione dell'intervistato

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Cibo

Cosa fa il direttore di sala di un tre stelle Michelin (e perché è importante)

No, non chiamateli "solo camerieri".
Giorgia Cannarella
Bologna, IT

"Vuoi fare il cameriere? Ma che davvero?”

Nel nostro paese il lavoro di sala è ancora visto come un ripiego e non una legittima aspirazione. Un piano B, una fase di passaggio priva di possibilità di carriera e sbocchi professionali. Negli ultimi anni molte cose sono cambiate nel settore dell'alta ristorazione: termini come restaurant manager - o direttore di sala che dir si voglia - maître, sommelier, iniziano a riempirsi di significato, si attribuiscono premi e riconoscimenti anche al servizio di sala, nascono associazioni per formare adeguatamente i giovani. Ma nell'immaginario comune la sala è ancora un'appendice - necessaria ma insignificante - della cucina, un tramite tra la creatività dello chef e la fame del cliente, in cui si spera non avvengano errori - "Il cameriere ha confuso gli ordini!" - ma da cui non ci si aspetta molto più che sorrisi cortesi, pulizia e velocità.

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Ho conosciuto Vincenzo Donatiello al tavolo del Piazza Duomo di Alba. Un ristorante tre stelle Michelin, 15esimo nella classifica dei migliori ristoranti al mondo, è un buon posto dove incontrarsi. Diciamo che la reciproca conoscenza parte con il piede giusto. Io ero quella seduta da sola a un tavolo, nell’angolo destro della sala, lui era quello che la sala dirigeva.

Cenare da sola è conseguenza inevitabile del mio lavoro - e mi piace. È come andare al cinema da solo per un feticista dei film: nessun chiacchiericcio pleonastico, più concentrazione sui piatti e più tempo per guardarsi intorno. E quello che vedevo, intorno a me, era uno dei servizi di sala migliori a cui mi fosse mai capitato di assistere - impeccabilmente orchestrato da Vincenzo. Al Piazza Duomo la sala non si limita a 'reggere' i piatti dello chef Enrico Crippa: la sala è il ristorante tanto quanto la cucina.

Quando ho chiesto a Vincenzo come definisse il suo servizio ha risposto "smart". Ho mugugnato per l’inglesismo e lui l'ha prontamente trasformato in: moderno.

Enrico Crippa e Vincenzo Donatiello

Donatiello è uno dei pochi in Italia ad aver dato un significato al termine di direttore di sala. Quando si parla del Piazza Duomo si parla dello chef ma si cita sempre anche lui, che è arrivato qui nel 2013 come sommelier e due anni dopo è passato a dirigere la sala, vincendo numerosi riconoscimenti tra cui quello di Maître dell’anno per la Guida Espresso.

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Davanti a un Amaro Ulrich Vincenzo mi ha raccontato con la sua velocissima parlata di questi suoi velocissimi 33 anni, da quando era un bambino timidissimo a quando è arrivato ai vertici della ristorazione mondiale, rivendicando un ruolo e prendendosi uno spazio che prima non c’era, perché “Anche noi abbiamo fatto crescere il ristorante. Oggi si passa di Piazza Duomo come un’entità unica”.

MUNCHIES: Se dico che al Piazza Duomo c’è l’ospitalità di una trattoria tu come la prendi?
VINCENZO DONATIELLO: Come un complimento! Io sono rimasto lo stesso in tutti i posti dove ho lavorato. Il servizio va creato tailor made sul cliente, sia che tu sia un tristellato sia che tu sia un’osteria di paese o un take away. Il ristorante lo fa il cliente.

Svelaci i tuoi trucchi, almeno alcuni. Come si legge un cliente?
Da come ti saluta, da come si muove, da come si siede, dalle domande che fa. Il nostro lavoro è delicato perché se vuoi conquistarlo in due minuti devi individuare il punto dove colpirlo e infilare la freccia. Bisogna stare attenti a tutto. Come ti stringe la mano? È una mano che lavora? Mentre lo accompagni al tavolo guarda gli altri clienti, la sala o i piatti? Sono tutti elementi che fanno la lettura del tavolo.

Come si impara a far sentire i clienti a proprio agio?
Prima di ogni servizio il briefing verte su ‘Chi c’è a tavola? Che preferenze ha? Abbiamo della stampa? C’è uno chef che viene da Lima, Barcellona, Parigi?’. I nostri clienti sono prevalentemente mittleuropei, con uno zoccolo duro di abitudinari, da chi viene 3 volte l’anno da 12 anni a chi 20 volte. Parlo con tanti colleghi, specialmente quelli degli stellati d’hotel, della clientela che si trovano a gestire, e mi rendo conto che al Piazza Duomo siamo enormemente fortunati: da noi il livello di lamentela è dello 0,5%. Su cosa vertono le poche lamentele?
C’è chi si lamenta di un eccesso di vegetale nel menu, ma quella per me non è nemmeno una lamentela: devi farti prima un’idea del posto in cui stai andando. Altro complain è per l’impostazione del mio servizio, con pochi formalismi, perché magari sono abituati alle grandi case europee dove c’è un servizio più distaccato, ‘da guanti bianchi’.

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Torniamo un attimo indietro e parliamo di tutti i posti dove ho lavorato.
A 13 anni decido che avrei fatto il cuoco. Mi iscrivo all’alberghiero di Vieste ma, dopo il primo giorno della prima stagione in albergo, mi rendo conto che quello che volevo veramente era lavorare in sala. Di lì in poi dieci anni di alberghi, gestisco una pizzeria, faccio il barman. Poi arrivo a un punto vuoto. Cosa faccio da grande? Prendo un’altra marcia, divento sommelier e inizio a lavorare negli stellati: Pascucci al Porticciolo, La Frasca di Milano Marittima e Il Piastrino di Pennabilli e infine il Piazza Duomo. Com’è la tua giornata tipo?
Inizia alle 9.30/10 del mattino, dipende da quando chiudo la sera. Mail, telefonate, ordini, check, briefing con lo chef e con i ragazzi. Se il servizio lo richiede sto in sala altrimenti, soprattutto negli ultimi tempi, preferisco restare in ufficio a smaltire un po’ di lavoro. Una volta finito il servizio se c’è bisogno passo alla cantina, se no esco a prendere un po’ d’aria. Poi si ricomincia e avanti fino a sera.

Non facciamo finta che ti piaccia tutto. La parte più piacevole e quella meno piacevole?
La cosa più bella rimane il vino: la possibilità di viaggiare, incontrare i produttori, lavorare sulla carta, le proposte, gli abbinamenti. Quella che mi piace di meno - o meglio quella che è un po’ più impegnativa - è la formazione del personale. La crescita vera è imparare a delegare. La cosa che mi fa soffrire di più è quando il cliente dice che si sente la differenza quando io non sono in sala. In cosa consiste la formazione dei nuovi assunti?
C’è un indottrinamento iniziale con un vero e proprio bombardamento di informazioni, il mio ‘protocollo’. Do loro un depliant con tutte le regole: orari, pulizia, gestione delle chiamate… e poi si passa all’osservazione quotidiana, monitorando e correggendo gli errori. Com’è il 'protocollo Donatiello'?
Beh, diciamo che è abbastanza minuzioso. Va dalla pulizia della sala all’accoglienza degli ospiti, dalla mise en place dei tavoli a come gestire il guardaroba, da come accompagnare le persone in bagno a come gestire la situazione dei vini, le chiamate della cucina e il saluto dei clienti che vanno. Ma il protocollo è solo una base su cui devono esprimersi. Non ti darà mai la soluzione definitiva: nel nostro lavoro il fattore umano può intervenire in una base dall’1% al 99%.

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Se la soggettività ha un ruolo così alto come si valuta un servizio ben riuscito?
È questione di vibrazioni. Ci può essere un servizio che va benissimo e uno in cui navighi a vista dal primo all’ultimo minuto dove però si respira una tale energia, una tale adrenalina, che forse ti dà più risultati del servizio impeccabile. Così come in sala c'è il ragazzo perfetto ma 'quadrato' e quello che fa 10 errori, ma quando indovina la parola giusta è meglio dell’altro.

Quindi qual è il servizio perfetto?
Io propongo il servizio che vorrei fosse fatto a me: quello che non ti fa sentire a disagio. Nella stessa serata capitano clienti che non sono mai andati a uno stellato e clienti che li girano da quarant’anni: se li fai sentire a proprio agio entrambi allora hai centrato il punto. La pelle d’oca per una parola, un piatto, un gesto, un abbinamento… quello è il servizio giusto. Gestione, check, briefing… un mucchio di parole che non sono chiare a tutti.
Noi gestiamo tutto da dentro, e io faccio capo a questa gestione: dagli stage alle assunzioni, dagli alloggi del personale ai contatti con i media, dalle prenotazioni alla formazione dei nuovi assunti.

Tu viaggi tanto in Europa. Quando si parla di servizio di sala il nostro paese viaggia in ritardo? L’Italia è l’ambiente della famiglia, e forse per un’ampia fetta di ristorazione non è mai cresciuta da quello. Ma qual è il grande servizio? Tranciare il pollo al tavolo o far sentire a proprio agio il cliente? Non abbiamo mai avuto una tecnica, una scuola: siamo stati al di fuori delle regole per lungo tempo e ora dobbiamo continuare a farlo, coltivando invece altri aspetti. Prendiamo il grande senso di ospitalità della trattoria italiana e portiamolo ai livelli più alti.

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E non c’è il rischio di mitizzarla, questa figura di uomo di sala, come abbiamo fatto con quella di chef? Ma magari ci fosse il celebrity uomo di sala! Io ho una rubrica del telefono ‘importante’, con persone ‘importanti’ che sono nostri clienti affezionati. Questa è una lettura che non viene mai fatta del mio lavoro: le possibilità di incontro e di conoscenza che ti dà, se fatto bene, sono enormi. Uno dei più grandi neurochirurghi del mondo mi ha proposto di fare un lavoro insieme per raccontare la creazione di un’emozione. Un matematico di fama mondiale che mi ha abbracciato e ha pianto. Ecco, quello è stato il momento più emozionante di sempre.

Ultimissima domanda. Il miglior abbinamento mai fatto in vita tua?

La nostra

Capesante, salsa di pecorino e ricci di mare

con un Timorasso Vendemmia Tardiva. Oppure la

Cacio e pepe

con lo Schioppettino di Bressan.

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