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Come prendersi un anno sabbatico, trasferirsi a Berlino e pentirsi amaramente

Quattro anni fa, dopo la maturità, decisi che non mi sarei iscritto all'università e avrei passato un anno sabbatico a Berlino: fra sbronze tristi, posti di lavoro degradanti e infinito senso di colpa verso i miei genitori.

Al liceo ero uno scansafatiche totale, eppure sono sempre riuscito a mantenere una buona media. Nel tempo libero mi facevo un sacco di concerti, giocavo a calcetto e leggevo, anche se gran parte delle giornate le passavo al circolo con le stesse cinque o sei persone a fumare e bere birra giocando a FIFA e a Guitar Hero. Alla fine mi sono diplomato, e nell'estate di quattro anni fa ho iniziato ad arrovellarmi su una questione che fino a quel momento non mi aveva quasi minimamente toccato: il senso di colpa legato all'evidenza di non star facendo niente e di dover iniziare a fare qualcosa—non importava cosa, ma che fosse almeno qualcosa.

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Ero convinto che scegliere avrebbe condizionato irrimediabilmente il resto della mia vita, eppure il disagio nei confronti di molti miei coetanei mi spingeva a volermi emancipare da tutto ciò che mi legava a loro e a quell'ambiente. Non mi iscrissi all'università perché la percepivo come una complicazione ulteriore e poco soddisfacente: ero stufo di continuare a studiare a vuoto. Abitavo in un paese di provincia del centro Italia e lavorare avrebbe potuto benissimo voler dire passare dalle otto alle dieci ore nei campi a raccogliere verdura di stagione. Insomma, credevo di non volere nulla di tutto questo: mi andava soltanto di continuare quello che avevo sempre fatto. Avevo bisogno di tempo.

Com'è facilmente prevedibile, questo stile di vita non era propriamente in linea con gli ideali dei miei genitori. Così decisi di andarmene per un po' da casa con i soldi che avevo messo da parte in modo da poter dare un senso alla titubanza. "Vado all'estero," dissi ai miei. "Magari mi trovo un lavoretto e inizio a studiare là, se mi piace la città." Era una sorta di compromesso. Vestito e addobbato di falsità, ma pur sempre un compromesso.

Avevo uno zio a Berlino, parlo perfettamente tedesco, e la città mi è sempre piaciuta: così non molto tempo dopo sfrecciavo adrenalinico sul Brennero verso la Germania. Là mi trovai un piccolo appartamento a Prenzlauer Berg, 60 metri quadri subaffittati da un tizio che per un anno se ne andava in India. A giudicare dai libri new age, dai saggi sul mesmerismo che aveva in casa e dagli incensi alla canapa doveva trattarsi di uno di quei ritiri spirituali da fricchettoni di città; ma la casa era accogliente, aveva un bel parquet grezzo e delle grosse finestre che davano sui lunghi viali alberati del quartiere.

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Per i primi tempi avevo dato vita a una specie di routine di cazzeggio militante che corrispondeva esattamente a ciò che volevo. La mattina mi svegliavo tardi, uscivo di casa e passeggiavo. Passeggiavo un sacco: a volte costeggiavo il muro nella zona di Brandenburger Tor, altre mi sdraiavo al Tiergarten a leggere o andavo in giro per i grandi centri commerciali. La sera, quando non gironzolavo per le strade di Kreuzberg, mi rinchiudevo in un pub sotto casa. Era un bel posto, uno di quelli con i tavoli di legno scuro, la luce soffusa, le candele che facevano brillare d'oro le pinte, gente solitaria, ragazzi universitari e tizi mezzi pazzi che odoravano di naftalina e ti guardavano fisso negli occhi in modo leggermente inquietante.

Uno dei compagni di cazzeggio dell'autore a Berlino.

Dopo un po' di tempo, però, mi resi conto che i personaggi del genere erano un ottimo modo per comprendere Berlino, specialmente per un imbranato di provincia come me: Berlino è una città orgogliosa, dolce e allo stesso tempo scontrosa, e se c'è una cosa sbagliata da fare è quella di tentare di inquadrare con dei parametri le mode, le tendenze e le persone—per il semplice fatto che a nessuno importa un cazzo di chi sei e di come vai in giro.

Mentre uscivo dal mio bozzolo di verginità da metropoli, però, la mia iniziazione mi stava prosciugando le finanze. Dovevo trovare un modo per tirare su due soldi, quindi decisi di fare un giro per i ristoranti in cerca di manovalanza, e dopo meno di un'ora trovai un part-time in un bar-ristorante. A giudicare dai modi, dai profumi e dai vestiti, i clienti erano perlopiù turisti, avvocati e banchieri che lavoravano in zona. In poche parole, era una macchina crea profitti da 3 euro a caffè e 15 a zuppa di verdure. "Camicia bianca, pantaloni neri e capelli pettinati. Ci vediamo domani a mezzogiorno," mi disse il capo sala il giorno della mia presentazione.

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Nonostante l'apparenza raffinata, il posto aveva qualcosa di squallido—che fosse la misera paga dei lavapiatti che non parlavano una parola di tedesco o il forte odore di cadavere che usciva da qualsiasi tubatura della cucina e della zona riservata al personale. Fatto sta che l'ultimo giorno al ristorante fu lo stesso in cui presi il mio primo stipendio: c'era una corrispondenza singolare tra il mio datore di lavoro e quel sotterraneo pari a un tugurio in cui riceveva i sottoposti per consegnare le buste paga. Lui se ne stava seduto sulla scrivania con una bottiglia di brandy, almeno 3000 euro di contanti sul tavolo e il pc aperto su una partita di poker online. Quella sera mi consegnò una busta contenente poco più della metà del compenso pattuito, e rispose sbrigativamente alla mia flebile lamentela sostenendo che ne avremmo parlato la sera seguente, salutandomi con un "fai il bravo". Il giorno dopo non mi presentai a lavoro e non mi feci più vedere.

Nel frattempo i miei avevano iniziato a farsi qualche domanda, e io avevo conosciuto alcuni studenti e altri italiani che stavano a Berlino. Uscivo con loro passando da una birreria all'altra, e da un locale all'altro a tirar mattino; altre volte ci rinchiudevamo in casa ad ascoltare musica pensando che Iggy e David avevano fatto la stessa cosa qualche isolato più in giù. Non era esattamente quello che volevo?

Il problema era che il mio stile di vita mi portava a spendere più soldi di quanti riuscissi a tirarne insieme. Mi rimisi quindi alla ricerca di un lavoro, e trovai un altro piccolo ristorante italiano a Potzdamer Platz. Questa volta ero ben cosciente del fatto che stipendio da miseria o meno, ambiente degradante o meno, non potevo permettermi di lasciare. Quindi accettai l'offerta, e fin da subito iniziai a capire che con l'aiuto delle mance me la sarei potuta cavare. Improvvisamente il problema dei soldi venne così sostituito da un altro: il mio desiderio di felicità faticava ad essere soddisfatto, mentre ciò da cui stavo scappando si faceva sempre più insistente. Era la noia.

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Le giornate si facevano più pesanti, spesso ero stanco per uscire la sera, e la malinconia mi toglieva il sonno. Il tutto era condito con un senso di colpa nei confronti dei miei genitori, me stesso e tutte le persone che mi volevano bene—ero partito dicendo a chiunque che mi sarei impegnato per trovare la mia strada, ma in realtà stavo semplicemente tentando di vivacchiare. L'aspetto più difficile da accettare, però, era la delusione: stavo facendo esattamente ciò che pensavo avrebbe potuto portarmi serenità e a vivere nel modo migliore i miei vent'anni, ma quell'esperienza si stava mostrando come una soffocante coazione a ripetere, un'enorme perdita di tempo auto-lesionista.

Il tempo passava, e ai "beato te che stai lassù" degli amici che mi scrivevano su Facebook rispondevo con falsa soddisfazione, mentre le chiamate a mia madre diventavano più frequenti. Tutta questa storia di andare all'estero, "vivere esperienze nuove", lavoricchiare e spassarmela si stava mostrando per quello che era: emozioncine adolescenziali figlie di un'illusione sfumata nel giro di qualche stagione. Iniziavo a sentirmi inutile, stanco, privo di stimoli e profondamente deluso dalle mie stesse aspettative realizzate. Sembrava un loop di Cubase: il mio non fare nulla mi faceva credere di essere inutile e ciò mi portava a chiedermi perché dover fare qualcosa quando tutto ciò che facevo era inutile.

Una sera dopo aver fatto un po' di mance servendo piatti di carbonara fatta con il sugo in tubetto a Til Schweiger avevo raggiunto gli amici a una festa in barca. Non ricordo molto di quella serata, se non il fatto che verso l'alba le file per andare in bagno erano sempre più lunghe, e che un tizio era svenuto dopo essere andato in iperventilazione per il sangue che non smetteva di uscirgli dal naso. Poi mi addormentai. Su una poltrona, dondolato dalle acque untuose della Sprea. Quando mi risvegliai, verso mezzogiorno, c'era molta meno gente. Avevo mal di testa e la nausea, e quella barca mi sembrava essere diventata il simbolo di tutto il mio anno sabbatico. Restai a poppa per una decina di minuti, in silenzio, e prima di andarmene decisi di organizzare tutto il necessario per tornarmene in Italia.

Col senno di poi, i giorni seguenti si dimostrarono dei tristi tentativi di auto convincimento del fatto che la mia esperienza a Berlino mi avesse dato accesso a esperienze che non avrei potuto provare altrove, e che in qualche modo mi avevano temprato. Ma un mese dopo ero in Italia a lavorare per pagarmi le tasse universitarie.

Per quanta indulgenza al maledettismo e vezzi pseudo romantici uno potrebbe trovarci, in verità questo è stato il primo tentativo razionale di rielaborare in due pagine tutta l'impasse esistenziale che mi portavo dietro. Ricordo quell'anno così, completamente assurdo, ma al contempo come quello che, paradossalmente, mi ha svelato quanto fosse pericolosamente vicino al vuoto pneumatico il mio modo di analizzare la realtà.

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