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Cibo

Ecco perché non sopporto 'Date da mangiare a Phil', la serie di Netflix

Cosa succede quando una serie sul cibo ha come protagonista un bambino esaltato al posto di uno chef iper-virile? Niente di buono
Tutte le foto via screengrab da Netflix

Se avete visto la prima stagione - anzi, come viene chiamata, la prima portata - di Date da mangiare a Phil, sapete di cosa sto parlando. Della serie documentario di Netflix che ci porta in giro per le culture gastronomiche del mondo insieme a quel simpaticone di Philipe Rosental.

Philipe, chi? Un attore americano, poco noto in Italia, che si è riciclato nell’intrattenimento gastronomico. Per come la vedo io è proprio lui il problema della serie: più che un conduttore o una voce narrante è un bambinone esaltato, le cui smorfie entusiaste mi hanno rovinato il sonno più di una volta nei mesi scorsi.

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C’è chi dice che sia un post-Bourdain accettabile, ma io nutro forti dubbi al riguardo. Non lo vedrete mai sfrontato e saggio come il buon vecchio Anthony (RIP), non finirà mai per ingoiare insetti o stufati dagli ingredienti ignoti. Molto più spesso risulta goffo, schizzinoso o spaventato, o tutte e tre le cose insieme, anche mentre mangia nella cucina dello chef migliore al mondo, Massimo Bottura.

L’idea innovativa della serie è che Phil sia un totale outsider del mondo gastronomico. È contento di interagire con il cibo in modo infantile e genuino, tanto che mentre assaggia un pezzo di Parmigiano Reggiano di 6 anni esclama “Ma non è come quello che abbiamo in America!”. Insomma, una risposta a tutti quelli che negli ultimi anni hanno intellettualizzato il cibo nelle trasmissioni tv e nei ristoranti.

Non è un uomo o chef virile, come lo stereotipo televisivo ci ha abituato, non è lui in prima persona ad insegnarci qualcosa di quello che mangia, ma sono le persone che incontra che imboccandolo (in tutti i sensi) ci raccontano la storia dei piatti o dei cibi.

Tutti appaiono divertiti dai suoi fastidiosissimi modi di fare e fingono bene di ridere alle sue pessime battute, mentre lui, impunemente scroccone, ingoia un sacco di roba, continuando a dire “delizioso, fantastico, buonissimo” oppure facendo le sue smorfie da bambino esaltato.

Ogni puntata si chiude con una telefonata Skype ai suoi genitori. Sì, avete letto bene. Come se non risultasse già abbastanza infantile, c’è sempre il momento un po’ strappa-lacrime in cui tira le somme della sua giornata e racconta il viaggio appena vissuto a mamma e papà.

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È probabile che alla fine sia la noia a farvi abbandonare la serie già alla prima puntata, che dura ben un’ora; in un episodio, per esempio, sarete costretti a subirvi trenta minuti solo di lui che cerca di remare su una gondola mentre si lamenta di continuo. Se invece, come me, siete masochisti, guarderete l’intera la stagione tutto d’un fiato e alla fine vi sembrerà quasi di aver sconfitto un demone interiore, quello che vi preannuncia l’amico che vi chiede “com’è quella nuova serie su Netflix?”.

Il programma ha indubbiamente un linguaggio diverso dalla media culinaria, ma a parte la lentezza nella narrazione che al confronto Chef's Table è una passeggiata, Phil avrebbe decisamente bisogno di maturare un attimo e di limitare le sue terribili smorfie. Magari se in tv proponessero un personaggio che sta tra l’iper-virile e il pappa molle, senza sbilanciarsi troppo verso nessuno dei due estremi, saremmo tutti più contenti.

Forse Phil è solo la metafora di un mondo che è stufo di vedere il cibo elevato ad una forma troppo intellettuale ed elitaria.

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