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Cibo

Le cose peggiori viste lavorando in una famosissima catena di caffè

Vi basti sapere che il negozio era pieno di topi, topi che gironzolavano tranquilli fra le buste di caffè. O nelle buste di biscotti. Esatto, NELLE.
Foto via Flickr di nodoca

Bentrovati in Confessioni al Ristorante , la rubrica che dà voce a tutte quelle storie inascoltate dei lavoratori della ristorazione, dall'ultimo gradino delle cucine fino al bancone dei locali. Questa volta, abbiamo incontrato un dipendete di una delle catene di caffè preferite al mondo

C’è più di una buona ragione se ho smesso di bere latte macchiato e intrugli al caffè vari. Per farla breve, inizierò subito con il dirvi che c’entra il sangue di topo.

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Durante il mio periodo lavorativo in uno degli avamposti di una nota catena internazionale di caffè, infatti, di topi morti ne ho visti tantissimi. A un certo punto il “tantissimi” si è trasformato in “infestazione,” che chiaramente non è una novità quando ti trovi a New York, ma è comunque decisamente disgustoso (ciononostante, il Dipartimento della Salute non ci aveva beccati).

C’erano topi nelle madeleine. C’erano topi nei corridoi. C’erano topi incinta intenti a partorire topi piccolissimi fra le buste di frappè in polvere giù nella cantina.

Quando abbassavamo le luci alla fine della giornata, i topi uscivano fuori a flotte. Erano ovunque, sui banconi, sulle machine per il caffè, nella teca con i dolci. Non importava quanto tempo spendessimo a igienizzare tutto, almeno una tazza del caffè venduto in giornata era stata inevitabilmente contaminata dalle zampine di uno di quei roditori.

Ok, facciamo un attimo un passo indietro. Avevo iniziato a lavorare in questa notissima catena nel 1999, quando ero al secondo anno di superiori. Facciamo che per comodità d’ora in poi ci riferiremo a questo posto come “The Coffee Shop,” anche perché quasi sicuramente a un certo punto avevo firmato un qualche tipo di contratto che, se infranto, porterà sciagura e debiti a me e a tutte le generazioni che mi seguiranno.

C’erano topi nelle madeleine. C’erano topi nei corridoi. C’erano topi intenti a partorire topi piccolissimi fra le buste di frappè in polvere giù nella cantina.

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Quello del barista era il mio primo lavoretto serio, uno dei pochi che un sedicenne della zona in cui sono cresciuto poteva fare. Certo, sarei potuto finire anche in uno di quei posti dove si sparano le cialde ai gusti strani in macchine ancora più bizzarre e anonime, ma in quella nota catena di caffè potevo utilizzare delle vere macchine La Marzocco, e in un qualche modo tutto ciò mi sembrava più figo, forse anche un po’ malinconico, o almeno, questo era quello che mi raccontavo.

Comunque, parliamo di più di 15 anni fa. All’epoca i clienti più cool facevano finta di non far parte della subcultura da scalatori sociali che si radunava al The Coffee Shop, con i suoi $20 di fagioli di Sumatra e i panini havarti. Erano gli stessi contrariati del fatto che una tazza di caffè da quasi un litro fosse etichettata come “grande,” arrivando persino a urlare dietro a me, ragazzino acneico dietro al bancone, che “in America questa tazza è una media. Con chi credi di avere a che fare?!”.

Devo dire che la maggior parte dei clienti, comunque, era squisitamente gentile. Alcuni li conoscevo per nome (parliamo dell’epoca antecedente ai nomi segnati sulle tazze), e io iniziavo a preparare il loro personalissimi affronti alla cultura del caffè italiana ancora prima che mi si parassero davanti. La sera tornavo a casa esausto, con dello sporco sotto le unghie e persino fra i capelli, ma ero decisamente soddisfatto, perché imparavo sempre qualcosa di nuovo (soprattutto sulla degustazione e la preparazione corretta del caffè). Il mio manager, un sempre contento patologico, ci intimava a calare un goccino di caffè quando ogniqualvolta il sorriso tendeva a calare, quindi alla fine eravamo tutti strafatti di caffeina.

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Certi giorni mi capitava di servire delle celebrità, altri, invece, mi capitavano solo drogati in cerca del bagno in cui poter comprare la roba dalla spacciatrice ufficiale.

E quello è stato il mio primo anno lì.

Poi è arrivata un’altra manager. Era una dolcissima, materna donna del Midwest sulla cinquantina, o almeno, così mi era parso a una prima occhiata. Dopo un po’ mi avevano detto che era ben più giovane, e si spettegolava sul fatto che il suo aspetto un po’ più attempato fosse dovuto a una presunta dipendenza dalla metanfetamina. Poi però un giorno stavamo grattando via degli adesivi dalle vetrate, e ovviamente, per farlo stavamo usando dei solventi industriali; lei allora aveva esordito con un “non ce la faccio a stare qui, con questi fumi. Devo un attimo uscire. Io quella roba la inalavo.”

Questo però non ha nulla a che fare con il tipo di servizio: ogni industria ha i suoi abitanti peculiari, con tutte le loro abitudini strane. È una cosa che ho imparato soprattutto dopo essermi trasferito a Manhattan, in un altro dei negozi della catena.

Ecco, lì, il mio primo giorno, un insetto grosso come una scarpa aveva iniziato a seguirmi per il negozio, con tanto di risate di sottofondo dei miei colleghi che, evidentemente, trovavano la mia ingenuità da provincialotto divertente. Con loro ho legato meno, eccezione fatta per qualche collega più simpatico. Una di questi ultimi come lavoretto extra faceva l’escort e spacciava cocaina. Quando non portava la sua pistola a lavoro, aveva comunque con sé un taglierino, che una volta aveva persino scagliato contro uno dei baristi reo confesso di averla chiamata “mignotta.”

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Era un posto sporco, orribile, un benvenuto decisamente strano a quella che era una città che, crescendo, avevo sempre ammirato. Certi giorni mi capitava di servire delle celebrità, da Spike Lee (che ordinava sempre del sidro), a Philip Seymour Hoffman (lui era per il caffè amaro), e persino Elija Wood (che tendeva a ignorarmi mentre parlava al telefono). Altri giorni, invece, mi capitavano solo drogati in cerca del bagno in cui poter comprare la roba dalla spacciatrice ufficiale.

Quando non portava la sua pistola a lavoro, aveva comunque
con sé un taglierino.

Ci avevo messo poco a capire che tutti abusassero di una qualche sostanza stupefacente. Il nostro facchino, chiamato Gollum per il suo aspetto, fumava crack giù in cantina, mentre uno dei baristi era spesso introvabile perché in botta da eroina.

Noi altri, quasi tutti, fumavamo marijuana. Avevamo un’ora per chiudere il negozio, perché a eccedere le 8 ore lavorative potevamo chiedere di farci pagare gli straordinari e, come potete bene immaginare, gli straordinari non erano considerati il massimo dai grandi capi. Uno dei nostri manager ci obbligava a iniziare le procedure di chiusura un po’ prima, cosicché la chiusura effettiva potesse avvenire in 15 minuti con tanto di ultimi clienti cacciati via. I 45 minuti rimanenti li usavamo per fumare davanti al negozio con le luci spente. Uno spacciatore passava regolarmente da noi, lasciandoci l’erba proprio lì dove i clienti afferravano le loro tazze da $8 con panna.

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Oh, ecco, arriviamo al sangue di topo.

Allora, il negozio era invaso da animaletti. La situazione era proprio degenerata, tanto che non potevamo cambiarci le uniformi perché, quasi sicuramente, erano infestate pure quelle. Ricordo come fosse ieri tutti i miei sicuramente ho una blatta nei pantaloni, ci scommetto. Credevo però che la cantina fosse linda.

O almeno, così pensavo fin quando un giorno non ho scorto un topo dormire beatamente in un pacco di biscotti, dopo che, naturalmente, se ne era mangiato qualcuno. L’idea di un topolino tenerino che mangia i biscottini per me, che sono cresciuto a storie e cartoni a base di topolini carini, era anche dolce, poi però il mio capo ha deciso d’annegarlo in un secchio d’acqua sporca e la poesia mi è passata subito.

Ma torniamo al ricordo peggiore; parliamo pure di quando ho spruzzato sangue di topo sul pavimento. Era una giornata particolarmente impegnativa, avevamo finito lo sciroppo alla vaniglia (che serve per tutto), e io ero corso in cantina per prendere i rifornimenti, stando attento alle varie trappole per i topi disseminate in giro. Nel marasma, pesto qualcosa. E quel qualcosa mi era rimasto attaccato al piede, ma ero di fretta e non avevo tempo per stare lì ad analizzare la situazione.

Posata la cassa di rifornimenti sopra, in negozio, mi rendo conto di aver lasciato dietro di me una scia di pezzi di topo. Uno di quei poveri roditori doveva essere rimasto incollato in una delle trappole, e io ci ero sicuramente finito sopra. Terrorizzato, torno indietro, trovando Gollum intento a scollare il ratto rimanente con il manico della scopa.

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Inaspettatamente, finito il grosso del lavoro, Gollum prende trappola e topo e li lancia nel lavandino, che chiaramente era pieno delle cose che usiamo giornalmente per i clienti, dalle tazze ai dispenser e i piatti. In un lampo di genio, Gollum si rende conto dell’errore, prende quindi la trappola (toccacciando tutto ne mentre) e butta il tutto nel cestino. Poi si gira e, guardingo, mi fa “shhhh.”

Ed ecco perché ho smesso di mangiare o bere qualsiasi cosa dal The Coffee Shop. So che in molti posti non funziona così, e che la responsabilità di quanto accaduto ricade più sui singoli ispettori e supervisori che sulla compagnia, ma non mi sono ancora riuscito a scrollare di dosso la convinzione che non fossimo il team peggiore della catena.

Ah, e il caffè fa schifo comunque lì.

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Quest'articolo è originariamente apparso su Munchies ES.