FYI.

This story is over 5 years old.

News

Questi palestinesi combattono l'occupazione con le loro macchine fotografiche

Nei piccoli centri della Cisgiordania ignorati da gran parte della stampa, gli abitanti hanno deciso di ricorrere alla macchina fotografica e documentare da sé l'occupazione israeliana.

Qualche tempo prima della ripresa delle ostilità nell'area, VICE News aveva pubblicato questo articolo. Ve lo riproponiamo ora, mentre Peres lancia l'ultimatum ad Hamas e i raid su Gaza non si fermano.

Rani Burnat trascorre tutti i venerdì pomeriggio immerso nel fumo dei lacrimogeni. Da nove anni nel suo paesino, Bil’in—un piccolo centro palestinese nella Cisgiordania occupata—vengono organizzate manifestazioni settimanali contro l’occupazione israeliana; Burnat fotografa gli scontri dalla sua malconcia sedia a rotelle.

Pubblicità

Le proteste del venerdì in Cisgiordania non sono un’esclusiva di Bil’in. Nabi Saleh manifesta contro l'occupazione della sua unica sorgente d’acqua da parte di coloni israeliani stanziati nelle vicinanze. Gli abitanti di Kufr Kaddum si battono contro il blocco israeliano della principale via d'accesso alla città di Nablus. Anche i residenti di Al- Walaja e Ni’lin, come quelli di Bil’in, manifestano contro il muro di separazione che attraversa i loro terreni.

I media non ne parlano spesso, ma c’è chi, come Burnat, ha deciso di dare voce alla sua comunità come citizen journalist. Senza alcuna formazione professionale, documenta le battaglie dei suoi concittadini, filmando e fotografando gli scontri e pubblicando online il materiale raccolto.

“La mia speranza è che quando saremo liberi potremo buttare via le macchine fotografiche,” racconta Burnat a VICE News. “Ma qualcosa mi dice che l’occupazione non finirà. Allora dovrò continuare a lottare attraverso le mie fotografie.”

Prima di iniziare a fare il fotografo, Burnat ha partecipato al movimento di resistenza palestinese. Il primo giorno della Seconda Intifada, nel 2000, era a Ramallah ed è stato colpito al collo da un cecchino israeliano.

“Mi hanno definito un martire,” dice Burnat. “I media palestinesi hanno detto che ero rimasto ucciso, perché le ferite erano così gravi che davano per scontato che sarei morto. Il giorno dopo ero ancora vivo. Mi hanno trasferito in Giordania. Ci sono rimasto sei mesi, per tre dei quali in coma.”

Pubblicità

Burnat durante una protesta a Bil'in. Foto di Sheren Khalel

Da allora, Burnat è paralizzato dal torace in giù ed è costretto su una sedia a rotelle. Ha difficoltà a parlare e può muovere soltanto una mano. Voleva continuare a partecipare alla resistenza, ma doveva cercare un altro modo per farlo.

Lo ha trovato grazie alle manifestazioni del venerdì a Bil’in. “Per costruire il muro di separazione, l'esercito israeliano ha confiscato terreni e proprietà,” racconta. “È stato allora che ho deciso di diventare un fotografo.”

Grazie al suo lavoro, il paese è riuscito ad ottenere una piccola vittoria: dopo sei anni di proteste ogni venerdì, il percorso del muro è stato modificato. Bil’in ha così riottenuto la metà del territorio che era stata confiscata. Le manifestazioni proseguono nella speranza di avere indietro anche il resto.

Burnat dice di essere stato colpito da proiettili di gomma e da bombole di gas lacrimogeno più di dieci volte da quando è in sedia a rotelle. Dal torace in giù non ha più la sensibilità, e ogni volta deve controllare di non essere stato colpito senza accorgersene.

Secondo Human Rights Watch (HRW), nonostante si identifichino come “stampa”, i giornalisti palestinesi sono spesso bersaglio dei soldati israeliani.

“Non c’è dubbio che i giornalisti palestinesi siano più a rischio di arresto o vessazioni rispetto ai giornalisti internazionali,” dice Bill Van Esveld, ricercatore per HRW. “E hanno maggior probabilità di essere sottoposti alla legge marziale, non a quella civile.”

Pubblicità

Bilal Tamimi, un giornalista di Nabi Saleh, ha vissuto tutto questo sulla sua pelle. Come i colleghi del resto della Cisgiordania, non lavora per nessuna testata ufficiale: questo significa che quando viene arrestato per aver ripreso i soldati non ha diritto a un avvocato. Lui e la sua famiglia devono inoltre farsi carico della cauzione e delle spese mediche da pagare agli ospedali in cui è spesso ricoverato a causa del suo lavoro.

Tamimi racconta di essere stato arrestato quattro volte e picchiato in diverse occasioni. La sua famiglia ha vissuto così tanti bombardamenti nel cuore della notte che i suoi figli vanno a dormire con le scarpe addosso.

“Mi hanno lanciato contro candelotti di gas. A volte mi hanno spintonato e picchiato per costringermi ad allontanarmi. Ma penso che quello che sto facendo sia molto importante. Devo essere in prima linea per documentare tutto.”

Al-Qaddoumi a Kufr Qaddoum. Foto di Sheren Khalel

Se Bil’in ha ottenuto dei risultati, le battaglie di Nabi Saleh hanno ottenuto attenzione. Sono state al centro di un reportage del New York Times Magazine e del documentario Thank God It’s Friday, e il paese ha ospitato importanti personalità politiche da tutto il mondo.

Molti attribuiscono il merito di questa notorietà a Tamimi e al piccolo gruppo di volontari con i quali ha fondato Tamimi Press

Prima se cercavi Nabi Saleh su Google trovavi solo qualcosa sul profeta Saleh (in arabo Nabi significa profeta),” ci dice Tamimi “Ora ci sono milioni di risultati: filmati, reportage, fotografie, articoli… di tutto.”

Pubblicità

Tamimi press gestisce e aggiorna costantemente il suo sito web, la sua pagina Facebook, il suo account Twitter e il suo canale YouTube. Inoltre invia notizie ai giornali locali e alle organizzazioni umanitarie.

Tamimi Press è incredibile—hanno un intero servizio autogestito, creato da loro, da cui prendere informazioni,” dice Van Esveld. “Hanno notizie in tempo reale su quello che sta succedendo, ed è molto importante. Hanno accesso ai testimonianze e informazioni non filtrate e seguono gli eventi direttamente sul campo.

Nel 2011, il paesino di Kufr Qaddoum, che sorge tra le colline settentrionali della Cisgiordania ed è  circondato da insediamenti israeliani illegali, è stato isolato da Nablus—dove lavoravano molti dei suoi residenti—perché l’esercito israeliano aveva bloccato la principale via d'accesso alla città. I media hanno scelto di non riportare la notizia delle proteste degli abitanti del villaggio. Così uno di loro, Kamaal Al- Qaddoumi, si è assunto l'onere di diventare il fotografo non ufficiale.

Il venerdì di Burnat. Foto di Sheren Khalel

“Ho iniziato nello stesso anno in cui sono iniziate le proteste,” racconta. “Non c’erano giornalisti e nessuno si occupava di quello che stava succedendo a Kufr Qaddoum. Ho cominciato a fare foto e a pubblicarle su Internet: le persone dovevano sapere.”

Come Burnat e Tamimi, Qaddoumi crede che il suo ruolo sia mostrare al mondo cosa succede in questa piccola zona della Cisgiordania. Ma questi uomini sono più che semplici reporter: le loro riprese vengono infatti usate in tribunale per far rilasciare i manifestanti palestinesi ingiustamente arrestati. In più, la presenza di macchine fotografiche durante gli scontri può proteggere i loro compagni dal fuoco dell’esercito.

Pubblicità

Questo è uno dei motivi per cui l’associazione umanitaria israeliana B’tselem ha lanciato il suo Camera Project:lo scopo è fornire gratuitamente macchine fotografiche e consigli ai citizen journalist in erba dei Territori Occupati. Tamimi, uno dei primi beneficiari del progetto, è convinto che la presenza di macchine fotografiche a Nabi Saleh porti i soldati israeliani a riflettere prima di decidere di usare la forza contro i manifestanti.

“Se sanno che non ci saranno conseguenze, che nessuno saprà quello che stanno facendo perché non ci sono testimonianze, ci vanno giù molto più pesante. E manifestare diventa molto più difficile.”

La Coalizione per la Protezione dei Giornalisti ha dichiarato a VICE News di considerare Burnat, Tamimi Qaddoumi e quelli come loro dei giornalisti a tutti gli effetti. I tre sono invece divisi tra il loro ruolo nel mondo dell’informazione quello di attivisti. Tamimi indossa orgogliosamente una maglietta che, invece della scritta Press, reca scritto Noi ci rifiutiamo di stare in silenzio. 

“Tutti hanno un ruolo nella resistenza” dice Qaddoumi. “Alcuni lanciano pietre. Altri fanno video, o foto, o si occupano di curare i feriti. Lo facciamo per la Palestina. Per me scattare fotografie è come lanciare pietre.”

Segui Sheren Khalel e Matthew Vickery su Twitter.