Mi chiamo Enrico Albenzio e ho 33 anni. Ho una Laurea Magistrale in Scienze Pedagogiche e da sei anni lavoro come insegnante di sostegno e pedagogista in una scuola di formazione professionale in Veneto, dove seguo ragazzi con disabilità anche nell'inserimento al mondo del lavoro.La pasta diventa lo specchio di sé: se la tratti male durante il procedimento è motivo di dialogo, di domanda. Questo alla lunga non migliora solo la manualità ma parla al ragazzo, spingendolo a chiedersi: "Perché tratto bene un impasto e poi tratto male il resto?"
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Al momento sto lavorando con un ragazzo di quindici anni con un'insufficienza mentale media e una disabilità sociale grave. Prova un’attaccamento affettivo stupendo, sincero. Non ho mai visto dei sorrisi giganti belli come suoi. Che, però, dopo pochi minuti possono trasformarsi in aggressività: fugge via di corsa, strappa tutti i fogli del quaderno… La sua memoria è labile e la sua concentrazione scarsissima. Anche se una cosa gli piace per davvero, il suo interesse e la sua presenza non durano più di un quarto d'ora. Il suo è un mondo esuberante, infantile, difficile da decifrare. Durante l'anno faceva fatica a stare a scuola, gli stavano stretti gli spazi. Però il cibo gli piaceva. Di base è un buongustaio e vive il piacere del cibo come una sua soddisfazione personale.
E il cibo è anche una mia grande passione. Allora prima della pandemia avevo cominciato a portarlo nella fattoria biodinamica di un mio amico. Una o due volte a settimana andavamo a raccogliere le verdure e lui le cucinava con la classe, cosa che gli permetteva di sentirsi incluso. Uno dei problemi con questi ragazzi è proprio che spesso non hanno esperienze da poter raccontare e condividere con i loro coetanei.Poi è arrivato il lockdown. Immaginatelo chiuso a casa, bloccato, senza nessuno spazio per uscire. Era aggressivo con la famiglia e spesso scappava - lo ripescavano i vigili per strada. Con l'insegnamento a distanza la situazione era tragica e non mi sembrava giusto fargli fare dei giochini. In questi anni ho visto che a questi ragazzi bisogna chiedere tanto, non poco, se gli chiedi poco lo sentono e si incazzano. Allora una mattina gli ho detto: domattina ti metti la divisa da cuoco e ci ricolleghiamo. Facciamo quello che fanno tutti in questi giorni: facciamo il pane.Non mi sembrava giusto fargli fare dei giochini. In questi anni ho visto che a questi ragazzi bisogna chiedere tanto, non poco. Se gli chiedi poco lo sentono e si incazzano
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Ci siamo messi d'accordo con la mamma per comprare gli ingredienti. Le prime volte è stato tragico, non siamo riusciti a combinare niente, si scollegava, andava via. Il secondo idem. Il terzo giorno siamo riusciti almeno a impastare. La settimana dopo ce l'abbiamo fatta. Piano piano si è preso bene. La sera prima gli mandavo immagini del pane e della pizza o del pane o dei bagel o dei taralli da preparare il giorno dopo. Dopo due settimane riusciva da solo a pesare tutto! Mi imitava benissimo anche nei più piccoli gesti delle mani. Ogni tanto prendeva a pugni il pane o lo buttava, lo distruggeva proprio. A un certo punto mi sono arrabbiato e gli ho detto è il tuo impasto, trattalo bene, come la persona più cara che hai al mondo. Ci sparavamo sotto della gran musica per aumentare la velocità dell'impasto.Ogni tanto prendeva a pugni il pane o lo distruggeva proprio. Mi sono arrabbiato e gli ho detto è il tuo impasto, trattalo bene, come la persona più cara che hai al mondo
Nei confronti di uno studente con disabilità la possibilità di un rapporto più carnale e terapeutico con il cibo dipende da diversi aspetti. In primis dal ragazzo, se ha o meno una vocazione per la cucina. Negli anni ho seguito diversi ragazzi con il sostegno e sotto una lista di codici ICF [International Classification of Functioning, Disability and Health, NdR]. Alcuni erano lì perché molte famiglie o servizi socio-sanitari, per diverse ragioni, pensano che le scuole alberghiere siano automaticamente la scelta giusta per ragazzi diversamente abili, e quindi li "piazzano" a scuola, poi però i ragazzi sono totalmente disinteressati. Altri invece perché alcuni erano proprio “fissati” con la cucina, tanto da superare i propri ostacoli, fisici o psico-fisici, pur di mettere le mani in pasta. Un altro aspetto è legato alle caratteristiche dalla disabilità della ragazza o ragazzo: il consiglio di classe dialoga con la famiglia e i servizi socio-sanitari per definire gli obiettivi, e se c'è la possibilità di creare per lui una proposta personalizzata, più “carnale”, nel rapporto con il cibo.
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Per la mia esperienza devo ammettere che c’è un aspetto nella disabilità che è comune a molte persone, che è quello paragonabile ad una “vocazione”. Quando c’è, come nel caso del mio studente in quarantena, ci si accorge che l’elemento chiave che poi ha aiutato è il procedimento stesso per fare il pane perché educa, ha le sue tempistiche, i suoi momenti e i suoi ritmi (anche musicali nel nostro caso).La pasta diventa lo specchio di sé: se la tratti male durante il procedimento è motivo di dialogo, di domanda - come stai? Sei arrabbiato? Perchè?. Questo alla lunga non migliora solo la manualità ma spinge il ragazzo a chiedersi: "Perché tratto bene un impasto e poi tratto male il resto?". A 15 anni funziona! E non è solo una strategia pedagogica, ma è una cosa vera, reale, tangibile. Perché è il pane ad essere vero, reale, tangibile. E nella maggior parte dei ragazzi con disabilità intellettiva le cose vere sono un'àncora…è un'àncora perché l’impasto poi lo metti nel forno e se il prima è andato bene potrebbe diventare pane e chi, soprattutto i ragazzi, non vuole assaporare un risultato, un esito?Progetti e associazioni come IlTortellante lo dimostrano. Non c’è niente di appiccicato, forzato e sentimentale sul tema disabilità, ma c’è un lavoro: i tortellini nel caso di Bottura, il pane nel caso di Sobon a Padova. In questi luoghi fantastici il cibo è un elemento concreto, oggettivo, dalla quale si può partire, contribuendo e dare un pezzo di sé, disabile o non disabile. Io personalmente come pedagogista e insegnante di sostegno in una scuola alberghiera mi colloco nella fase precedente a queste realtà, direi che sono più nella fase “talent scout", e guardo con ammirazione a questi luoghi perché spero, e lavoro per questa speranza, che i ragazzi con cui ho a che fare un domani sappiano suonare al citofono giusto per realizzarsi per dare quel che sanno dare. Sperando anche che ci sia qualcuno che sappia riconoscere i loro talenti.Segui MUNCHIES su Facebook e InstagramÈ il pane ad essere vero, reale, tangibile. E per la maggior parte dei ragazzi con disabilità intellettiva le cose vere sono un'àncora