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Foto di Carlotta Girola

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Cibo

Come mangiare squali e balene in Islanda mi ha fatto capire qualcosa in più su etica e natura

Paesaggi incontaminati e cibi ancestrali molto poco green: le contraddizioni etiche dei piatti tradizionali in Islanda.

Tornare da un viaggio in Islanda è una sorta di caduta dell’uomo dal paradiso terrestre.

Dopo 8 giorni di splendido nulla condito da acqua, vento, neve, ghiaccio e riconquistata per osmosi l’innocenza cosmica, si torna d’improvviso al traffico e agli spintoni in metro. Dai nasi all’insù ad ammirare orizzonti immensi, agli sguardi ringobbiti alla ricerca di mail nello spam.

Di gente se ne incontra poca, nell’Islanda di novembre. Il contatto vero sta tutto nella relazione molto poco paritaria con la natura, quella bellissima e al contempo matrigna psicotica e bipolare. Mai come nelle lande desertiche islandesi ho sentito la necessità morale di proteggere questa parte di paradiso.

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All’ombra dell’aurora boreale, riscaldate dall’energia geotermica, le serre d’Islanda ospitano la più grande piantagione di banane d’Europa.

La potenza capricciosa dei fenomeni atmosferici in costante mutamento si intervalla solo con brevissime parentesi di paesaggio antropico, per puro spirito di sostentamento: i supermercati, ad esempio. In ogni market, in capitale come anche nel più sperduto dei villaggi da quattro case, c’è sempre un ben fornito dispencer di banane. “Ah, la globalizzazione gastronomica”, direte voi, “i cibi poco sostenibili che compiono migliaia di chilometri e inquinano come non ci fosse un domani”. E invece no: quella che potrebbe sembrare una contraddizione, è un altro esempio di sostenibilità islandese.

All’ombra dell’aurora boreale, riscaldate dall’energia geotermica, le serre d’Islanda ospitano la più grande piantagione di banane d’Europa.

L’Islanda ti svuota il portafogli, ma ti restituisce un impagabile senso di gratitudine.

Reykjavik e le poche aree urbanizzate sono solo un vezzo modernista in mezzo a questo imperante senso di sopraffazione della Natura. Proprio Lei, così prosperosa e in costante subbuglio ormonale, in poche ore ti fa innamorare. L’Islanda ti svuota il portafogli, ma ti restituisce un impagabile senso di gratitudine, un abbraccio cosmico con retro-tendenze fricchettone che non credevi potessero appartenerti.

Ma siamo umani, siamo imperfetti, siamo ecologisti a targhe alterne. E sono italiana, abituata a godere di buon cibo e trasformarlo in convivialità e argomento di discussione. E quindi, immersa nel poetico silenzio dei vulcani spenti, mi sono nutrita anche in Islanda, cercando di rispettare la regola base dell’italiano all’estero: una certa distanza di sicurezza dagli spaghetti, una puntigliosa ricerca di cibo autoctono e tradizionale. Per 8 giorni la mia dieta islandese ha visto un loop di salmone, trota, merluzzo, agnello. Il tutto condito da rape, patate, barbabietole, radici.

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Uniche eccezioni a questa varietà alimentare autarchica sono stati due cibi che, nel loro essere selvaggiamente tipici, sono anche un corto circuito di giusto-sbagliato, di tradizione culturale versus sostenibilità.

Due animali (…e ok, non sono vegetariana),

due animali di cui il primo non proprio buonissimo (…e ok, dai, uno su due),

due animali di cui il secondo a rischio di estinzione (…ah, mmm, sì ma “low risk”, dice il WWF).

Kæstur hákarl: lo squalo (fermentato) che si “morde la coda”

La verità è che lo squalo ricorda l’odore dei marciapiedi non illuminati dai lampioni, cioè quello di piscio.

Lo squalo fermentato è l’esempio più infelice dello spirito da assaggiatrice a tutti costi. Nell’ennesimo nulla imbiancato di nevischio, si trova la fattoria islandese dove convoglia il 90% degli squali pescati accidentalmente. In senso letterale, infatti, questi squali restano imbrigliati nelle reti della pesca agli alibut e ci muoiono, poi arrivano qui, dove hanno costruito un piccolo tempio museale dedicato proprio a loro.

Lo squalo della Groenlandia, una delle specie più longeve e più grandi del pianeta, è tossico. Per poterlo mangiare è necessario un lungo procedimento di fermentazione (o putrefazione, che dir si voglia) che lo libera e lo depura dall’acido urico. A Bjarnarhofn si può visitare anche l’essiccatoio, dove all’aria aperta stanno appesi i grandi tranci di squalo che somigliano ai prosciutti in cantina.

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Sapevo dall’inizio che l’assaggio non sarebbe stato una cosa piacevole, e in effetti le aspettative corrispondevano alla realtà. La carne dello squalo è bianca come il latte, immacolata, ma in bocca questo candore si trasforma in un sapore acuto e pungente che entra dritto nel naso, passando dalla gola. Ad essere gentili si potrebbe paragonarlo agli erborinati strong, ma l’unica verità è che lo squalo ricorda l’odore dei marciapiedi non illuminati dai lampioni, cioè quello di piscio.

Combo di contraddizioni dello squalo che si morde la coda e si rimorde i baffi: venendo pescato accidentalmente, sarebbe un peccato mortale non sfruttare al massimo un “sacrificio” fortuito buttando nel cestino le sue carni. Ma esisterà pure un modo al mondo, uno solo, per evitare di pescare squali. Io credo che a volerlo trovare, un modo esisterebbe, anche se di certo sarebbe costoso. Da qui partirebbe la valanga di effetti negativi come l’aumento di prezzo di altri pesci, poi le ripercussioni sull’economia ittica e bla bla bla: ci siamo già rimorsi la coda da soli per l’ennesima volta. Essere coerenti a prescindere è da stupidi, cercare di essere meno stupidi possibili potrebbe però restituire alle generazioni a venire qualcosa di buono (che non sono gli snack di squalo, ma gli squali che scorrazzano in acqua).

La carne di balenottera

Orde di turisti galvanizzati dal whale watching e ristoranti dove si pratica il whale eating.

Percorrendo tutta la ring road si fa il giro completo dell’Islanda. Durante il tour è abbastanza difficile trovare ristoranti che non siano di puro sostentamento. Qualcuno ci prova anche a osare qualche gourmetteria in salsa islandese, ma è quasi impossibile mangiare qualcosa da perderci la testa. Bisogna fare tutto il giro dell’isola e arrivare fino alla capitale per avere qualche chance e poter addirittura scegliere cosa e dove (mangiare). A Reykjavik uno dei posticini più acclamati e frequentati è Ostabúðin, in centro città.

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E dopo una settimana di loop a suon di radici salmonate e di cibo da sopravvivenza, questo ristorante è stato un miraggio, un atterraggio morbido sulle cose buone e giuste della civiltà.

Nel menu degustazione c’è (anche) un piatto a base di balenottera minore.

Si attiva istantaneamente il WWF alert che si è amplificato in me, in particolare dopo aver lanciato baci alla foca allo stato brado avvistata in uno degli impronunciabili fiordi d’Islanda appena un giorno prima. Decido di spazzare l’inquietudine sotto il tappeto; la assaggio, autogiustificandomi con la mia innata curiosità. La carne di balena ricorda da lontano il pesce, ma in verità è molto più simile al manzo. È saporita, non tenerissima ma mediamente tenace, in una parola è buona. Posso appuntarmi sulla giacca una nuova spilletta: ho mangiato la balena.

Naturalmente l’ho anche digerita, ma qualcosa nello stomaco ha continuato ad andare su e giù. Nei giorni successivi scopro che la questione della pesca delle balene in Islanda è una ferita aperta da anni, una pratica che risponde a un retaggio culturale antico, certo, ma che ricontestualizzata al 2017 appare senza molto senso. Soprattutto se pensiamo che questa specie non è a rischio imminente di estinzione, sempre che se ne rispettino le quote di pesca. Insomma, la balenottera non è che dorma sonni tranquillissimi, oltre a fare una fine atroce che non augurerei nemmeno a quelli che parlano al cinema.

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Recap in difesa della natura (islandese)

Le contraddizioni da menu in un’Islanda che sembra intoccata (e che dovrebbe essere intoccabile) purtroppo esistono e io, da italiana media, ci sono cascata dentro con tutte le scarpe. Il dubbio è che mangiare squali e balene tra geyser e vulcani non ci riporterà allo status di paradiso terrestre, ma affretterà la nostra tendenza a scialacquare la biodiversità marina.

Nei tempi che furono, forse le calorie del kæstur hákarl hanno riscaldato qualche inuit, ma oggi diciamo pure che siamo fuori tempo massimo.

Cartellonistica islandese con faccette di animali sorridenti ad indicarti le baie dove osservare le foche in libertà e battute di pesca dove (ops!) nelle reti ci è cascato uno squalo.

Orde di turisti galvanizzati dal whale watching e ristoranti dove si pratica il whale eating.

Serre riscaldate con il 100% di energia pulita e locali dove si assaggiano tranci di animali a (basso) rischio di estinzione.

Sicuri, islandesi, che non paghi di più una balenottera viva domani che una morta oggi?