Imparare a convivere con gli attacchi di panico è stata la cosa più difficile della mia vita

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Imparare a convivere con gli attacchi di panico è stata la cosa più difficile della mia vita

Negli anni ero diventata una maga della finzione—nessuno, proprio nessuno avrebbe potuto dire che avevo un disturbo dell'ansia, non fosse stato per la mia incapacità di prendere la metropo per più di un paio di fermate.

Nick Scott

La reazione di "attacco o fuga" è parte del sistema di gestione dello stress del nostro organismo, e funziona tramite l'accelerazione cardiaca, la broncodilatazione e la contrazione dei vasi sanguigni. Tutto ciò aumenta il flusso di sangue e ossigeno ai muscoli e in pochi istanti ci rende pronti ad affrontare o a scappare da un pericolo—un animale selvatico, una macchina in corsa, una persona pericolosa. In termini di risposte fisiologiche, è abbastanza importante. Solo che, alcune volte, andiamo in cortocircuito.

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Charles Darwin, che soffriva di un disturbo da attacchi di panico che lo aveva tenuto chiuso in casa per anni, sosteneva che questo meccanismo si fosse altamente evoluto per permetterci di rimanere in stato di allerta costante. Ma "la cosiddetta reazione di 'lotta o fuga'", dicono Mark Williams e Danny Penman nel loro libro Metodo mindfulness. 56 giorni alla felicità, "non è conscia: è controllata da una delle parti più primitive del cervello, e questo implica che spesso l'interpretazione dei presunti pericoli risulti un po' semplicistica. Di fatto, non applichiamo nessuna distinzione fra una minaccia esterna (come una tigre) e una interna (come un ricordo che ci turba o una preoccupazione per il futuro): vengono trattare entrambe come minacce da combattare ed eliminare oppure dalle quali fuggire." Come osserva l'Editor in Chief di Atlantic Scott Stossel nel suo libro autobiografico sull'ansia, My Age of Anxiety, a livelli controllati, questo meccanismo "accresce le possibilità di sopravvivenza. Noi ansiosi siamo meno propensi a rimuoverci dal pool genico facendo cose come saltellare sull'orlo di un precipizio o diventare piloti di caccia aerei."

Ma a volte la persona pericolosa non c'è perché è quella che sta fuggendo: quella persona sei tu. Convivo con l'ansia da 15 anni, e, in due occasioni, questa si è trasformata in depressione acuta—di quelle che ti fanno stare chiusa in casa, incapace di fare qualunque cosa che non sia guardare i Simpson e mangiare cracker.

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Sarà la volta che divento psicotica? Devo chiamare un'ambulanza? Quanti sonniferi mi ci vogliono per dormire 24 ore di fila senza morire?

Sono tutte domande che mi sono posta. La capacità razionale l'avevo sudata via mentre guardavo le foto di me da piccola, chiedendomi ad alta voce, "Dov'è finita?" Come se ci fossero due versioni di me. Versione 1.0: Pre-ansiosa, e Versione 2.0: Ansiosa.

Solo che non è una teoria completamente squinternata. Attraverso la terapia cognitivo-comportamentale (CTT) sono riuscita a risalire alla radice della mia ansia: una spettacolare esperienza di quasi morte causata da un'appendicite che si è presa circa sei mesi della mia vita. Se sei una adolescente sensibile, se il tuo corpo diventa cancrenoso e se ti indebolisci fino a finire in terapia intensiva, la tua futura salute mentale potrebbe risentirne.

Il mio primo assaggio del panico risale a una settimana dal mio rientro a scuola. Gli insegnanti si fermavano nei corridoi per chiedermi: "Eleanor, come stai?" Pochi giorni dopo, accadde qualcosa.

Un pomeriggio, durante l'ora di biologia, cominciai a sentirmi male. Mi si addormentarono le mani e avevo la sensazione che da un momento all'altro la testa mi sarebbe esplosa. Andai al bagno, e lì, per qualche minuto, sentii che cervello e corpo non erano i miei. Credevo di dover vomitare, ma non venne su niente. Solo un'ondata incessante di pressione nauseante, dalle tempie alle dita dei piedi. Poi arrivò un terrore freddo, nero, come non ne avevo mai conosciuto prima: la testa nuotava, i muri sembravano fatti di gelatina. Niente nel mio corpo o nell'ambiente circostante aveva senso. Questa era possessione pura e semplice.

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"Che succede? Sto morendo?"

Fu il mio primo attacco di panico, ma allora non lo sapevo. Per le due o tre settimane successive non pensai ad altro. Successe altre due volte. Di notte piangevo, ma di dirlo ai miei non se ne parlava. Non avrebbero capito—non capivo nemmeno io. Credevo fosse qualcosa di fisico, qualcosa che aveva a che fare con il mio corpo. Ma dopo tre settimane d'inferno e una notte completamente insonne, andai da sola dal dottore, che mi disse, "Credo siano attacchi di panico." Mi diede degli opuscoli, e mi rinviò a un'analista gentile e anziana nel centro sanitario vicino alla stazione di benzina Shell.

Dovevo pianificare ogni secondo. In caso di bisogno. In pratica, l'ansia è la malattia del "e se…?"

La dottoressa mi diede degli elastici da portare ai polsi, dicendomi di tirarmeli contro la pelle ogni volta che sentivo che il mio indicatore di pressione interno cominciava a aumentare. Non penso che questo mi abbia mai aiutato con l'ansia in sé, ma di sicuro mi rese più cosciente del flusso di energia che avevo dentro e che doveva essere controllato.

Qualche mese dopo mi trasferii a Londra per l'università con un'idea abbastanza precisa di cosa fossero gli attacchi di panico. I miei genitori ne erano ormai al corrente (avevo dovuto spiegare loro l'abbondanza di elastici giallo chiaro nelle case di entrambi), e si erano dimostrati abbastanza comprensivi, ma continuavo a vivere nella paura costante di avere un altro attacco (avrei imparato più avanti che questa è una delle caratteristiche del disturbo da attacchi di panico) quando mi trovavo fuori e circondata da altre persone. A lezione, al pub, o nei locali la paura non mi abbandonava mai. Neanche per un minuto.

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Di conseguenza, come fanno molte persone affette da questo stesso disturbo, sviluppai una serie di comportamenti che mi portavano a evitare le situazioni e i posti in cui mi ero sentita ansiosa in passato. "No, non puoi passare da Green Park perché la settimana scorsa hai avuto un attacco fortissimo lì," oppure, "So che quel pub ha solo un bagno, meglio evitare in caso avessi una crisi e ci fosse la fila," dicevo tra me e me in un dialogo interno senza fine. Dovevo sempre sapere dove fossero i bagni in ogni posto in cui andavo—avevo bisogno di un posto in cui "fuggire" se cominciavo a sentir salire il panico, specialmente considerato che, in pratica, il mio panico si manifestava principalmente sotto forma di problemi intestinali. Se non vedevo un bagno, o almeno un cartello di uscita di sicurezza, ero fregata.

Gli spazi aperti erano una prospettiva gestibile ma terrificante e, se ero costretta ad attraversare Green Park, magari perché lo facevano gli amici, tenevo mentalmente traccia di tutti i cespugli più fitti dietro cui avrei potuto nascondermi—in caso di bisogno. Dovevo sedermi all'ultima fila di ogni lezione o sala di cinema—in caso di bisogno. Se prendevo la metropolitana (succedeva sempre più raramente), me ne stavo in piedi di fronte alla porta—in caso di bisogno.

Dovevo pianificare ogni secondo. In caso di bisogno. In pratica, l'ansia è la malattia del "e se…?"

Passando rapidamente al presente: ora potrei scrivere un'intera tesi sugli attacchi di panico, ma non ho fatto veri e propri progressi fino a un paio d'anni fa. Ancora oggi gli attacchi mi spaventano, perché, be', come potrebbe essere altrimenti? Solo che ora quella paura è diminuita perché dispongo di tecniche per gestire l'ansia.

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"In pochi oggi negherebbero che lo stress cronico è un elemento caratteristico della nostra epoca o che l'ansia è diventata una sorta di condizione culturale della modernità", dice Stossel. "Viviamo, come è stato annunciato più volte sin dagli albori dell'era atomica, nell'era dell'ansia." Ma non tutti hanno una reazione "normale" all'ansia.

Il mio è un disturbo ansioso caratterizzato da attacchi di panico ricorrenti e dal terrore continuo del sopraggiungere di un attacco. Può manifestarsi sotto forma di fastidio intestinale oppure di timore paralizzante. Nel mio caso in genere è un prurito dalla testa ai piedi, la faccia pallidissima, i polmoni contratti, le mani addormentate e l'intestino sottosopra. Sento che potrei vomitare o cagarmi addosso da un momento all'altro. La prima cosa mi è già successa, per fortuna non la seconda—ma ci sono andata abbastanza vicina.Ci sono state volte in cui sono dovuta correre in una strada laterale e mettermi in ginocchio per provare a riprendere controllo del mio respiro e mantenermi salda al terreno, per radicarmi nella terra fisica mentre il mio corpo accede a ciò che sembra essere un altro piano esistenziale. Ma le manifestazioni fisiche dell'ansia sono diverse per ogni persona. Alcuni chiamano l'ambulanza perché hanno paura sia un attacco di cuore. Altri vanno in iperventilazione. Altri vomitano. Altri tremano.

Poi c'è tutto l'aspetto cognitivo. Prima i sintomi fisici eclissavano quelli mentali. Poi è diventato una giostra di pensieri tipo "sto per esplodere, non sarò mai più al sicuro o normale, il mio corpo sta cedendo, mi vedranno tutti, sto perdendo la testa, la sto perdendo, sto perdendo la mia testa. È l'ora. Il prossimo passo è il ricovero nella clinica psichiatrica."

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Ma la giostra non smette di girare una volta che l'ansia ha raggiunto il suo apice. Rimonta—un po' meno potente—almeno un altro paio di volte, finché non passa. E poi arriva lo sfinimento.

È un prurito dalla testa ai piedi, la faccia pallidissima, i polmoni contratti, le mani addormentate e l'intestino sottosopra

Ci sono stati periodi della mia vita in cui ho avuto attacchi di panico tutti i giorni, più volte al giorno. Il mio primo "esaurimento" (oggi si tende a non usare più questa parola, ma descrive bene quello che si prova) al terzo anno di università fu il risultato del mio terrore perenne di avere un attacco di panico. Avevo il terrore di camminare fino al Tesco a 100 metri da casa, per non parlare di andare a lezione. Mi serviva sempre un "piano di fuga", anche se dovevo soltanto andare all'alimentari all'angolo per comprare il latte.

La situazione si fece insostenibile, e caddi nella depressione.

La spersonalizzazione totale, il bisogno di dormire 16 ore di fila e la totale mancanza di appetito—sei chili in meno in una settimana—arrivarono tutti molto presto. Non riuscivo a muovermi. Dopo cinque giorni passati immobile sdraiata ad ascoltare "Moon Pix" di Cat Power (avevo letto che lo aveva scritto in preda a un esaurimento, quindi mi sembrava perfettamente adeguato alla situazione) e a preoccuparmi di cosa dire ai professori e ai miei genitori, andai dal dottore. Mi prescrisse Sertaline (un SSRI spesso prescritto per i disturbi dell'ansia), Diazepam e mi consiglio di andare da un analista—non ne avevo avuto uno da quando mi ero trasferita a Londra, nonostante sapessi che stavo sprecando una buona parte della mia giovinezza. Perché quella non era vita.

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La nuova analista non mi piaceva. Era molto giovane, passava tutto il tempo a crocettare delle caselle e raramente mi guardava negli occhi. Smisi di andarci dopo quattro incontri, pensando che non ne valesse la pena. Siccome nessuna delle due analiste a cui mi ero rivolta era riuscita ad aiutarmi a mettere fine ai miei attacchi di panico nel giro di poco tempo, credevo di essere immune all'aiuto e all'intervento. Ne rimasi convinta fino a tre anni fa.

Le medicine non fecero niente di miracoloso o definitivo—con il tempo cominciai a sentirmi in grado di prendere le distanze dai miei pensieri ossessivi per periodi di tempo sempre più lunghi, e questo a sua volta mi aiutava a resistere, sempre entro i miei parametri. Solo con il senno di poi capisco quante responsabilità avessi affidato al mio ragazzo dell'epoca, non spiegandogli mai perché avessi ancora bisogno di fare o non fare determinate cose. Ero profondamente a disagio, e raramente parlavo alla gente di cosa stesse davvero succedendo nella mia testa. Avevo paura di sembrare "matta"—persino con le persone con cui avevo una relazione. Solo uno dei miei amici sapeva la verità.

Continuai a prendere gli antidepressivi per un paio d'anni. Il terrore di avere un attacco di panico o di essere "smascherata" c'era ancora, ma si era affievolito. Quando ne avevo uno—uno a settimana, invece che tutti i giorni—ci mettevo qualche giorno a riprendermi, ma tutto sommato stavo bene.

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Ce la feci anche quando smisi di prendere le medicine, con una nuova analista. Passavo di lavoro fantastico in lavoro fantastico, scrivevo un sacco, viaggiavo il mondo per intervistare persone importanti. Vista da fuori sembravo invincibile e in grado di affrontare qualunque cosa la vita mi mettesse davanti—riunioni infinite, voli a lunga distanza, commissioni con tempi strettissimi. Ma dentro di me regnava di nuovo il caos. Non riuscivo ad accettare che avrei dovuto continuare a prendere gli antidepressivi. In parte, ero convinta che le medicine fossero l'ultima spiaggia. Il punto del fallimento. Perché avevo bisogno di una pillola che, ogni volta che me la mettevo in mezzo alle labbra, ogni giorno, mi faceva sentire un'invalida che aveva bisogno di farmaci per poter vivere normalmente? Che importava se i miei amici iniziavano a essere stufi dei miei bidoni dell'ultimo minuto perché avevo avuto un attacco di panico e non riuscivo a immaginare di spostarmi oltre l'angolo in cui mi trovavo? Perché avrebbero dovuto saperlo?

La realtà è che non ce l'avevo fatta per davvero. Stavo fingendo, e avevo bisogno di aiuto. Negli anni ero diventata una maga della finzione—nessuno, proprio nessuno avrebbe potuto dire che avevo un disturbo dell'ansia, non fosse stato per la mia incapacità di prendere la metropolitana per più di un paio di fermate. Poi, tre anni fa, ebbi un altro esaurimento—ancora quella parola, ma per me è l'unica adatta. Fu molto peggio della prima volta.

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Riflettendoci ora, si stava accumulando da tempo. Il mio lavoro non mi piaceva particolarmente, nonostante lo status e il valore che mi dava. Avevo esaurito le scuse per dare buca ai miei amici. E dovevano operarmi di nuovo—una cosa che la mia analista non riusciva proprio ad aiutarmi a razionalizzare. Viaggiare per lavoro diventava sempre più stressante. Prima di partire per il Kenya per il Guardian, rimasi a lungo seduta nei bagni del Terminal, completamente convinta che le vertebre del mio collo stessero per spezzarsi in due. La pressione dentro la mia testa era troppo forte, incapace di tollerare il peso dei pensieri che si aggrovigliavano sempre di più.

E se ho un attacco di panico in Kenya? Chi mi aiuterà? E se dò di matto in aereo e vomito perché non riesco a raggiungere il bagno? E se svengo in una parte di mondo dove non conosco nessuno?

E se, e se, e se. È stancante e noioso scriverlo. Mi ci voleva sempre più tempo per superare gli attacchi di panico e, nel giro di un paio di settimane, questi si unirono tutti insieme in una costellazione di frustrazione, lacrime e disperazione.

Divenni di nuovo molto depressa. Questa volta, la crisi fu accompagnata da pianto, vertigini e una quasi totale inappetenza. Una sera andai a letto; quando mi svegliai ero un'altra persona; qualcuno che non riusciva a camminare in linea retta, smettere di piangere, mangiare una fetta di toast in meno di un'ora, aprire la porta al postino, riempire la vasca per fare un bagno, rispondere al telefono, dare da mangiare ai gatti. Ero disperata: il terrore aveva eclissato tutto.

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Negli anni ero diventata una maga della finzione—nessuno avrebbe potuto dire che avevo un disturbo dell'ansia, non fosse stato per la mia incapacità di prendere la metro per più di un paio di fermate

La depressione e l'ansia spesso camminano mano nella mano. Il mio cervello razionale questo lo sapeva, ma sulla cresta di questa nuova ondata di terrore non riuscivo ad accettarlo. Il mio cervello ne aveva avuto abbastanza, e la depressione era diventata un sintomo dell'ansia andata ormai in sovraccarico. Questo, per me, segnò un fallimento. Per tre settimane, non andai oltre il negozio alla fine della mia strada. Mi sentii, per la prima volta nella mia vita, razionalmente suicida—o meglio, alla disperata ricerca di una fine tangibile al mio inferno. Non volevo morire per davvero. Solo che non volevo più vivere nel terrore del prossimo minuto.

Il giorno che mi trovai a fissare l'armadietto delle medicine un po' troppo a lungo, cercai online il dottore più vicino. Mi disse "stai raggiungendo il picco, ma puoi riprendere il controllo," e, nonostante le gambe che tremavano contro la sedia (un nuovo sintomo) e l'urgenza di scappare via dal suo salotto e di ritornare di corsa nel mio letto, lo ascoltai. Era simpatico, diceva un sacco di parolacce e aveva un sacco di conoscenze scientifiche approfondite del perché il mio cervello si comportasse come stava facendo.

Quel pomeriggio fu il mio primo punto di svolta in 15 anni. Dopo aver cominciato a fare due sessioni a settimana con lui, andai dal mio dottore e mi venne prescritta una dose bassa di un nuovo SSRI—Citalopram, un altro antidepressivo efficace nel trattare i disturbi dell'ansia. Dopo un mese ricominciai ad avere speranza.

Questo fu tre anni fa e adesso, ce la sto facendo. Ce la faccio per davvero, con un lavoro full-time molto esigente e tutto il resto. Prendo ancora il Citalopram, una dose bassa, e sono contenta di prenderlo indefinitamente. I disturbi dell'ansia possono avere cause multiple, ma sono disposta ad accettare che il mio cervello abbia avuto un piccolo errore tecnico. I miei muscoli si sentono saldamente ancorati alle ossa. A volte sto ancora male, ma almeno non è come quando avevo l'impressione di dissolvermi. Mentre prima mi terrorizzava l'idea di essere giudicata per via degli antidepressivi—dipendente? Fallita? Schiava del Big Pharma?—ora non me ne frega proprio niente. Sono in grado di vivere la mia vita. Questa è l'unica cosa che conta.

L'idea di "rilvelare" troppo, correndo il rischio che la gente ci veda per sempre come dei matti perché parliamo della nostra salute mentale, è completamente sbagliata

Ora i miei amici sanno che ho una propensione all'ansia e agli attacchi di panico, e, come con la maggior parte delle grandi rivelazioni che ingrandisci nella tua testa, quando finalmente "confessai" la ragione per la quale ero stata poco affidabile in passato, nessuno reagì in modo strano. È ancora così. Le persone sono generalmente abbastanza ragionevoli quando spieghi loro qualcosa—che sia che a volte hai qualche difficoltà a livello mentale o che ti fai il tie-dye sui peli del pube. Vogliono solo cercare di capire cosa stai dicendo, offrire supporto, e poi continuare a vivere la loro vita. Non parlarne, al contrario, non funziona molto bene. Scrive Stossel: "Il mio attuale analista, il dott. W, dice che c'è sempre la possibilità che rivelare la mia ansia allevierà il peso della vergogna e ridurrà l'isolamento della sofferenza."

Qualcosa di assolutamente cruciale che ho imparato sul trattamento dell'ansia è che devi trovare un analista che ti piace. Se questo vuol dire fare diversi tentativi, e se hai le risorse per farlo, sei a posto. Il tuo cervello è un organo e ha bisogno di manutenzione adeguata. Come mi ha detto Louis Theroux, è un po' come "guardare sotto il cofano di una macchina per vedere che cosa succede."

Con questo analista, che chiamerò "S", mi sono resa conto che un elemento fondamentale perché io possa funzionare correttamente è accettare che non esiste una "cura" per farmi sentire meglio—ci sono solo tecniche e interventi (nel mio caso, le medicine). La frustrazione è troppo vicina all'ansia e il costante "PERCHE CAZZO STA SUCCEDENDO A ME", come il non parlarne a nessuno, peggiora solo le cose.

Come sono passata dal non parlare a nessuno dei miei problemi fino a parlarne qui nei dettagli?, vi starete chiedendo. A questo c'è una risposta molto semplice: c'è gente che ogni giorno della sua vita scandaglia internet in cerca di rassicurazioni sulla propria sopravvivenza. Quando stavo poco bene, avevo bisogno di sapere che c'era una via d'uscita.

È un'idea molto semplice: se siamo più aperti sulle nostre esperienze con la malattia mentale incoraggeremo gli altri a parlare delle loro. Stossel scrive di una cena in compagnia di diversi scrittori e artisti e di come, dopo che aveva parlato dei suoi progressi, ognuna delle altre nove persone rispose "raccontandomi una storia della propria esperienza di ansia e psicofarmaci. E così facemmo il giro del tavolo, condividendo le nostre storie di dolore nevrotico." Mi sono trovata nella stessa situazione più volte di quanto non sia possibile ricordare qui. Nessuno si sentirebbe a disagio a parlare di un'aritmia: perché un'instabilità del cervello dovrebbe essere tabù e una del cuore no? Le persone vogliono essere ascoltate—qualcuno deve fare il primo passo. L'idea di "rilvelare" troppo, correndo il rischio che la gente ci veda per sempre come dei matti perché parliamo della nostra salute mentale, è completamente sbagliata. È una questione di salute, punto e basta.

Segui Eleanor su Twitter: @eleanormorgan

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