I cocktail di questo bartender leggendario vi faranno innamorare
Tutte le foto sono di Pierre Monetta

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I cocktail di questo bartender leggendario vi faranno innamorare

William Oliveri pensava avrebbe preparato cocktail al 228 Bar solo per qualche mese. E invece ci lavora dal 1978, fra cocktail dedicati all'amore e a personaggi dello spettacolo.

Le Meurice è uno dei luoghi più lussuosi di Parigi, e lo stesso vale per il 228 Bar dell’hotel. Qui, dal 1978, lavora il siciliano William Oliveri, il cui carisma e accento ritmato sono ormai diventati icone del locale stesso.

Abbiamo deciso di sederci e scambiare quattro chiacchiere con William, scoprendo chi sia passato per il locale e cosa abbia bevuto.

MUNCHIES: Ciao William! Hai sempre desiderato fare il bartender? William Oliveri: In realtà quand’ero piccolo volevo fare il missionario. Ho persino studiato dai gesuiti. Poi, compiuti i 18 anni, ho deciso d’andarmene. Ovviamente il tutto, ora, suona un po' datato.

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Come sei finito a fare il bartender?

Sono il più vecchio di tre fratelli e mio padre era un muratore che lavorava sempre. Non nuotavamo nell’oro e io ho iniziato presto a lavorare. Sapevo che se avessi deciso di tornare a scuola, avrei dovuto sostenere esami integrativi, e la reputavo una perdita di tempo costosa. Quindi mi son ritrovato a pensare che sarebbe stato meglio seguire un corso professionale per iniziare subito a lavorare, non appena raggiunta la maggiore età.

Che cosa ne pensava la tua famiglia?

All’epoca mio padre, da buon siciliano, non amava l’idea che il suo primogenito andasse a “servire” la gente. Non comprendeva il settore. Ma mia mamma, da brava mamma, è riuscita a fargli cambiare idea. Così mio padre è venuto e mi ha detto “Senti, se vuoi fare questo lavoro fallo, ma vedi d’impegnarti in qualsiasi carriera tu decida d’intraprendere nella vita.”

Come sei finito a Parigi?

Lavoravo ovunque, in Inghilterra, in Germania, a Firenze… però erano lavori stagionali, quindi facevo sei mesi qui, quattro lì… Non credevo sarebbe stata una buona idea fermarmi da qualche parte data la mia giovane età. Pensavo avrei potuto imparare di più gironzolando.

Arrivato in Germania per l’ennesima volta, però, mi decisi a fermarmi a Dusseldorf per tre anni, allo Steigenberger Park Hotel. Terminati i miei anni lì, pensai che sarebbe stato davvero bello trasferirmi a Firenze con la mia giovane fidanzata.

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Poi però capii anche che un periodo in Francia, la patria della gastronomia, fosse necessario se non quasi obbligatorio per un futuro nella ristorazione e nel settore alberghiero italiano. E io, dopotutto, il francese lo parlavo: all’epoca si studiava quello a scuola.

La Francia come la terra della gastronomia? Wow, detto da un italiano…

Eh già! Ma vedi, erano gli anni Settanta, e negli anni Settanta, ma anche un po’ adesso, quando parlavi di gastronomia parlavi francese. Era quasi automatico. In Italia, ad esempio, ci sono vini sublimi, io stesso porto alta la bandiera dei vini italiani all’estero, ma bisogna dare atto al fatto che la gastronomia sia la Francia.

E quindi sei arrivato al Meurice?

Esatto, nel 1978. Un ragazzo con cui avevo lavorato in Germania mi aveva detto che al Maurice c’era un posto libero da barista, e a me interessava. Avevo lavorato sia in sala che nei bar, quindi il lavoro mi si confaceva. Arrivato al colloquio c’era il capo barista, che lavorava al Meurice dal 1951, anno della mia nascita. Dopo un colloquio in francese, inglese, tedesco e spagnolo, mi guarda e mi fa “Non sto a dirti che ti farò sapere perché sei già assunto. Quanto rimarrai da noi?”. “Mi piacerebbe rimanere sei mesi” era stata la mia risposta. In verità pensavo a due o tre mesi, ma “sei” mi sembrava una risposta più ragionevole, anche se non secondo lui.

“Questa risposta è sbagliata,” aveva ribattuto ridendo. “Quando la gente arriva al Meurice non sa mai quando se ne andrà via. Io stesso sono sbucato nel ’51 con l’intento di rimanere qualche giorno e guardami, sono ancora qui.”

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E in effetti, dopo quei sei mesi, io sono rimasto.

Fra tutte le branche del settore alberghiero, perché preferisci quella dedicata ai bar?

Sono uno a cui piace comunicare, ho bisogno di poter socializzare con le persone. Credo che il servizio proposto al bar sia più personalizzabile. Nei ristoranti devi rispettare certi standard comportamentali, in più non c’è modo d’interagire più di tanto con i clienti. Al bar, invece, puoi inventare le cose, puoi personalizzare i tuoi servizi. Ed è questo il bello.

Da cosa trai ispirazione per i tuoi nuovi cocktail?

Quando si creano i cocktail ci si basa sui gusti della persona, su quello che trasmettono i suoi occhi. Se davanti hai una bellissima donna, capita di basarsi sui vestiti che indossa. La parola “cocktail,” in francese, è maschile, ma io la renderei femminile, perché i cocktail sono come le donne, e come tali possono farti girare la testa.

Una delle tue creazioni preferite?

Era il ’79, e al bancone sono giunti un ragazzo e una ragazza di 17 o 18 anni circa. Molto giovani e chic. Si davano del Lei, una cosa che adesso nessuno farebbe.

Avevo capito subito si trattasse di un primo appuntamento, nonché della prima volta per entrambi in un vero bar. Non sapevano come comportarsi. Quindi ho preso subito il toro per le corna esordendo con un “Ok, vi preparo qualcosa. Cosa vorreste? Rum? Ok, perfetto.

Alla fine avevo preparato un cocktail e lo avevo messo un bicchiere grande; dentro c’erano un po’ di cocco, Cointreau, limone, un po’ di granatina e due cannucce. Lo avevo chiamato “Guancia-a-guancia” perché per berlo bisognava stare vicini. E così il ghiaccio fra i due si era sciolto facendoli tornare per altre due volte: durante la seconda volta mi accinsi subito a preparare lo stesso cocktail, durante la terza, invece, mi sorpresero loro annunciando il loro fidanzamento ufficiale.

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Quel cocktail è ora nel mio menù. Non si chiama più “Guancia-a-Guancia” bensì “Plaisir d’Amour.”

Quali clienti famosi sono passata dal bar? Tutte le famiglie reali sono passate di qui. Tutti i Re e le Regine a eccezione della Regina d’Inghilterra. Per il resto, il Re di Svezia, tutta la famiglia reale svedese e Re Alfonso XIII di Spagna sono entrati dalla nostra porta. Anche Salvador Dalí, che era un monarchico. Ovviamente lui aveva richiesto anche la stanza di Re Alfonso XIII. Hai creato un cocktail persino per lui? Dalí non beveva mai alcol. Era venuto da noi in occasione della visita del Conte di Barcellona, il figlio di Alfoso XIII. Io però ho creato lo stesso un drink in onore di Dalí, chiamato “Gala e Dalí.” Gala, sua moglie, ogni tanto beveva. A lui piacevano le fragole, quindi quando era venuto gli avevamo preparato fragole fresche con zucchero e tè alle erbe per accompagnare. Il “Gala e Dalí” è un misto dei due personaggi, è un cocktail alla vodka e fragola. Non hai mai preparato cocktail per qualche star del cinema? Una volta è passata di qui Sophia Loren e io le ho preparato un Bellini. Era piuttosto arrabbiata, stava girando un film con Mastroianni ed è corsa da noi a chiederci di prepararle qualcosa di veloce tipo un Bellini.
[Imita il rumore di una bevuta rumorosa.]
“Ah, mi ha riconciliata con il mondo,” aveva poi detto dopo esserselo scolata. Qual è stato il cambiamento più grande a cui hai assistito, lavorando qui? Prima i clienti sapevano trattenersi, avevano classe. Sapevano come si viveva, ora non sembra più sia così. Ricordo questo aneddoto. Una volta è arrivato un cliente di discendenza austroungarica che è rimasto all’hotel per due o tre mesi. Un giorno scende giù al bar e mi dice “William, oggi arrivano dei miei amici. Ci siederemo lì all’angolo.
Vorrei tu versassi una bottiglia di Crystal in un boccale e poi, di lì, servila a noi in quattro piccoli bicchieri. Mi raccomando, non prendere nessun flûte da Champagne, solo bicchieri piccolini.” Arrivati gli amici e servito il tutto, si gira verso di loro e chiede cosa ne pensino del suo vino bianco, ricercando un po’ la mia complicità con lo sguardo. Amava fare scherzi. Lui era il tipo di persona che arrivava con un assegno bianco e diceva di compilarlo a fine serata. All’epoca la clientela arrivava alle 11 sapendo noi avremmo chiuso a mezzanotte. Ci chiedevano se avessimo qualcosa da bere prima di andare a dormire. Oggi alle tre di notte, mentre il bar è chiuso, le serrande sono giù e il personale è intento a pulire la sala, arrivano clienti a bussare e a lamentarsi, dicendo di essere qui per lo champagne. Secondo te, qual è il ruolo del barista? Il barista è una persona a sé stante. Non è né il maître d’hôtel né lo chef, non è né il concierge né il pastry chef. Secondo me, il barista è “l’uomo dell’hotel.” Anche perché, se ci pensate, cos’è il bar se non il posto in cui le persone si incontrano?
Io ho subito detto che avrei voluto il bar proprio qui, nel mezzo della struttura, vicino agli ascensori e all’entrata, perché volevo che la gente ci passasse davanti quando tornava a casa la sera. È un posto strategico, lo so, ma allo stesso tempo penso che il bar sia l’anima dell’hotel, il posto in cui succede tutto. Ed è in questo luogo che si configura il barista, il Signore dell’hotel e della città, la persona che tutti conoscono. Non vai al bar a bere un drink, vai al bar a trovare Nino, Pierrot, Jean, William o chi per lui. E a te cosa piace bere? Acqua minerale. Fantastico. Grazie per la chiacchierata! Segui MUNCHIES Italia anche su Facebook e Instagram.


Quest'articolo è originariamente apparso su Munchies US.