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relazioni

Perché torniamo dai nostri ex, e perché non dovremmo farlo

Nel 99 percento dei casi chi torna indietro non è spinto dall'amore, ma da solitudine ed egoismo.
Illustrazione di Eleanor Doughty.

Qualche tempo fa mi sono trovata a discutere con un ex fidanzato che mi accusava di non voler tornare sui miei passi solo per testardaggine, per una sorta di "etica della dignità". Ma la verità è che io non ho nulla contro lo strisciare, piangere, pregare una persona di perdonarmi e riprendermi con sé rinnegando qualunque orgoglio. Quando smetto di essere patetica è spesso solo perché interviene la rabbia per essere rifiutata o perché mi distraggo.

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Per quanto non sia scientifico, infatti, è credibile che una persona sia ancora innamorata quando è passato abbastanza tempo per disannebbiarsi da possibili torti ma abbastanza poco per ricordarsi di chi realmente pensa di essere innamorata. Quello che succede oltre il tempo di saldatura di un osso rotto, però, è solo senso di vuoto e autocommiserazione. O, come diceva nonna, che aveva una solida mentalità Borgia, l'occasione per dimostrare che "tutti gli uomini prima o poi ritornano," lasciando intendere che fosse quello il momento giusto per tendere un filo di nylon davanti alla porta.

Questa occasione mi si è ripresentata una settimana fa, quando il ragazzo che citavo poc'anzi, con cui uscivo nel 2013, mi ha messo all'angolo in un luogo pubblico per dirmi che dovevamo assolutamente vederci. Le persone tornano e dicono che ti hanno sempre amato, oppure si sono accorte che senza di te non possono stare. Io gli ho detto di no, e se l'ho fatto non è per rancore: semplicemente, dopo anni di tira e molla accetto non solo di non avere sentimenti per lui, ma anche che lui non ne abbia per me—nonostante quello che afferma. E nonostante il fatto che, per puro crogiolarmici e fare ingelosire altri io ami lamentarmi della sua insistenza, in realtà so benissimo cosa sta facendo. Perché è quello che ho fatto io in altre occasioni.

Ed è in virtù di questo mio vecchio passatempo che sono arrivata a questa conclusione: quando torniamo indietro, nel 99 percento dei casi non siamo spinti da un moto odissiaco. Il nostro problema è la FOMO di esperienze scatenata dal panico della troppa libertà: una forma-racconto in cui tutto deve essere breve e concluso. E anche il ritorno al passato non è che una nuova peregrinazione.

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Lasciamo una persona perché vogliamo stare da soli, o con qualcun altro, o vogliamo solo approfittare della possibilità di esercitare la nostra libertà. Ogni tanto però tutta questa libertà ci viene a noia e torniamo a struggerci al pensiero della vecchia sensazione di benessere—benessere non tanto della nostra relazione finita ma della memoria che ne abbiamo: una specie di ritorno in un utero in cui abbiamo polarizzato tutti i pregi che non ha mai avuto solo per contrasto con il presente.

E se dell'assenza di quella persona possiamo anche colpevolizzarci, rendendo la crociata per la sua riconquista una forma di riscatto davanti a noi stessi, la possibilità del ritorno diventa ancora più concreta. "È stata tutta colpa mia" non è un'ammissione di colpa, ma il supremo dictat egotico: come io ho fatto questa relazione ho il potere di disfarla e tu non hai possibilità di opporre o proporre alcuna soluzione, perché il problema dipende esclusivamente da me.

Nella mia esperienza le persone che tornano indietro più spesso—in un giorno o un anno—sono una variante di questa categoria appena citata, quelle che ti lasciano dicendo "non è colpa tua, sono io che sono sbagliato". Quando tornano, tornano perché "non avevano capito niente" sul breve termine, e sul lungo termine "sono cambiate".

Ma proprio in virtù delle facciate passate, penso che sia giunto il momento di dircelo: a una persona che ci proclama di essere cambiata non frega niente di noi. Gli interessa del nostro interesse. Basta fare l'analisi logica della frase per accorgersi che chi sta dall'altra parte non è in alcun modo preso in considerazione.

Del resto, sono la prima a farlo: quando scrivo un messaggio a una persona con cui ho condiviso un'intimità è solo perché voglio a) accertarmi di avere ancora un potere b) esercitare quel potere c) non sentirmi sola. Spesso sono arrabbiata o frustrata per qualcosa che riguarda la mia vita reale, quella che coinvolge persone vere che mi piacciono ora. Mi sento insicura e ho bisogno di vivere per un po' ancora nel momento in cui ero sicura di me stessa perché ero sicura di avere un'influenza su qualcuno.

Non dico che un affetto o la possibilità di finire di nuovo insieme non ci siano, quello che dico è che è un episodio in sé concluso: è parte di una confusione, non di una soluzione né di un proponimento per il futuro. Mentre da una persona che torna, magari dopo averci fatto soffrire, dovremmo poterci aspettare perlomeno una disposizione a far funzionare le cose. La verità è che nel rapporto con il presente il passato ci perde sempre: perché la novità è un istinto troppo potente, e perché su quello che ci ha fatto male abbiamo la memoria troppo lunga.

(Comunque i ritorni sono dettati da molte esigenze, e alcuni sono peggiori di altri: come quella volta che il peggiore tra gli esempi che posso portare si è presentato fuori dal mio condominio dicendo che "non voglio ritrovarmi a 40 anni con la confezione singola di ravioli in frigo." Ma questo più che un ritorno è un accompagnamento alla morte, e se non uscite con persone troppo vicine al decadimento della fertilità non dovrebbe succedervi.)

In sintesi, il passato dovrebbe rimanere tale, anzitutto perché non esiste più. Non si può non spaccare un naso che si è spaccato durante una rissa: se anche il naso si riaggiusta, ci siamo rovinati la fedina penale. Con le persone è uguale, solo che non esiste la fedina di quanto stronzi siamo stati nella vita a ricordarcelo. Però c'è una canzone di Cher che lo dice molto bene, dice If I could turn back time. Terzo periodo ipotetico: irrealtà.