Sono stata al Rainbow Gathering in Friuli senza essere una fricchettona
Illustrazione di Loris Dogana.

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Sono stata al Rainbow Gathering in Friuli senza essere una fricchettona

Quest'estate il raduno hippie era in Friuli, e dopo anni che ne sentivo parlare ho deciso di partire.

"Sto andando al Rainbow!"
"Ah, vai a scopà?" Questo l'ultimo scambio con la mia delicatissima amica romana, prima di spegnere il cellulare e lasciarlo sul fondo dello zaino. La prima volta che mi sono separata dal cellulare per più di 24 ore, tre anni prima, è stato per il Cammino di Santiago e con un cuore spezzato da guarire. Ai Rainbow Gathering puoi portare il cuore spezzato, ma non il cellulare. Anzi, nessuna tecnologia. E niente droghe. Niente alcol. Niente carne. Niente violenza e niente cani.

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Quest'estate il raduno hippie—attenzione gente, non è un festival: è un raduno, e questo fa tutta la differenza perché si va per stare insieme ecc ecc—era in Friuli, e dopo anni che ne sentivo parlare ho deciso di partire. Per sapere dove si trova il luogo prescelto devi mandare una mail, e il risponditore automatico ti invia un tenero messaggio in tonalità pastello-fricchettone che spiega come arrivare nella valle partendo da Tramonti di Sopra, un paesino di 200 abitanti in Val Tramontina.

1. Partire

Per entrare nello spirito Rainbow, il giorno della partenza perdo l'ultimo autobus che da Pordenone va fino a Tramonti di Sopra. Me lo vedo passare davanti agli occhi insieme a un ragazzone appena arrivato da Tel Aviv, Yardem (i raduni Rainbow vanno forte in Israele, perché a servizio militare ultimato molti ragazzi scappano in India o viaggiano con gli hippie per sciacquarsi un po' il karma), e decidiamo entrambi di prendere la corriera per Spilimbergo, a 40 km dalla destinazione finale.

Al telefono, approfitto delle ultime ore di cellulare per sentire gente che non sentivo da mesi e con cui non avevo niente da dirmi. Yardem—che prima di salire a bordo guardo pisciare contro il muro della fermata, pensando sia inutile spiegargli che a Pordenone questo comportamento non è ben visto—comincia a farmi notare che sono troppo pessimista. Ma una volta a Spilimbergo, fermi, sudati, infastiditi, a pochi chilometri dalla casa natia di Pasolini e con due zaini enormi, scopriamo che la corriera successiva passa tra tre giorni. Così ci prepariamo a uno dei sacramenti del Rainbow: l'autostop. Ci mettiamo a bordo strada a osservare le macchine. Come dice Yardem, "They look very rich, very bored and they don't stop for us," che con un'invidiabile pennellata sintetica dipinge il nord-est italiano.

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Finché, a un certo punto, un'eccezione: è una signora sulla quarantina, vestita da tennis, che appena ci vede fa una lunga frenata e ci guarda come a dire "Ah, eccoli dov'erano." Poi scende dalla macchina e senza dire una parola carica gli zaini nel bagagliaio per depositarci direttamente all'inizio del cammino di quattro ore che conduce alla remota valle della grande famiglia Rainbow.

2. Arrivare Quando arriviamo al campo "base", quello dove vengono lasciate le macchine, si comincia a percepire quella familiare aria di bidonville al patchouli che in me evoca ricordi adolescenziali di occupazioni, festival ed esperienze non immediatamente disponibili alla memoria lucida. Un altro dei sacramenti dei Rainbow è ritrovare la gente che avevi conosciuto alle edizioni precedenti. Incontri qualcuno al Rainbow italiano, a quello europeo (che di anno in anno cambia location), ai rainbow in Galles, in Spagna, in Repubblica Ceca, ovunque nel mondo. E Yardem incontra una coppia tedesca: il loro incontro è incredibile, si abbracciano, si tirano forti pacche sulle spalle e ridono. E questa cosa mi diverte, anche perché scoprirò in seguito che hanno trascorso insieme soltanto un pomeriggio in tutta la loro vita.

Alla bidonville, tra un furgone appostato in zona tattica che vende chai fatto con cannella e gas di scarico, ci attrezziamo per montare la tenda. L'israeliano—che comincia a somigliare sempre di più alla schiera di ragazzi che mi hanno spezzato il cuore in passato—mi chiede se si può accoccolare con me. Io mi irrigidisco di eccitazione, lui specifica che si tratta solo di dormire, io mi irrigidisco di delusione e continuiamo a montare la tenda. Mentre fisso i picchetti male e Yardem mi segue per fissarli bene, comincio a osservare gli altri bivacchi, i piccoli falò, i teli tirati da una ramo all'altro, le gamelle sporche di terra, i tappetini sudici di fronte all'ingresso delle tende e in quel momento mi ricordo che non sono una hippie e mi chiedo come farò a sopravvivere. È solo questione di minuti prima che comincino a comparire all'orizzonte i bonghi. Andiamo a dormire.

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Alle cinque del mattino mi sveglio e mi rendo conto che la sacca della mia tenda è sparita. Forse sono quei cazzo di cani che la gente porta comunque. Sì, perché nonostante il divieto la gente porta cani, droghe e tecnologia—alcol no, forse davvero quel divieto funziona. L'israeliano fa una piccola orazione funebre per la sacca della mia tenda, dicendo che resterà sempre nel mio cuore, e poco dopo, per volontà della coppia di tedeschi, si parte. La salita è subito ripida e io ho le Superga, quel tipo di scarpa borghese che allude a uno stile di vita attivo senza poi metterlo in pratica.

È il segno che è l'ora di integrarsi, di mettersi in divisa. E mettersi in divisa al Rainbow significa spogliarsi. Quindi inizio dai piedi nudi, ma quando vedo passare una coppia di svedesi nudi con lo zaino allacciato in vita mi sento davvero una povera principiante. Il secondo pisello all'aria lo vedo al secondo welcome point—accampamenti dove puoi riposarti e mangiare e bere un chai pieno di capelli biondi mentre ascolti due hare krishna che cantano. Non appena il proprietario del pisello vede una macchina fotografica puntata verso di lui strilla "No photo!" La regola è infatti niente fotografie (e anche sulla pagina Facebook di questo raduno, che servirebbe a organizzarsi per i passaggi e altro, appena spunta una fotografia della valle tutti protestano e s'indignano).

Decidiamo di fare un piccolo bagno nel laghetto naturale appena sotto il bivacco centrale, così mi spoglio, orgogliosa di tutte le cerette saltate negli ultimi mesi. L'acqua è gelida, dopo il primo contatto il freddo penetra sotto la pelle e la sensazione è quella degli spilli di cui parlava Jack in Titanic. Arrivo fino a sotto la cascata che si tuffa nel torrente e per puro spirito di spacconeria lancio la testa sotto il getto: l'acqua mi schiaffeggia tenera, come per darmi il benvenuto al Rainbow. Ecco. Sto cominciando a parlare come loro.

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3. Welcome sister

Proseguiamo a piccoli tratti quasi verticali con pause che ci trovano sempre più stremati, isterici e incapaci di riprendere l'ennesima salita. Vediamo andare a venire nelle due direzioni esemplari sempre più unicorniaci di fricchettoni: c'è l'uomo anziano con due enormi pastori belga candidi come la neve. Ci sono le famiglie che sembrano uscite dal binario 9 3/4, pieni di teli, pelli, capelli strascinati, flauti magici, acchiappasogni e bambini appesi a tracolla come borracce (mi comincio a domandare come saranno da adulti, vorrei sapere cosa faranno da grandi in questo mondo). C'è una ragazza francese con il corpo completamente tatuato e un trolley pesante che trascina imperterrita sullo stretto sentiero affacciato sul crepaccio. Lo fa anche con un certo fastidio, come se si fosse improvvisamente ritrovata con un trolley in mezzo alle montagne, catapultata lì a causa di un qualche bizzarro disastro aereo. Quando vedo un anziano vestito solo con una t-shirt gialla logora che porta al guinzaglio un micio di pochi mesi entro in uno stato di accettazione del prossimo che penso di non aver avuto dai tempi delle scuole materne.

Man mano che ci avviciniamo alla valle io scasso il cazzo a chiunque passi chiedendo quanto manca. Quanto manca? Quanto manca? La risposta è sempre la stessa, "You're almost there, sister." Chiamare qualcuno brother o sister è più o meno come imparare la Macarena: all'inizio ti senti ridicolo, poi ci prendi gusto. Al Rainbow infatti si entra in un territorio linguistico dove si parla perlopiù inglese—una lingua che splende per praticità, che si usa immediatamente, ma che qui è sottesa a una visione utopistica. Quindi invece del coordinatore delle attività (preparare il cibo, allestire il fuoco, tagliare la legna, andare a prendere il cibo) si dirà focalizer—che io intendo come uno non troppo strafatto di canne e in grado di mettere insieme un paio di pensieri lucidi. E se hai bisogno di qualcosa, per esempio un accendino, che qua sembra essere una necessità primaria, puoi urlare lighter connection! dove connection indica il tuo bisogno di un dato oggetto.

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4. Main Fire Il linguaggio è quello, brother, sister, family, e comincia tutto con quel dolcissimo senso di resa e appartenenza, di accettazione e bene incondizionato. La famiglia è una, formata da tutti quelli che si presentano al Rainbow. E come tutte le famiglie la rottura è dietro l'angolo: butto un pezzetto di carta nel fuoco centrale e mi vengono a sgridare perché nel fuoco sacro ci va solo la legna. Chiedo dell'acqua, bevo dalla bottiglia e il tipo mi dice che "qua non si tocca con le labbra il collo di nulla" (tranne se siamo al laboratorio di tantra, in quel caso lecca pure). Il fuoco centrale, il Main Fire, è una circonferenza di sette/otto metri di diametro tracciata con le pietre in cui il fuoco viene tenuto sempre acceso. Dentro il fuoco sacro, ça va sans dire, è proibito entrare con le scarpe, quindi è un continuo "brother shoes out of the main fire"—almeno finché non arrivano dei fratelli americani che rimangono perplessi perché in America, dove è nato il Rainbow, questa regola non ce l'hanno. La chiamano "una di quelle assurde regole europee."

Intorno al Main Fire ci si ritrova quando dalla cucina arriva il misericordioso urlo "food circle now!" che viene ripetuto a tappeto per tutta la valle: la regola è che chi sente un grido lo ripete finché tutti (forse) hanno sentito. A quel punto chi è lì, nei paraggi, tipo me che ho il mio piattino sempre dietro e sto aspettando il grido già da un'ora, prende per mano chiunque gli capiti a tiro e comincia a proporre canti. Il punto è che prima si procede ai canti, prima si mangia. E il cerchio, il fatto che spesso partano "catene" di baci (qualcuno ti bacia la mano destra e tu baci la mano destra del tuo compagno, e via dicendo), il fatto che sia così grande e così facilmente scomponibile e ricomponibile (tutti sono pronti a lasciare la tua mano o prenderla) producono quella precisa sensazione di sollievo (oh! esiste una tribù, siamo tutti insieme) e resistenza (basta con questa stronzata, voglio mangiare), quel doppio scarto che nella mia vita di liste di cose da fare, individualismo e città non esiste.

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5. Morte e vita Il giorno stesso del mio arrivo sulla cima scoppia un temporale furioso. Lingue di vento che sembrano per un momento materializzare una qualche divinità, strattonano alberi alti decine di metri, li piegano e danno l'impressione che sul dorso della montagna ci sia la mano di una persona che tira un ceffone. Io sono sotto al tendone della cucina, dove vado regolarmente a provare a rubare il cibo ai fratelli, perché altri fratelli mi hanno avvertito che il cibo scarseggia già. Poi scoppia la grandine, seguita da violentissime raffiche.

Accanto a me c'è una princess francese (le princess sono ragazze di antico lignaggio Rainbow che sanno tutte le canzoni a memoria, ragazze che nello zaino sembrano aver messo solo preziosi tessuti indiani e gioielli e kajal e bindi per il terzo occhio, ragazze la cui peluria ricorda piumaggio angelico), che mi guarda e mi rassicura dicendo che andrà tutto bene. Poi comincia a cantare una canzone dedicata alla pioggia e al sole e a pachamama. Dopo poco si uniscono altri e forse anche io, che nel panico di solito tiro fuori una disarmante vena mistica. La verità è che ora dovrei dirvi che ha smesso di grandinare in quel momento, ma ho paura che non mi crediate.

Il giorno dopo si scopre che un belga, Almond, è morto. Un ramo si è spezzato ed è caduto proprio sulla tenda dove aveva trovato rifugio durante il temporale, uccidendolo davanti agli occhi della compagna. Così scopriamo che a un Rainbow si può morire. Che la natura se ne frega dei nostri cuori buoni, puliti e attenti, che non ci risparmia solo perché non usiamo sapone, non lasciamo rifiuti e ci inchiniamo alla terra prima di mangiare. Dopo poche ore inizia a girare la voce che quello stesso giorno sia nato un bambino. Poi i bambini diventano due, poi tre, poi di nuovo due: due donne, al nono mese, avrebbero camminato in salita per sei ore e poi partorito al chiaro di luna. Nessuno di noi ha effettivamente mai visto i neonati.

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Il giorno dopo, durante i cerchi del pranzo, passa un ragazzo che raccomanda tutti di spostare le tende da sotto gli alberi. Io corro alla mia tenda, guardo tutti gli alberi che la circondano, ne studio lo spessore, calcolo in lunghezza la traiettoria di una possibile caduta. Sposto la tenda in mezzo alla pianura circondata solo da arbusti di trenta centimetri, ma poi conosco Anna.

6. Anna

Anna la conosco il quarto giorno. Io, che gravito intorno al cibo 24 ore su 24 per il terrore di rimanere senza, mi offro per tutti i servizi legati ai pasti: taglio chili di pesche, lavo pentoloni di due metri di diametro, sguscio tonnellate di arachidi—e quando vengo sorpresa a infilare un'arachide in bocca mi sento dire, "AH!!! It's sacred! It has to be divided with the family!"

Faccio anche la servitrice: tale è la preoccupazione di non agguantare abbastanza cibo che mi presto a servirlo a 3000 persone sedute intorno al Main Fire. Il focalizer (l'ennesimo ragazzetto con i rasta che probabilmente si chiama Oceano, a meno che non sia tedesco, in quel caso si chiama Georg) ci spiega come fare per rispettare il più possibile delle norme igieniche: ci si spalma le mani di cenere, e questo per me vuol dire ogni giorno procurarmi delle ustioni imbarazzanti mentre griglio il chapati, ci si sciacqua e ci si avvicina alle persone per prendere i contenitori che ciascuno ha portato. Ci sono contenitori di tutti i tipi: è la gara a chi è più fricchettone. C'è chi ha segato una bottiglia di plastica in sezione e la utilizza come elegante piatto lungo. C'è chi usa la classica scodella di Decathlon e chi invece presenta delle spettacolari ciotole di legno d'ulivo intagliato e benedetto da sciamani peruviani. C'è chi ruba il piatto ad altri.

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Io mi rendo conto che quello è un momento decisivo: se non chiedo a qualcuno di prendermi il cibo mentre facciamo il giro rischio di restare senza o di dovermi tuffare dentro un calderone per raschiare il fondo. Così mi lancio sulla prima ragazza che vedo—ha gli occhiali e questo mi sembra un segnale di affidabilità—e le chiedo in inglese di prendermi del cibo. Lei accetta. Scopro poi che è pisana e che come me è venuta al Rainbow con questo misto di scetticismo e adesione che ci permette di entrare subito in una necessaria complicità. Facciamo tutto, cantiamo, andiamo ai workshop di guarigione sciamanica, qi gong, raw food, andiamo ad ascoltare Feather, una delle persone che ha partecipato al primo Rainbow nel mondo, ma poi quando ci ritroviamo a chiacchierare in riva al torrente pigliamo tutti per il culo. È il nostro spirito Rainbow.

7. Shit-pit

Sempre con Anna decidiamo di spostare le tende in fondo alla valle, vicino alla cucina dei bambini e vicino a un torrente bellissimo: ovviamente passiamo prima un buon paio d'ore a studiare la piazzola più safe di tutta l'area, e alla fine l'unico posto dove saremmo al sicuro anche se gli alberi cadessero tutti insieme puntando nella nostra direzione è di fianco al famigerato shit-pit. Nel libro della genesi del Rainbow, lo shit-pit occupa un posto fondamentale: quando il primo gruppetto di fricchettoni chiese permesso per organizzare un raduno in Colorado fecero un incontro con le autorità dove raccontarono come si sarebbero organizzati con le tende, l'acqua, i fuochi… e la merda. La leggenda dice che uno di loro mimò lo scavo di uno shit-pit—una specie di profonda trincea su cui accovacciarsi—e mimò anche la posa con un piede di qui e un piede di là dalla trincea. Dopo aver defecato nello shit-pit, bisogna prendere un po' di cenere e aceto e ricoprire il proprio dono alla terra con altre foglie e cenere. È il modo in cui i Rainbow sono riusciti a sopravvivere a epidemie devastanti (ma non sempre: scoprirò qualche settimana dopo che durante il raduno un ragazzo è stato prelevato da un'aeroambulanza per una setticemia che si è poi rivelata un ceppo di tifo contratto in un viaggio in India ed estesosi a tutta l'allegra famiglia. "L'hippy aveva il tifo," dirà il Messaggero Veneto).

Nonostante l'odore e l'accumulo di batteri, lo shit-pit è un punto di osservazione privilegiato. Qualche volta durante il giorno mi fermo lì vicino, come se stessi in fila, e guardo la gente cagare: ho una strana fascinazione per questo momento privato e universale, e guardare qualcuno impegnato in quell'azione mi ricorda che siamo tutti uguali. Tutti caghiamo, tutti i giorni. Proprio tutti, infatti dopo 48 ore lo shit-pit si riempie di cacca. Anche io ogni giorno provo a liberarmi lì, dove lo fanno tutti gli altri, ma non ci riesco. Devo salire fino in cima alla montagna e aggrapparmi alla roccia come le capre, altrimenti il mio sfintere si rifiuta di collaborare.

8. Tornare

Ne ho piene le scatole. Piene le scatole della gente che canta a tutte le ore. Di mattina, in cucina, prima di pranzo, dopo pranzo, sempre le stesse canzoni. Anna ed io vogliamo rientrare. Ci sono due possibili sentieri: uno in salita, che sembra essere più rapido, e quello dell'andata, che è in discesa. So che la risposta sembra scontata, ma ci metto un po' a capire che la risposta giusta è la strada in discesa.

Quella sera stessa, a valle, entriamo scavalcando—in perfetto stile Rainbow—a un party goa dove la gente è come al Rainbow ma ha pagato 150 euro di biglietto e va in trance sull'elettronica. Il giorno dopo ho la febbre e sull'autobus per Pordenone vedo Pasolini che attraversa i campi correndo per salutarmi al finestrino. Poi l'autista mi grida "Signorina, i piedi!" e mi ricordo che sono di nuovo nella terra del metti giù quei piedi.

Ora però so preparare un fuoco. So come si fa e so che può succedere. Ora quando vedo un albero lo sento vivere, so che vive. Ora ogni tanto mi rivengono in mente le canzoni e viene da ridere. Ora se mi va mi faccio un chapati e se raccolgo delle umbrellifere le aggiungo all'insalata. Ora con Anna ci scambiamo messaggi come due reduci di qualcosa di importante, come veterane e come amiche (insieme a tutti gli articoli allarmisti del Messaggero Veneto). Ora, quando vedo un hippie, mi dà ancora fastidio comunque.

La testimonianza è stata editata per ragioni di spazio. Per leggere la versione integrale, vai sul blog di Sarah.