polenta piatto
Illustrazione by Juta 
Cibo

La polenta è il piatto più sopravvalutato e insalubre della cucina italiana

È stata anche fra le responsabili di un'epidemia, ma la polenta semplicemente non è buona. Qui spiego meglio perché è cattiva.
Juta
illustrazioni di Juta

Oltre al gusto discutibile, basare l’alimentazione sulla polenta ha prodotto per secoli un tremendo effetto collaterale: la pellagra. In Italia la malattia – devastante – fu una vera e propria piaga nelle regioni settentrionali tra il XVIII e il XIX secolo

Un paio di settimane fa la mia amica Diletta Sereni mi ha scritto un messaggio dalla Val Chiusella. In fondo a quella gola sperduta aveva trovato una persona in grado di fare una buona polenta, il che le aveva fatto pensare a me.

Pubblicità

L’avrete notato: la polenta giurano di amarla in quindici milioni ma sembra sempre che quelli capaci di farla si contino sulle dita di una mano. Diletta aveva trovato uno di quei cinque maghi e quando succede una cosa del genere chi mi conosce è autorizzato a pensarmi. Perché, direte voi? Per un post di appena tre parole che ho scritto qualche mese fa su Facebook, un post in cui veniva enunciata una semplicissima verità che per la sua schiettezza ha fatto scandalo.

Nel post dicevo che la polenta è cattiva, e nei commenti se ne è parlato per giorni. Da qualche parte bisogna dunque cominciare ad appuntare il motivo delle conclusioni, e come vedremo la maggior parte delle prove a sostegno della mia tesi vengono proprio dagli hooligan della polenta, che tentando di difenderla non fanno che sparare colpi sul molliccio scafo che vorrebbero condurre in porto.

Partiamo dal nome: polenta deriva dal latino puls, una poltiglia di farro, classica base cerealicola romana. Un piatto che ha saputo sopravvivere per più di due millenni.

Per capire la posizione tragica della polenta nel campionato in cui si è trovata a competere dobbiamo partire dall’inizio, ovvero da cos’è. La polenta è una base cerealicola, purtroppo per lei di tradizione italiana, il che la porta a scontrarsi con la pasta, la focaccia, il cous cous e anche col risotto. Non mi fate la lista, sapete benissimo che in ogni regione ci sono quella quindicina di variazioni sul tema in grado di ridicolizzare la polenta. Che tuttavia è un cibo fortemente identitario, dunque spesso chi è abituato a mangiarla da piccolo riconosce nella pietanza un forte legame, specchio della sua appartenenza territoriale, che in buona sostanza ne compromette momentaneamente la funzione della papille gustative, pronte a considerare gradevole quella che è di gran lunga la peggiore base di cereali disponibile in tutto il Bel Paese.

Pubblicità

Quelli a cui veniva servita da piccoli non sono pronti a riconoscerla come il mappazzone definitivo che è: sorta di semolino rappreso, dalla tragica consistenza dello (scusate) sterco appena deposto.

L’unico asso nella manica della polenta insomma è quello di essere una persistente madeleine collettiva per una certa parte della popolazione. Quelli a cui veniva servita da piccoli non sono pronti a riconoscerla come il mappazzone definitivo che è: sorta di semolino rappreso, dalla tragica consistenza dello (scusate) sterco appena deposto. Qui occorre confessare che per disporre del necessario distacco dalla materia trattata io non posso che non essere del Nord ma dato che vi conosco – mascherine – e so che vorrete subito farne una questione municipale, dico subito che la mia cucina preferita tra quelle italiane è la piemontese (pari merito con quella siciliana) e che per esempio adoro risotti e panettone. Per me insomma altro non è che una faccenda di gusto.

La polenta di mais non esiste(va)

Nella tradizione capitolina persiste anche un’altra evoluzione di quella proto-polenta cinquecentesca: gli gnocchi alla romana – fatti di semola, latte e burro.

Partiamo dal nome: polenta deriva dal latino puls, una poltiglia di farro, classica base cerealicola romana. Un piatto che al netto di alcune trasformazioni ha saputo sopravvivere ormai per più di due millenni, al giorno d’oggi ne troviamo traccia, oltre che nella polenta, nelle farinate – ancora piuttosto diffuse nel centro Italia,e in particolare in Toscana (per la cronaca, la farinata di cavolo nero asfalta qualunque polenta abbia mai assaggiato, pur non essendo poi sto granché).

Pubblicità

All’inizio vi dicevo degli autogol dialettici in cui incorrono di continuo i sostenitori della polenta. Uno dei più persistenti riguarda proprio la provenienza del piatto. Capita che qualcuno mi dica che anticamente si mangiava anche a Roma: come abbiamo visto l’affermazione è più vera di quel che pensano, di solito costoro non si riferiscono alla puls dell’età classica ma proprio alle polente che venivano consumate nella capitale tra Cinque e Seicento – a questa nota storica manca però la conclusione logica: nella Città Eterna non si mangia più la polenta, sostituita darwinianamente (come in quasi tutto il resto d’Italia) con basi cerealicole di qualità più elevata. Nella tradizione capitolina persiste anche un’altra evoluzione di quella proto-polenta cinquecentesca: gli gnocchi alla romana – fatti di semola, latte e burro –, anche loro per quanto marginali tutt’oggi presenti nei menu delle trattorie, al contrario della poltiglia, pardon: polenta.  

Piero Camporesi, un nostalgico doc della cucina burrosa del nord, nel suo Le vie del latte. Dalla padania alla steppa (il Saggiatore), ricorda come un tempo la polenta fosse prodotta con farine diverse. Ce n’erano, dice l’autore, “di miglio, di panìco, di spelta, ma anche di legumi, lenticchie, ceci, piselli, soprattutto di fave con le quali, secche e macinate, si preparava il «macco» e la favata; fresche, si cuocevano nel latte oppure si consumavano in molti altri modi. Popolarissime nel Medio Evo, legumi dei poveri ma anche dei grandi”. 

Pubblicità

Prima della scoperta dell’America, come accennato, la polenta veniva fatta con altri cereali. Oltre ai più ovvi orzo, farro e segale, spiccavano il miglio, il grano saraceno e anche il frumento.

La polenta, nelle sue molte varianti, in passato è stata consumata (verrebbe facile dire per disperazione) in gran parte del suolo nazionale: è stato l’alimento di base della cucina povera in tutto il settentrione alpino e prealpino, nella Pianura Padana, in Liguria, in Friuli-Venezia Giulia e giù lungo gli Appennini fino (almeno) a Lazio, Abruzzo e Molise. 

Prima della scoperta dell’America, come accennato, la polenta veniva fatta con altri cereali. Oltre ai più ovvi orzo, farro e segale, spiccavano il miglio, il grano saraceno e anche il frumento. E poi, nelle zone montane, si usavano farine di castagne e fagioli, poverissime ma più dolci (una polenta di farina di castagne la proverei, e pare che a’ pulenta tipica della Corsica sia ancor oggi fatta quasi sempre così). Dal XVI secolo la polenta diventa quella che conosciamo oggi grazie all’arrivo in Europa del mais, così la descrive ancora Camporesi:

“La polenta di mais (…), quella polenta che a partire dalla fine del XVII secolo andò progressivamente sostituendo le farinate autoctone (…), rappresentò una benedizione e insieme una maledizione, un cibo di salvataggio, un surrogato al pane e alla minestra, un potente antidoto alla fame. La polenta di granturco, o formentone (il termine mais non veniva quasi mai usato) spodestò anche quella di grano saraceno, nota soprattutto attualmente per essere preparata da Tonio al sopraggiungere di Renzo.”

Pubblicità

Quello che in certe parti del Paese sarebbe diventato un legame storico e identitario cominciava così a nascere. In certe zone la polenta di mais ha rappresentato a lungo gran parte del nutrimento principale della popolazione più povera. Anche un nostalgico come Camporesi non riesce tuttavia a trovare meriti organolettici in questa base piatta e triste, buona al massimo per rappresentare quello che per un certo periodo è stato il mondo contadino padano:

Cibo da kermesse popolare (nell’Ottocento era famosa la fiera di Bergamo per le grandi paiolate di polenta), alimento provvidenziale nei momenti d’emergenza annonaria, diffusosi nell’epoca di maggiore depressione economica e negli anni meno fortunati della storia transpadana, è forse destinato a diventare un ricordo, quasi un relitto di archeologia alimentare. Un piatto senza profonde radici storiche che non siano quelle della penuria e della fame, la polenta di mais non può diventare simbolo d’identificazione etnica, anche se nel Sette‑Ottocento ha rappresentato il mondo agricolo padano”.

La Polenta di mais ha ucciso

Mentre in Sud America con la farina di mais si facevano (e si fanno) meraviglie da millenni – pensate alla varietà delle tortillas – qui si sono prodotte epidemie.


Oltre al gusto discutibile, basare l’alimentazione sulla polenta ha prodotto per secoli un tremendo effetto collaterale: la pellagra. In Italia, la malattia – devastante – fu una vera e propria piaga nelle regioni settentrionali tra il XVIII e il XIX secolo, dove fu sconfitta solo nella seconda metà del Novecento.

Pubblicità

La malattia era causata dalla carenza di vitamine del gruppo B, la niacina, o di triptofano, un amminoacido necessario per la sua sintesi. La vitamina B si trova nei prodotti freschi, come latte, verdura o… cereali. Non c’era quindi nel mais? Sì, c’era, anzi c’è, ma racchiusa in una forma che non è assimilabile dall’intestino dei mammiferi non ruminanti, se non dopo un trattamento che le popolazioni precolombiane chiamavano nixtamalizzazione.

La polenta di farina di mais, ignorando questo procedimento, risulta così di fatto nientemeno che velenosa: la pellagra era infatti diffusa proprio tra le popolazioni che usavano la polenta come alimento di base. L’incompletezza del furto culturale si è così manifestata in forma di maledizione di Montezuma: mentre in Sud America con la farina di mais si facevano (e si fanno) meraviglie da millenni – pensate alla varietà delle tortillas – qui si sono prodotte epidemie. 

Attraverso la nixtamalizzazione, le popolazioni precolombiane ottenevano il nixtamal, un impasto che veniva poi ulteriormente trattato e (spesso) fermentato, per esempio per la produzione del pozol. Questo processo abbassa il livello di contaminazione della cariosside attraverso la rimozione del pericarpo (la parete del frutto che avvolge e protegge il seme), esaltando il valore dei principi nutrizionali.

Pubblicità

Il nixtamal è preparato dalle popolazioni centroamericane con questa tecnica millennaria: si cuoce, in genere, il mais insieme a tre parti di acqua e una di calce. Dopo una notte di riposo i semi si gonfiano, spogliandosi degli scarti. Una volta rimossa la calce con un lavaggio può essere adoperata così com’è, formando un impasto chiamato masa, o venire seccata. Una volta ridotta in pasta può subire un processo di fermentazione. Questa trasformazione come detto è cruciale, come suggerito dal fatto che, benché il mais – come nel nord Italia – rappresentasse la base assoluta dell’alimentazione delle civiltà pre-colombiane, queste non hanno mai conosciuto la pellagra.

Se è buono solo quello che c’è di fianco alla polenta, allora abbiamo un problema

Per nobilitare la polenta è indispensabile sconfessarne le origini e farne un piatto ricco, con guarnizioni di estremo pregio

Un altro classico fraintendimento degli hooligan della polenta è quello di presentarla come ottima, parlando di ciò che si mette a guarnizione della stessa. Di solito cibi ricchissimi come spezzatini di orso polare, uova di tartarughe sull’orlo dell’estinzione, funghi Matsutake, lamine di platino edibile... Ok, sto esagerando ma appena un po’.

Perché la fallacia è proprio questa: il confronto è tra le basi e se pasta e pizza sono buone anche con condimenti poveri o leggerissimi, per nobilitare la polenta è indispensabile sconfessarne le origini e farne un piatto ricco, con guarnizioni di estremo pregio – il cui sapore verrà per altro contaminato dal contatto con la poltiglia indigesta. Ancora maledico il cameriere trentino che non aveva specificato che lo spezzatino di capriolo che ordinai nell’ultima gita fuori porta pre-Covid fosse servito su un tragico letto di polenta, costringendomi a una difficile e a tratti impossibile operazione di salvataggio dei bocconcini di carne dal contagio pestilenziale del sostrato. 

Pubblicità

Un’altra delle tesi più in voga vuole che la polenta sia davvero perfetta accompagnata a sughi di carne, goulash e spezzatini. Come accennavo il mio palato non ratifica questa teoria, che per altro chiama in causa la consistenza della polenta, come se questa fosse stabile, quando invece è molto varia, andando da quasi liquida a del tutto solida, da tagliare a fette. Qual è dunque il punto di consistenza della polenta così perfetto per sostenere i sughi di carne? Non potranno essere mica tutti. E se fosse una consistenza molle, non ci starebbe meglio un purè? (Spoiler: sì)

Che posto ha, dunque, la polenta nella nostra gastronomia?

Un altro parametro per giudicare il successo di un determinato alimento è la penetrazione in luoghi diversi da quello d’origine o, nel nostro caso, da quello che a un certo punto ha deciso di farne una propria bandiera identitaria

La polenta in fondo serve a rifocillarsi rudimentalmente a poco prezzo (un grumo di farina infetta girato con un paiolo e dell’acqua), mentre per esempio il pane – che svolge la stessa funzione – gode di un vantaggio tecno-biologico che lo rende leggero e digeribile: la lievitazione. Il pane tuttavia non è una base, o almeno lo è raramente, e come già detto la polenta va paragonata alle altre basi di cereali: la sfida dunque è con pasta, pizza, cous cous e riso. Per me è perfino imbarazzante metterli a confronto, ma del resto mi sono imbarcato in questo trattatello e quindi procediamo.

Pubblicità

Possiamo classificare le basi a seconda di come si combinano con i diversi condimenti. Nel primo gruppo ci sono le basi su cui il condimento si appoggia, come la focaccia, la pizza, le piadine o le tortillas (nelle ultime due il condimento è avvolto ma siamo da quelle parti). Un secondo insieme è quello della pasta, degli gnocchi, del cous cous e del riso: basi mescolate con il condimento. Da questo punto di vista la polenta può costituire un insieme a sé: è una base su cui il condimento si appoggia, sì, ma che poi si può mischiare alla guarnizione – certo, a patto di volerne peggiorare il gusto. 

Un altro parametro per giudicare il successo di un determinato alimento è la penetrazione in luoghi diversi da quello d’origine o, nel nostro caso, da quello che a un certo punto ha deciso di farne una propria bandiera identitaria. Sarebbe bello parlare di questo aspetto in una delle scintillanti polenterie di Manhattan o di Tokyo, ma purtroppo non esistono. Non succede lo stesso per la pizza, piatto simbolo azzarderei del pianeta, e neanche per la pasta, per il risotto – passe-partout d’alta cucina – o per il cous cous, diffuso in tutto il bacino mediterraneo. 

I più irriducibili a questo punto tentano il tutto per tutto aggrappandosi a variazioni di fatto barocche, piuttosto lontane dall’idea-tipo di polenta archetipica e padana – quella la danno perduta ma si lanciano: “è buona fritta”, dicono (notevolissimo che la polenta fritta se la siano inventata al Sud: a Bari, Foggia, Napoli e Messina i trancetti di polenta fritta vengono venduti nelle friggitorie come scagliozzi); ed è vero, fritta la polenta è buona, specie quella bianca. O anche, “è buona la polenta taragna”, dicono, non per caso con una bella quantità di grano saraceno nell’impasto e, soprattutto, del formaggio. “È buona quella concia”, ancora truccata col formaggio, stavolta d’alpeggio. Certo, col formaggio migliorano… ma avete mai mangiato un tabulè, o un cous cous trapanese?

E gli chef, fanno qualcosa con la polenta? Ne esistono versione gourmet? Sono molto rare, al contrario di quanto avviene per esempio con la pasta in bianco. La polenta invece non spopola nei menu più luccicanti, compare rarissimamente come citazione tradizionale, magari confinata in una minuscola quenelle e non conosce elaborazioni significative – apparentemente impraticabili. Forse come ha fatto Camporesi con un pizzico di morte nel cuore dobbiamo davvero convenire che:

… legata a un rituale familiare declinante, a uno spazio domestico ormai sepolto e ad una utensileria tecnico-culinaria arcaica e ingombrante, poco adatta ad essere confezionata, difficilmente riproducibile e quindi scarsamente commercializzabile, ridotta a curiosità gastronomica stagionale e a piatto etnico glorioso ma un po’ sorpassato e marginale, non sembra avere un futuro particolarmente promettente.

Segui Federico su Instagram


Segui MUNCHIES su Facebook e Instagram