Il bartender di origini irlandesi che ama il whiskey ma è soprannominato Gin-Ecologo

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Il bartender di origini irlandesi che ama il whiskey ma è soprannominato Gin-Ecologo

Come non innamorarsi di un bartender romano, di origini irlandesi, con questo soprannome?
Andrea Strafile
Rome, IT

C’è un mito secondo il quale mischiare degli alcolici senza un’intenzione in un bicchiere ti darà comunque un buon drink come risultato. Non è proprio così: l’arte della mixology è molto più intricata di quanto non sembri. Come la cucina, le tecniche sono diverse, gli ingredienti e le mani dei bartender conferiscono da sempre un tocco personale ad ogni miscelazione. Non tutti i cocktail sono shakerati come nei film degli anni ’80, e soprattutto non tutti gli aromi stanno bene fra loro.

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Allora, grazie alla collaborazione con Jameson, abbiamo cercato di capire qualcosa in più sull’argomento. Ad aiutarci due grandi bartender che ci hanno dato qualche dritta sulla creazione di drink semplici, e meno semplici, e per sembrare esperti di mixology. Grazie a Marco Ferretti e a Patrick Pistolesi, finalmente faremo buona figura durante le feste casalinghe.

Se a Roma dici Patrick, dici Patrick Pistolesi, lo sanno tutti. Dietro al bancone prepara drink come i baristi di una volta, con calma, con cura.
Così ho camminato sotto la sera illuminata del Colosseo per scambiare due chiacchiere e bere un Manhattan fatto a regola d’arte.
L’Irlanda, la sua Roma, NIO e il nuovo modo di bere che si è inventato, la mixology, le coincidenze, il whiskey e quel soprannome, Gin-ecoloco.

MUNCHIES: Ciao Patrick. Tutti ti conoscono, tutti vengono a trovarti, ma volevo sapere chi sei, qual è la tua storia?

Patrick: Sono italo-irlandese: mia mamma è di Dublino, mio papà di Roma. È il mio passato che mi ha portato alla fine dietro al banco: i pub irlandesi, la mia cultura è quella.
Ho cominciato da giovane per gioco, prima facevo tutt’altro. Poi per bisogno e perché in generale mi piaceva il mondo del bar, ho cominciato a muovere i primi passi. Essendo cresciuto in Irlanda, avendo passato lì tutte le estati della mia vita, è difficile non avercelo dentro. Da quelle parti si respira alcol ovunque, nel bene e nel male, e quindi era inevitabile che sarebbe stata parte della mia vita. Così un giorno ho deciso di farla fruttare, questa parte della mia vita. È stata non una scelta di business, ma di passione. Appena ho messo i piedi dietro al bancone mi è piaciuto.
Da quel momento ne ho fatte di cose: ho girato nei posti più disparati, dalla discoteca al baretto…

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Il discorso della discoteca e dei cocktail l’ho affrontato anche con il tuo collega Marco Ferretti: è imprescindibile?

Certo, perché come ti insegna la discoteca non ti insegna niente e nessuno. Servire mille persone tutte insieme avvelenate, ti sveglia la testa, ti fa capire come servire un bar affollato: è una grande botta di realtà e umiltà.
Quando sono passato dalla plastica al vetro fu una gioia immensa. Tanta gente dice “mi ricordo il mio primo Manhattan”, ma a me solo passare dalla plastica al vetro sembrava Natale. È stata una cosa incredibile.
Quindi dopo, negli anni, sfruttando la mia passione, sono riuscito a fare drink di un certo tipo, a vedere che c’era tantissimo altro, tutto quello che io vedevo dentro i film come Casablanca. Vedere questa figura del barman così…come dico sempre l’aristocratico della working class, mi faceva venire voglia di esserlo io stesso, mi smuoveva dentro.
Avrei voluto anch’io un giorno fare drink a Capi di Stato o a muratori, perché secondo me il bar è il posto meno razzista che ci sia sulla faccia della terra: dalla porta entrano alti, bassi, magri, grassi, gialli, verdi, uomini, donne; e tu devi cercare di soddisfare il gusto di ognuno. Questa è la mia idea. Questo è il bar che ho in mente.

Pub irlandese e bar italiano: che differenze ci sono?

Come fai a non essere colpito da un pub irlandese quando sei un pischello e osservi un locale affollato con questo barista - che era come un direttore d’orchestra - che conosceva tutti per nome e poteva prendere un uomo di 150 chili ubriaco e sbatterlo fuori dalla porta ed essere allo stesso tempo la persona più gentile del mondo?
Questa figura era tremendamente affascinante. Con tutte quelle bottiglie dietro a fare da sfondo di cui io ignoravo proprio il contenuto era una sensazione mista di rispetto, timore, gioia, fascino.
La cosa più bella è stata quando ho iniziato a capire poco alla volta ognuna di quelle bottiglie, un caleidoscopio che ti si apre davanti, alla Matrix.
Avrò avuto 13 anni quando fissavo le scene nei pub, mio cugino mi ci faceva entrare. Ero piccolo, ma capii dopo qualche tempo cosa mi colpiva dell’irlanda: lo capii quando cominciai a frequentarli qui Italia da diciassettenne. Era molto ghettizzante. A Roma entravi nel pub a Roma e c’erano i ragazzi di 18 anni con quelli di 18 anni, quelli di 30 con quelli di 30. E invece in Irlanda era tutto il contrario. Mio cugino parlava tranquillamente con uno di 75 anni come se fosse totalmente suo pari, senza barriera di età.
È proprio il discorso dell’Irlanda che mi piace di più: il pub è una grande livella, si chiama pub perché è public. È un salotto fuori di casa, dove la gente va per farsi una chiacchiera fuori dalla famiglia, sapere cosa succede in giro, parlare un po' delle cose del mondo.

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A me piacciono le storie. Raccontami una storia bizzarra e te ne sarò per sempre grato. Di sicuro ne hai anche tu.

(Ridacchia). Ce l’ho, ed è legata a doppio filo con Jameson.
La mia zia preferita e i miei cugini preferiti, con i quali sono cresciuto vengono da Cork, e hanno una casa proprio a Middleton (nella contea di Cork ndr.). E a Middleton c’è un posto che si chiama “Baby Walk”. Quando eravamo ragazzini stavamo lì e chiedevamo a un signore più grande se ci andasse a prendere le birre, perché in Irlanda si beve tanto, ma sotto la maggiore età non si beve proprio, bisognava chiedere il favore a qualcuno. Insomma avevamo queste birre e ce le bevevamo proprio in questo Baby Walk, il passaggio dei bambini, e giocavamo a pallone.
Dopo tanti anni, il caso ha voluto che lavorando per Jameson - per me motivo di grandissimo orgoglio - mi portarono in distilleria. E la distilleria è proprio dove c’è il Baby Walk: quindi io giocavo a pallone sui cancelli della distilleria, dove ho dato anche il mio primo bacio a una certa Lisa (non lo scrivere perché poi mia moglie si ingelosisce). È il posto dove ho avuto le mie prime avventure da scapestrato, sembra un racconto romantico ma è totalmente vero.
Tant’è che quando andammo la prima volta, scendemmo dal pullman il gruppo di bartender e anche l’ambassador dell’epoca che pensava scherzassi, e tutto il paese venne a salutarmi.

Whiskey o altri distillati?

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Senza scherzi, ho aperto il primo gin bar d’Italia, il Gin Corner. E non me ne voglia il whiskey, ma il gin mi ha fatto guadagnare il soprannome che mi tengo stretto di Gin-ecologo.
Sì, principalmente questi due, ma mi piace provare altro, mi piace la tequila ad esempio.

L’Irlanda è la metà romantica della tua vita mi sembra di aver capito, Roma quella reale.

Ho avuto la grande fortuna di aver potuto lavorare tanto. Sono sempre riuscito a portare la mia visione nei cocktail bar dove sono stato e hanno avuto sempre tanto successo, a tutti i livelli. Forse perché ero al posto giusto al momento giusto, non mi voglio prendere tutti i meriti.
Da tre anni ormai sono alla guida del banco del Caffè Propaganda, che è stata sinceramente una rivelazione. Come bancone, come presentazione: è dove mi sono potuto esprimere più che mai con una livella: dal più umile al più sofisticato dei clienti.
Il discorso di Roma è di sacrificio, perché si sacrifica la vita privata: all’inizio è divertente quando hai accesso alla notte, alle feste. Appena diventi più grande è un po' più difficile, stancante. La clientela romana è radicata ai vecchi stili, ma si sta aprendo molto con tutta quella rivoluzione che sta succedendo nel mondo del cibo, del vino e anche e della miscelazione. Siamo verso la direzione giusta.

Quindi anche tu pensi che Roma ormai sia a un livello alto dal punto di vista della mixology?

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Penso che sia al livello più alto. Mi sento di nominare il Jerry Thomas, Freni e Frizioni, il Club Derrier, anche se è più giovane. Sono tutte realtà che hanno portato a una qualità altissima. Il Jerry ha preso una situazione confusa e ci ha unito tutti.

E adesso sei pilastro di un nuovo progetto, NIO, che davvero rivoluziona il bere e stai anche per aprire il tuo locale, giusto?

NIO sta per “Needs Ice Only”. È una start-up dove io faccio questi drink prêt-à-boire veloci da gestire e che sono gli stessi che poi faccio al locale, quindi non hanno conservanti, non hanno niente. È un’idea sviluppata da Luca Quagliano, Alessandro Palmerin, me e Massimo Palmieri.
Funziona che semplicemente devi agitare la busta, strappare l’etichetta e versarlo in un bicchiere pieno di ghiaccio. Così puoi goderti un ottimo Boulevardier mentre ti leggi un libro.
Il locale verrà aperto verso fine aprile, inizio maggio e sarà un posto per tutti. Ma lo vedrai, non ti anticipo altro.

Grazie Patrick, grazie delle storie e del Manhattan che mi ha steso.

Questo post è parte del nuovo progetto editoriale “Che Gusto C'è”, realizzato da MUNCHIES e VICE in collaborazione con Jameson Irish Whiskey, per esplorare la cultura della musica di strada e del buon bere.