Il saluto di benvenuto del Noma ha origini traumatiche
Tutte le foto sono di Jason Loucas.

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Il saluto di benvenuto del Noma ha origini traumatiche

Nonostante ciò, fa in modo che tutti gli ospiti si sentano sempre i benvenuti.

Sono esattamente le 12:06 del 16 febbraio 2018 e i primi 6 ospiti sono entrati al nuovo Noma. Fuori dal ristorante i lavori sono talmente in corso che gli operai stavano inchiodando le assi di una passerella persino quando i primi clienti erano ormai ammassati davanti all'entrata principale, e il comproprietario Rene Redzepi è stato costretto a chinarsi per rastrellare via il pacciame.

Tutto questo, però, gli ospiti non l’hanno quasi notato. Sorridenti, sbalorditi e forse persino un po’ in soggezione, i commensali si sono fatti strada a tentoni attraverso l’ingresso in quercia del nuovo Noma, ritrovandosi poi sopraffatti da un’ondata di calore umano inaspettata. I membri dello staff, tra camerieri, sommelier, tirocinanti, cuochi e chef raggiungeva le cinquanta unità, e aveva formato una sorta di muro pronto ad accogliere chiunque entrasse. “Benvenuti!” “Ciao!”.

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Questo saluto corale è stato una caratteristica distintiva nel Noma per anni. Ogni tavolo pieno d’ospiti ha ricevuto il benvenuto da quanti più membri dello staff possibili, ai quali spetta il compito di smettere di svolgere le proprie attività per correre all'entrata e salutare. Chi mette piede al Noma per la prima volta si sorprende di tutto questo calore, chiedendosi se sia "davvero per me?”.

Tuttavia, nonostante l’indiscutibile giovialità, le origini del saluto del Noma sono decisamente cupe.

Il comproprietario, Redzepi, è cresciuto a Copenaghen da madre danese e padre albanese della Macedonia. Quando era solo un ragazzo, Redzepi viaggiava ogni estate con la sua famiglia alla volta di Dzepciste (in albanese Xhepcisht), che si trova nel sudovest di quella che oggi chiamiamo Macedonia ma, all’epoca, era la Jugoslavia. Lui e suo fratello gemello, quindi, trascorrevano le estati con il lato paterno della propria famiglia.

Durante una di queste vacanze (secondo Redzepi stesso si trattava del 1989 o 1990, quando lui aveva 11-12 anni), la famiglia si era ritrovata in un villaggio per un soggiorno abbastanza lungo. Una notte, però, dopo essere stati messi a letto, i genitori hanno svegliato all’improvviso Redzepi e il fratello . La guerra non era ancora scoppiata formalmente, ma la zona in cui stanziavano era da sempre nel bel mezzo di svariati conflitti e qualcosa aveva reso il loro soggiorno pericoloso. “Io ero parecchio assonnato e non ricordo molto di quello che è successo, so solo che siamo stati fatti salire velocemente in macchina,” ricorda lo chef. “E che poi, attraverso le luci rosse dei fanali posteriori, potevo vedere tutta la mia famiglia riunita in giardino. C’erano mia nonna, gli zii paterni e i miei cugini. Stavano tutti piangendo.”

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Molti di loro Redzepi non li ha più visti. La guerra ha presto diviso la Jugoslavia e, quando il ritorno in quelle terre si era fatto sicuro, lui era ormai stato fagocitato dagli impegni della sua carriera. Tuttavia, quel ricordo d’amore condiviso (c’erano tre generazioni riunite in semicerchio, nel mezzo della notte, per dirsi addio), non l’ha mai abbandonato. C’è voluto un po’ per trasformare quel trauma nel saluto corale tipico del Noma, che però ora è una parte fondante dell’esperienza gastronomica del ristorante.

“Si tratta di un qualcosa di profondo. È importante guardare i propri ospiti negli occhi e dare loro il benvenuto. Si può pure avere il menù migliore al mondo, ma nulla batte il contatto umano. Rende tutto più speciale.”

I passaggi sono questi: c’è un cameriere a cui spetta il compito di controllare i nuovi ospiti pronti a entrare, e che dovrà avvisare il resto dello staff con un veloce “ospiti in arrivo!” appena riesce a stanarne qualcuno. Da lì chiunque può corre all'ingresso mettendosi in formazione. Con il trascorrere della serata, quando tutti sono indaffarati nello svolgimento dei propri compiti, l’avviso dell’entrata dei nuovi ospiti diventa un po’ pressante.

“Quando sei lì che stai facendo qualcosa è difficile fermarti,” racconta lo chef de partie Fejsal Demiraj. “Non puoi rimanere a pensare se andare o meno, perché è quel lasso di tempo in cui pensi che ti frega. Devi semplicemente andare.”

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Nonostante la tensione aggiunta, nessuno crede il saluto non valga lo sforzo. “Sì, a volte è difficile smettere di colpo tutto,” rivela il general manager nonché comproprietario del Noma Lau Richter. “Ma è importante per gli ospiti. A volte si girano perché pensano ci sia qualcuno d’importante dietro di loro.” Anche in cucina i sentimenti sono simili. “M’infastidisce? Ovviamente no!” precisa Demiraj. “È una delle cose più belle al mondo. Gli ospiti iniziano a camminare a tre metri da terra. È bellissimo.”

Con l’apertura del nuovo Noma, il saluto ha subito qualche variazione per adattarsi alla nuova ambientazione. Ora, dato che è possibile controllare l’arrivo dei nuovi ospiti da dentro il locale, nessuno deve più sbucare fuori e aspettare arrivino. Quindi la sorpresa è ancora maggiore. “Non voglio si aprano le porte dall’interno, non voglio alcun gesto drammatico,” spiega Redzepi. “Voglio che gli ospiti aprano la porta da soli e rimangano travolti dalla sorpresa.”

Preso dal suo primo giorno di lavoro, un tirocinante ha ignorato la chiamata “ ospiti,” rimanendo concentrato sulle proprie faccende. O almeno, lo ha fatto finché il sous chef Stu Stalker non lo ha notato. “Quando arrivano gli ospiti devi andare a salutarli,” gli ha detto. “Vai perché sei al Noma adesso, e noi qui facciamo così.”

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Quest'articolo è originariamente apparso su Munchies DA.