Ho mangiato nel centro commerciale più grande d'Europa, e sono sopravvissuto
Tutte le foto Alice Gemignani

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Cibo

Ho mangiato nel centro commerciale più grande d'Europa, e sono sopravvissuto

Mangiare qui dentro mi metteva i brividi al solo pensiero.

Nell’immaginario collettivo, il centro commerciale è tutto fuorché La Mecca per un gourmet. Olimpo del consumismo più sfrenato e meta domenicale di intere famiglie che non trovano miglior modo per investire forse l’unico giorno in cui stare tutti insieme, mangiare lì dentro mette i brividi al sol pensiero. Ma siccome io dell’immaginario collettivo non mi fido molto, essendo un ingordo ed empirista, ho deciso di investire una domenica di fine ottobre a Il Centro di Arese (MI), ovvero il centro commerciale più grande d’Europa, per vedere se i rispettabilissimi gourmet hanno ragione.

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Quando alle 13 arrivo in auto con Alice armata di macchina fotografica al seguito, per trovare parcheggio c’è da votarsi a qualche santo. Le auto stazionano come enormi e immobili scarafaggi a quattro ruote sotto un cielo opaco occupando tutte le caselle del posteggio e quando ne troviamo una libera ci avventiamo come sciacalli.

Devo comunque ammettere che, sebbene mi senta prigioniero, me lo aspettavo peggiore in termini di ambiente

Entriamo e io sono già bello carico, nonché affamato.

Criterio di selezione: niente catene tipo KFC, Roadhouse, l’onnipresente Mc Donald’s, non sono qui per piagnucolare sul cibo da fast food più vituperato del globo.

La cotoletta di pollo da passeggio

Alla prima occasione mi faccio quindi una cotoletta di pollo da passeggio. L’omino che me la consegna mi dice però che dovrò andare a pagare “Lì” e per Lì intende 10 metri più in là a una cassa che da Qui riesco solo a intravedere. Affronto la fila ma la cassiera ci mette 20 minuti pieni per smazzarsi 7 scontrini. Giuro. Per fortuna la mia cotoletta di pollo da passeggio è già ghiacciata-temperatura-siberiana, quindi le mie maledizioni sono a regime ridotto.

Essendo una cotoletta di pollo da passeggio, rigetto l’uso delle posate, mangio con le mani come si confà a un gentiluomo come me. Potrei scaldarla, ma dopo il primo morso capisco che il calore di un microonde non migliorerà l’essenza di una carne evanescente, forse di pollo fantasma. L’unica nota di sapore ravvisata dalle mie papille è la panatura imbrunita in qualche punto. Povero polletto, sei stato sacrificato e ti hanno oltraggiato. Sappi che ti vendicherò.

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Siamo sotto Halloween e molti commessi e commesse sono truccati/e o vestiti/e a tema. Ma fossi in loro, denuncerei la direzione o la make up artist per le atrocità commesse. Già fronteggiare un’orda di consumatori nel giorno in cui potresti startene a casa in panciolle è qualcosa di feroce, poi conciato in un certo modo il dramma si acuisce. Sono comunque solidale con tutti, soprattutto con la cassiera che ha un cerchietto da cui sbucano due pipistrelli a mo’ di corna-antennine e si nota che l’accessorio la disagia non poco.

Dopo un po’ ti abitui all’idea di voler spendere soldi anche tu…

Con Alice vado a caccia di altro cibo, magari che abbia un po’ di sapore. In giro non c’è ancora casino, traffico fluido di coppiette che si guardano intorno e mocciosi incredibilmente mansueti. E poi: cani.

Tanti cani. Becchiamo i 7 bassotti a pelo lungo tenuti assieme da Costantino, che ci tiene a dirmi che è vegano. Forse ha sentito l’odore della Cotoletta Di Pollo Da Passeggio sulle mie dita, non lo so. Tranquillo Costantino, non siamo in Cina o Corea, risparmierò i tuoi simpatici quadrupedi e non li mangerò. Sono così ciccini pucciosini.

Bando alle ciance: devo mangiare.

Da Daddynosh, che tradisce il nome internazionale proponendo piadine romagnole, ne ordino una con squacquerone, rucola e crudo. La parola “squacquerone” mi fa molto ridere (e ora che ve l’ho detto, riderete anche voi).

La piadina senz'anima

Se fossi Cocciante, scriverei una canzone dal titolo “Piada Senz’Anima”. E la mia musa sarebbe quella che ho appena addentato: condimento centellinato, sapore anaffettivo, certi cibi mi lasciano sgomento. E soprattutto mi restano sullo stomaco, mi basta qualche minuto per sentire lo squacquerone, dal nome così buffo, prendere residenza sull’esofago. La Vendetta Dello Squacquerone Perculato.

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Per tenerlo a bada, mi sembra giusto mangiarci sopra. Essendo io siculo, mi avvicino a un chioschetto che vende arancini. Dopo la Romagna, la Trinacria. Vediamo come li fanno ‘sti arancini.

Delibero per uno al ragù – dalla forma a punta, quindi Sicilia Orientale, quindi lo chiamo al maschile, quindi non rompete il cazzo – e due arancinetti al nero di seppia.

Gli arancini

Lo confesso, quelli al nero hanno l’aspetto di due palluzze di sterco di capra, chi ha passeggiato su vie sterrate di campagna dopo il passaggio di un gregge converrà con me. Totalmente insapori, sono solo riso (scotto) macchiato di nero senza null’altro. Panatura moscia come il mio entusiasmo.

Passo a quello al ragù. Regà, ok non avere aspettative, ma nemmeno bramare lo spegnimento dei recettori. Riso (scotto) poltiglioso, crosta che si sfalda in mano e poi, colpo da maestro, ragù di carne senza carne. Non intercetto neanche un briciolo di macinato, nulla, niente a parte due pisellini mesti che vivacchiano nel rosso sbiadito di una salsa di pomodoro.

L’unica nota positiva è che posso vedere frignare a distanza ravvicinata un bambino cicciottellino che sbatte i piedi perché vuole un nonsocché mentre papà non lo caga. Bimbo, ringrazia di non essere mio figlio, non t’avrei fatto alzare il volume della voce neanche di un hertz.

Devo comunque ammettere che, sebbene mi senta prigioniero, me lo aspettavo peggiore in termini di ambiente, Il Centro. Sembra una grande città al coperto con piccoli viali e piazzette, alberi e panchine e un’enorme istallazione piramidale di legno su cui si arrampicano eserciti di marmocchi urlanti. Una città in cui gli edifici sono abitati da commesse e cassiere che vogliono solo i tuoi soldi. Il mio naso sta andando in panne, vittima dell’aggressivo marketing olfattivo dei vari negozi, tra i quali c’è di tutto: Adidas, Swarowski, Bata, Vans, Zara, Victoria’s Secret, Maison Du Monde, H&M, Tiger, Foot Locker e gli altri ve li guardate sul sito.

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Nel mio vagare alla ricerca del cibo superyeah de Il Centro, mi imbatto in Roll Eat, che fa dei maki che, dalle foto, sembrano belli grandi. Ne ordino uno con polpo, alga nori, salsa teriyaki, tofu, misticanza, zucchine, carote e maionese all’avocado. Quasi uno svuotafrigo.

Il mio roll svuotafrigo.

Come da copione, la foto è a solo scopo dimostrativo, il maki è più piccolo rispetto alla mia fervida immaginazione (e a quello che campeggia sul menu). E cosa dire a fronte della mia analisi organolettica? Senza le salse a dare un po’ di agrodolce, sarebbe come addentare un cilindro di polistirolo. Il polpo doveva essere affetto da rachitismo, nanetto come quello di un moscardino, quel tentacolino.

Prendo anche del platano fritto, plastico come i bottoni del mio giubbotto in stile Fargo.

Giunti a questo punto penserete che sia un piagnone dal disgusto facile. Avete ragione. Mi raccapriccia il cibo privo di spirito. Penserete anche che non c’è molto da aspettarsi nel luogo in cui mi trovo. Avete ragione ma io sono un idealista.

Finora le mie papille hanno incontrato solo afflizione gustativa ma voglio dare ancora una chance al microcosmo cibario di questo enorme centro commerciale. Da 30 Polenta potrebbe risollevare le sorti di questo pomeriggio. Sul menu scorgo “polenta con trippa”, non posso esimermi dal testarla. Sapori veraci di casa. Un guizzo di speranza. Vai.

Il mio piatto è pronto in un batter d’occhio. All’aspetto si presenta come una sbobba indistinta e poco invitante. La trippa è abbastanza blanda nell’odore, civilizzata per il naso dell’avventore medio che potrebbe scandalizzarsi. Inizio a temere.

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Assaggio. Essendo stracotta, la trippa ha assunto una consistenza mucosa, quasi ributtante. Non riesco ad andare in fondo, finire tutto è una fatica che neanche Ercole potrebbe sostenere.

Il salato fin qui è stato penoso, vediamo se col dolce miglioriamo. Ve l’ho detto, sono un idealista.

Vicino all’ingresso, dentro una vetrinetta refrigerata scorgo l’ultimo Ice Pop, una cappella di cioccolato condita con zuccherini colorati che si erige da uno stecco di legno. È l’ultimo e davanti a me, in fila per la cassa, c’è una mamma con i due figli in età elementare. La mamma chiede ai bimbi cosa vogliono. Marmocchi, state molto attenti a cosa rispondete, se dite “l’ultimo Ice Pop che vuole lui” voltandovi e indicandomi coi vostri ditini zozzi, giuro che vi entro negli incubi e vi mangio tutti i giocattoli davanti agli occhi, tipo Nightmare. Ma i due previdenti minorenni non lo fanno, mi lasciano quindi l’ultimo Ice Pop, che posso ghermire indisturbato.

Il cioccolato all’esterno è una corazza a prova di testata nucleare, tanto dura che rischio di spaccarmi i denti. Il gelato fior di latte all’interno ha il sapore dell’ipotesi di un fior di latte non ancora sviluppato nella mente del mastro gelatiere.

Ho l’umore sotto i tacchi. C’è un bambino biondo che piange in braccio al padre indicando qualcosa di indefinito nello spazio con l’indice teso come una spada laser. Piccolo, ti sono vicino, anche io piangerei fortissimo adesso indicando la mia fiducia nel Buon Cibo che evapora, laggiù, in un punto indefinito nello spazio.

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Ho ancora un pertugio nel mio pancino per qualcos’altro? Sì, un gelatino classico.

Da CremAmore prendo un cono con fragola con una suprema cascata di panna montata sopra. Sebbene il gelato abbia un sapore mediamente chimico, posso testimoniare che quantomeno qui c’è dell’impegno, sono state usate fragole vere, ci sono semini e pezzetti di polpa.

Basta, chiudo battenti.

Alle 18 Il Centro trabocca di gente e s’è trasformato in una sorta di Panopticon benthamiano. Dopo qualche ora il senso di prigionia iniziale svanisce, subentra l’assuefazione alle luci, alle insegne, ai tremila cani al guinzaglio, ti sembra che il mondo sia fatto solo di questo, che oltre l’uscita ci sia l’ignoto.

Ti abitui alle espressioni soddisfatte delle signore mentre mariti dallo sguardo floscio trasportano sacchettoni rigonfi di cose con la consapevolezza che gli verrà un colpo al prossimo estratto conto. Ti abitui al vociare incessante che rimbalza dal tetto alle pareti e ti circonda e quando esci e non lo senti più capisci cos’era quel rumore bianco che ti farciva la testa. Ti abitui ai buzzurri che passeggiano con l’aria di chi potrebbe menarti per un nonnulla e alle coppiette acchittate come fossero invitate a un matrimonio.

Dopo un po’ ti abitui all’idea di voler spendere soldi anche tu, magnetizzato da quella camicia a quadri e da quelle scarpe minchia-quanto-le-vorrei e da quelle cianfrusaglie che non ti servono ma ora le vuoi solo perché sei nel Regno Dell’Esborso Di Denari.

E dopo un po’ ti abitui, anzi, ti rassegni anche all’idea che, lì dentro, di roba buona da mangiare non ne troverai neanche per intercessione della Beata Vergine Maria.

A mai più, baby.

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