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Cibo

Demented mangia da solo

Un tour culinario e solitario tra alcune delle peggiori bettole di Roma, in contesti in cui nella maggior parte dei casi l’hardcore regna sovrano.

Illustrazione di Simone Tso

Carissimi lettori di questa rubrica, dopo tanto parlare da solo mi è venuta fame (nonché ovviamente una gran sete). Quindi stavolta più che parlare da soli, mangeremo da soli: come una giusta pausa autobiografica fra un soliloquio e un altro. Sovente ho questo vizietto di andarmene in giro per trattorie, bettole, vinerie e in generale posti frequentati da meno gente possibile quanto dal mondo intero.

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Vado là, mi siedo, mi prendo il mio bel mezzo litro di “latte dei vecchi” e ordino qualcosa da mangiare, tutto solo. Lo so, la reazione normalissima alla vista di persone che mangiano da sole è quella di inquietudine: ci si vede proiettati al posto di quell’individuo che a occhio e croce, non si sa perché, dovrebbe essere o reietto, rinnegato abbandonato o semplicemente incapace di relazionarsi a chiunque non sia il cameriere. La realtà però ha diverse sfaccettature, come uno zircone: a volte chi mangia da solo è davvero come pensate, con un cv di porte chiuse in faccia e tutto il corredo di sfighe; ma mangiare da solo lo aiuta a essere sereno. Sembra quasi che anzi il tu per tu con il piatto sia un segno di redenzione, e non tutti riescono a trovare pace semplicemente con un piatto di gricia davanti agli occhi. A volte invece mangiano da soli perché staccano la spina, rifocillano le idee e spesso si pensano storie sulla gente intorno, il più delle volte veri e propri viaggi mentali.

Gli epici spaghetti al pangrattato, di cui disquisiremo più avanti (via

Insomma, a tavola da soli è il momento in cui si analizza la realtà. Chi mangia da solo mangia anche con gli occhi.

Detto questo: quando mangio da solo scelgo dei posti a caso. A parte quei due o tre in cui so di avere massima tranquillità, di solito è una scoperta. Innanzitutto, perché a seconda dell’esito vi tornerò con altri, e in secondo luogo, perché da soli appunto si può fare l’errore di incappare in una fregatura senza che nessuno ve lo rinfacci a vita. La cucina che prediligo è essenzialmente bangla/indiana, cinese e chiaramente romana, in contesti in cui nella maggior parte dei casi l’hardcore regna sovrano. Ci sono meravigliose trattorie nascoste di cibo indiano, dai vetri addirittura oscurati a conduzione familiare e tavoli apparecchiati spartanamente. Italiani zero, solo gente abbronzata, piatti di riso e carne e abbondante peperoncino: aboliti gli alcolici, ma niente paura, il bar è a due passi. I cinesi invece sono ultracriptici, in pratica potrebbero tranquillamente tenerti nascosto un traffico illegale di armi per quanto riescono a celare i loro piatti non per turisti/italiani. Solo dopo pressante richiesta riescono a tirarti fuori delle cose incredibili, agli antipodi del risotto alla cantonese, pietanze assenti da qualsiasi menù ragionato. Giusto per farvi capire meglio, vi posto una serie di recensioni solipsistiche di un paio di esperienze di ricerca “sul campo”. Già, perché mangiare da soli è anche antropologia, studio dell’evoluzione umana, esperimento scientifico prima di tutto su se stessi.

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La vetrina per soli iniziati del ristorante bangla dove ho collezionato il record di presenze a mangiare da solo (via)

Entriamo (uso il plurale maiestatis per dare un tono alla recensione) in questo ristorantino cinese il cui nome è una sfilza di ideogrammi, quindi non saprei dirvi come si chiama realmente. Frequentato per lo più da cinesi doc e la domenica da famiglie di colore, peruviani e seconde generazioni di immigrati, è già per questo una garanzia. Un piatto interessantissimo della vasta gamma di curiose creazioni che i cinesi ci propongono nell’universo, appare come affaretti gialli gommosi ricoperti di salsa rossa. Incuriositi chiediamo alla simpaticissima cinesina in cassa di cosa si tratti, e lei sorridendo felice esclama "Piedi di pollo!" Ora pensando a qualche incrocio fra l’uomo e gli ovipari, non possiamo esimerci dall’assaggiarli. Bene: i piedi di pollo sono cose che ricordano tipo le lumache infilate in un budello di maiale. Il sapore è in effetti buonissimo, nonché mi ricorda un po’ l’infanzia: mia nonna usava lessare le zampe di gallina. Seguitiamo il pasto con i filetti di medusa. Essi ci appaiono come affaretti bianchi tipo pezzettini di insalata,che devono necessariamente venire conditi da salsa di soia perché di per sé non particolarmente saporiti. Inducono un incredibile realismo socialista, e sono frizzanti: diciamo che è come mangiare della Coca Cola di mare.

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I simpatici  cinesi nostri amici hanno poi inventato il principe dei minestroni, del quale ignoro il nome ma per comodità indicherò come gigaminestrone. Osservo molte strane pietanze in una teca e ne richiedo due o tre, poi il gestore mi spiega che si tratta di roba da buttare in un pentolone e da cuocere seduta stante su un apposito fornello infilato nel tavolo sul quale mangerò. Va bene, proviamo sta cosa. Butto tutti gli affari che ho scelto nella pentola. Nell’ordine: gamberetti, pasta di pesce rosa, calamaretti, tofu impanato e altre cosette tutte rigorosamente crude. Esse si cuociono e il minestrone acquista vigore, me ne verso una prima tazzina e ne scopro gli aromi, cioè cipollina selvatica, carne animale, radici a caso, varie ed eventuali. I calamari si cuociono e hanno l’aspetto di cartone inzuppato tagliato con le forbici, il tofu si gonfia come una mongolfiera. Alla prima tazzina dico: ammazza da paura. Alla quarta tazzina sudo freddo. Alla settima mi sento leggermente provato e devo smettere. Il prezzo è di 20 euro, e il gestore mi spiega solo dopo che è un piatto per almeno quattro o cinque persone, per cui mi offre una grappa in segno di amicizia e distensione. Torno a casa felice come il Marshmallow Man dei Ghostbusters.

L'hot pot, ovvero il giga minestrone made in China (foto scattata in loco, via)

Può accadere di tutto, come vedete.

Rispetto invece alla situazione romana—ebbene sì, io abito a Roma, se ancora non si fosse capito—la scelta cade sempre su trattorie a menù fisso, che sono un rischio abominevole come anche fonte di immenso gaudio. Capita a volte infatti di trovare la pasta al pangrattato di cui io vado pazzo, piatto ultrapovero oramai sparito da ogni menù popolare, e spesso e volentieri si trovano invenzioni là per là, come non meglio identificate “polpette passaparola” di baffiana memoria [il Baffo è una storica trattoria sulla Prenestina] che non si sa di cosa siano composte. Ma a volte la qualità del mangiare da soli non è tanto prettamente legata al palato, quanto al contesto: alla varietà umana, all’accozzaglia di stimoli uditivi/sensoriali, al “colore” che però attenzione non confondiamo con le solite cazzate felliniane, cioè solo allegria battute e pernacchie. Qui c’è gente che gli rode anche il culo. E direi pure che si capisce il perché, tutti posti straeconomici in cui ci trovi gente che va da sola e ti guarda come se davvero non ci fosse nel locale nessuno a parte loro.

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Esempio di polpette passaparola (via)

Naturalmente sono un affezionato divoratore di kebab e affini, soprattutto di chi in zona lo fa con le sue mani e non vende quelle merdate di doner. Sono pronto ad affrontare una scagaccia irreale causa spezie per il piacere di sedermi in mezzo a personaggi che sembrano usciti da un film di Spike Lee, con il piglio dei protagonisti dei racconti di Hemingway. Trovi addirittura chi ti serve con la faccia sfregiata dall’acido, appena ricostruita. Il servizio è spesso ai livelli della Slovenia primi anni Duemila, cioè facce da “due palle non se ne può più, morite tutti”, ma se provieni da 16 ore di lavoro te lo vedono negli occhi e ti trattano come un principe.

Raramente invece mi butto nei vari Mc Donald’s, Burger King ecc che ultimamente stanno trovando una nuova giovinezza a causa del “ripulirsi” d’immagine e contenuti (accontentano anche i vegetariani, cristo). Ogni tanto mi concedo un Chicken Hut di sfuggita, ma solo quando decido per la morte cerebrale, essendo un concentrato di droghe di origine sconosciuta. Ogni cibo ha il suo momento, è come un pennello che scivola sulla tela dello stomaco e dipinge un paesaggio adeguato, non c’è etica che tenga. Il fast food erroneamente potrebbe essere visto come il cibo migliore per chi mangia da solo, e invece è troppo veloce. Mangiare da soli implica che il tempo va perso, e pure tanto.

Il famigerato polletto fritto di Chicken Hut (via)

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Mi siedo e mangio da solo, mi guardo intorno e mi scolo il mio vino. A volte mi lancio in chiacchierate spontanee coi padroni, i camerieri e qualche personaggio che ti si accolla. Normalmente scrivo, mi faccio prendere dalla situazione che vedo e magari ne nasce una qualsiasi stronzata, dalla musica ai disegni. Infatti il momento in cui disegno di più è in questi casi, uso i tovaglioli e la tovaglia di carta: immagino sia un’abitudine di tutti i fumettisti farsi una bella mangiata da soli e dopo il primo litrozzo partire come treni, pennarello alla mano. Vi potrà fermare solo il proprietario, dopo che gli avete ridotto il tavolo a mo’ di graffito.

E poi, il più delle volte, mangiando da solo mi faccio coraggio. Uno deve anche essere in grado di cullarsi, di darsi il biberon: altrimenti troverai sicuramente la baby sitter drogata che ti infila nel forno e ti mangia da sola, lei. Un modo per farlo è abbandonarsi al preliminare rituale della merenda ad hoc (l’aperitivo lasciamolo a ben altri ambiti). Io lo suddivido in stagioni: d’estate, il Cucciolone e gelati al biscotto di varia fattezza; d’inverno salsiccette o coppiette da passeggio. Non so, mi mettono in pace l’anima e difficilmente riesco a condividere quei momenti con qualcuno che non sia io me medesimo.

La merenda estiva per eccellenza, il Cucciolone, campionario di barzellette avant/noise irresistibili (via)

Se non c’è anima viva, mi godo il silenzio in tutte le sue possibilità. Ma di solito vola sempre qualche mosca; è difficile rimanere davvero soli tutto sommato. Che è poi è il bello del mangiare da soli: dimostra che puoi stare tranquillo. Se hai paura dell’abbandono mai succederà se sai abbandonarti in questi momenti. Lo diceva anche Luca Carboni, “soli non siam mai/soli veramente”, anche se poi non so se mangiasse da solo.

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Luca Carboni: appassionato di fragole buone buone che forse mangiava da solo (via)

E invece quando mangio da solo a casa mia? Eh. In quel caso è stato alterato di coscienza: non c’è un piatto coerente e giro per casa a parlare da solo. È eternamente discontinuo, multitasking, cucino con la testa altrove, difficile fermarsi. L’opposto che mangiare da soli per strada. Ma ovviamente è perché il tempo diventa qualcosa che va cucinato anch’esso: è una pietanza che va gustata appieno. Giusto la sera mi viene voglia di fissare una parete vuota e di non pensare assolutamente a pensare. E a farmi delle ricette prese online di cui sono mero esecutore e fiero auto-assaggiatore. Anche perché dopo mi aspetta il gabinetto, dove stare da soli è una pacchia degna di Geova. Ma questa è un’altra storia.

Demented Burrocacao è una nostra conoscenza di lunga data, e per VICE si occupa di recensioni, reinterpretazioni e altra musica. Una volta si è anche fatto intervistare. Come avrete capito, questa è la sua nuova rubrica. 

Settimana scorsa: Elio extravergine di oliva