Svezzamento Opinioni
Illustrazione di Lorenzo Matteucci
Cibo

Come lo svezzamento è diventato una questione di marketing

Dalle indicazioni rigide dei pediatri ai corsi che predicano "l'auto-svezzamento". Far iniziare a mangiare un bambino non è mai stato così complicato.
Giorgia Cannarella
Bologna, IT
LM
illustrazioni di Lorenzo Matteucci

“Intorno al 1700 i bambini venivano svezzati intorno ai due mesi con papponi di cereali, latte non pastorizzato, carne cruda e a volte laudano”

Prima di diventare madre avevo un sacco di certezze sul tipo di madre che sarei stata che, una per una, sono state disattese. Il mio percorso nella maternità è stato più un disimparare che un imparare: disfarmi dell’ingombrante bagaglio della madre che pensavo, sognavo, sarei stata e venire a patti con quella che potevo essere. Ostentavo parecchia sicurezza anche sullo svezzamento, ma lungo il percorso ho scoperto che la realtà era più complicata.

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Lo svezzamento — letteralmente significa togliere un vizio, in questo caso il latte — è il passaggio da un’alimentazione liquida a un’alimentazione solida. Ora si usano più i termini divezzamento o alimentazione complementare, che va cioè a completare il latte. Questo passaggio avviene quando intorno ai sei mesi di vita il latte, materno o in formula, non basta più alle esigenze nutrizionali del bambino in termini di energia e apporto di proteine, ferro, zinco e altri nutrienti.

Lo svezzamento nei millenni

La dieta perfetta era acqua e zucchero, tuorlo d’uovo, pane e latte di mucca. Ora il latte vaccino è proibito fino all’anno di vita. Sullo svezzamento c’è sempre stata grande confusione.

È difficile ricostruire una storia dello svezzamento in Occidente. Pare che i Greci e i Romani svezzassero i bambini quando avevano tutti i denti, intorno ai tre anni. Nei secoli il momento è stato anticipato: intorno al 1700 i bambini venivano svezzati intorno ai due mesi con papponi di cereali, latte non pastorizzato, carne cruda e a volte droghe tipo il laudano per calmarli. Non è la pratica in sé che mi sorprende —è che qualcuno vi sopravvivesse. Nella mia ricerca mi sono imbattuta nel libro Consigli di una nonna alle giovani madri sulla educazione fisica dei fanciulli della contessa vedova di Mountcashell. Anno 1840.

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La contessa vedova dà dei consigli alimentari come “Niuna cosa è così positivamente salubre quanto lo zucchero e non vi è liquido che più sicuramente possa permettersi ai bambini […] dell’acqua con lo zucchero”. La dieta perfetta per un bambino, scrive l’autrice, è acqua e zucchero, tuorlo d’uovo, pane e latte di mucca. Se considerate che ora il latte vaccino è proibito fino all’anno di vita iniziate a capire che sullo svezzamento c’è sempre stata grande confusione.

Lo svezzamento oggi

Non bisogna distrarli facendo l’aeroplanino con il cucchiaino: devono conoscere il cibo e concentrarsi sul pasto.

I Millennials e la Generazione Z possono chiedere ai loro genitori come sono stati svezzati e riceveranno tutti più o meno le stesse risposte. Il pediatra forniva un foglio con uno schemino simile a questo: un po’ di frutta in purea dai quattro mesi e mezzo; brodino e farine di cereali dai cinque mesi e mezzo; e poi un po’ alla volta si poteva aggiungere una spolverata di Parmigiano, un filo d’olio, eccetera. Questo è stato il primo approccio al cibo di quasi tutti noi.

Nei primi anni Duemila sono usciti due libri, uno di Lucio Piermarini in Italia e uno di Gill Rapley in Gran Bretagna, che parlavano di ‘autosvezzamento’, o baby-led weaning, che hanno avuto un successo straordinario. Era l’inizio di un approccio diverso alle prime pappe. I bambini, dicevano gli autori, possono mangiare quello che mangiamo noi (con qualche attenzione ad alimenti allergizzanti e poche esclusioni come i funghi). Possono continuare a bere il latte quanto gli pare mentre si avvicinano al cibo mangiando con le mani e sporcandosi. Non bisogna distrarli facendo l’aeroplanino con il cucchiaino: devono conoscere il cibo e concentrarsi sul pasto.

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Ho parlato di questa rivoluzione copernicana con Francesca Ghelfi, nutrizionista e laureata in Scienze Gastronomiche con un dottorato in Scienze degli alimenti, membro di NNEdPro, una rete internazionale per la promozione dell'educazione nutrizionale, partner dell’Università di Cambridge. Ha appena pubblicato il libro Svezzamento senza pensieri che è stata la lettura più sensata e utile che ho fatto sull’argomento. “La scienza ci dà delle risposte, ma noi dobbiamo adattarle alla nostra vita. Non esiste un unico modo giusto di svezzare i bambini,” esordisce Ghelfi.

“Partiamo dal presupposto che a un certo punto i bambini mangeranno quello che mangeranno gli adulti,” mi spiega. “E quindi rischieranno di mangiare troppo salato, troppo proteico, troppo dolce, troppo unto, se è così che mangia la famiglia. Quindi la cosa importante è che la famiglia si adegui a un’alimentazione fatta bene.” Da alcuni studi, pare che i bambini che hanno primi approcci al cibo più liberi diventino meno schizzinosi intorno ai due anni, quando si sviluppa la cosiddetta selettività alimentare. Ma gli studi fatti sono ancora troppo pochi e proseguiti per troppo poco tempo per trarre conclusioni definitive.

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Pappe vs autosvezzamento

Al momento c’è una divisione netta in tema di svezzamento. Da una parte i pediatri, la cui maggior parte sventola lo schemino delle pappe semolino e vitello, dall’altra coloro che predicano l’autosvezzamento —quasi sempre nutrizionisti o dietisti. Nessun ente scientifico dà indicazioni precise su come far iniziare a mangiare i bambini. Ma quasi tutti, come l’EFSA, l’ESPGHAN e l’American Academy of Pediatrics, concordano sulla necessità di aspettare il loro sviluppo neurologico e fisico — stare seduti da soli, avere perso il riflesso di estrusione che porta a sputare le cose che si mettono in bocca, essere interessati al cibo. E questo avviene generalmente intorno ai 6 mesi. L’OMS dice che entro gli 8 mesi di vita la maggior parte dei bambini è in grado di consumare il cibo sotto forma di ‘finger food’, ovvero portandolo alla bocca in autonomia Entro i 12 mesi possono mangiare il cibo della famiglia.

Inoltre mancano evidenze scientifiche sulla necessità di ritardare l’assunzione di alcuni alimenti come pomodori o fragole perché “creano allergie”. Come mai questo iato tra studi scientifici e consigli dei pediatri? Ne ho parlato con il pediatra Marco Nuara. ”Nel corso di specializzazione in pediatria non si affrontano molte delle situazioni con cui il pediatra di base si confronterò quotidianamente con i genitori in ambulatorio: sicurezza, igiene, spannolinamento… Su certi temi, come l’alimentazione, impari confrontandoti con la realtà e i singoli casi.” Secondo lui non ha senso etichettare le modalità dello svezzamento: “Io parlo di svezzamento intelligente. La letteratura scientifica ci dice di quali nutrienti ha bisogno un bambino: carboidrati, grassi, fonti di ferro. Di base li ottengono da cereali, legumi, uova, pesce, carne, frutta a guscio. Sta a noi fare il resto. Come per tutto è importante ascoltare il proprio bambino: ognuno ha i suoi tempi, sono tutti diversi.”

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Nel 1800 compaiono i primi alimenti ad uso esclusivo dei bambini. Nel 1902 nasce la Plasmon. Inizia il mercato del baby food: omogenizzati, biscotti, farine di cereali

E allora pace libera tutti, diamo ai bambini quello che gli piace? Magari fosse così semplice. Negli ultimi anni l’autosvezzamento è diventato una moda, anzi, una sfida al primo bambino che a sei mesi già mangia gli spaghetti al sugo di cernia da solo. Pullulano corsi, gruppi Facebook, profili Instagram. Fa parte di quel pacchetto di ‘maternità intensiva’ che rende particolarmente difficile diventare madri al giorno d’oggi: un modello culturale che ci bombarda continuamente di informazioni su cos’è meglio per il nostro bambino e soprattutto su quante cose dovremmo fare noi e quanto tempo dovremmo dedicargli (spoiler alert: il più possibile).

Ovviamente i padri non sono pervenuti: si fa sempre riferimento alla mamma che deve nutrire il proprio bambino. Su uno di questi gruppi leggo il post di una madre che esordisce con “Vorrei un po’ di conforto”. Parla di sua figlia: “Abbiamo ancora paura a darle la pasta e per pasta ovviamente intendo fusilli, farfalle, spaghetti”, scrive, e sente che “in qualche modo sto ‘limitando’ la mia bambina”. Sotto fioccano i commenti: ma come, non le dai la pasta? Ma di cosa hai paura? Sua figlia ha 8 mesi.

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Se prima si seguivano con ansia e rigidità le indicazioni del pediatra, ora si sgomita per dar da mangiare ai bambini le cose più da adulti possibile, e si scattano le foto per mostrare che il proprio figlio non usa il cucchiaino e beve dal bicchiere. Ma anche questo approccio può portare ad ansie inutili. Dice Nuara: “Alcuni bambini non mangiano subito i pezzi. La chiave è la gradualità. Il cibo per loro rappresenta un sacco di novità tutte insieme ed è importante non fargli sviluppare avversione. E poi perché insistere a dare subito pezzettini se il genitore è terrorizzato? Meglio iniziare con una crema ma data in serenità. Purtroppo la democrazia dell’informazione crea slogan e partiti. I genitori vengono da me con una caption su Instagram e credono di avere capito tutto. Quello che suggerisco io? Preparare al bambino il proprio cibo, in base al suo grado di sviluppo e alle sue preferenze, ma fargli sempre assaggiare quello che mangiamo noi.”

Baby food vade retro — o forse no?

Nella seconda metà dell’Ottocento compaiono i primi alimenti ad uso esclusivo dei bambini, di cui uno è la farina lattea di Henri Nestlé, messa in commercio nel 1867. Nel 1902 nasce la Plasmon. Inizia il fiorente mercato del baby food: omogenizzati, biscotti, farine di cereali. Ora gli omogenizzati vengono spesso additati come il male assoluto, invece a me sembrano il modo di ricordarmi come l’autosvezzamento sia un privilegio sociale e culturale. Bisogna avere tempo di cucinare, bilanciare i nutrienti, cucinare i pasti, tagliare tutto in modo sicuro.

La foto del bambino che mangia la frittata con le mani sembra più che altro un’auto-celebrazione di chi l’ha scattata, come se lo svezzamento fosse una gara al genitore più virtuoso. Se paragoniamo quel bambino al coetaneo che in quel momento mangia la pastina perché il genitore non ha voglia, tempo, informazioni per prepararla… fa davvero differenza se nel giro di qualche mese mangeranno uguale? O appunto è solo una carezza dell’ego della madre o del padre?

C’è qualcosa di male nel baby food in sé , chiedo a Francesca? “No. È indubbiamente comodo. Il problema vero del baby food è l’appiattimento della varietà sensoriale.” Da persona appassionata di cibo, sognavo che mio figlio avrebbe mangiato di tutto subito, tuffandosi in vasche di fusilli (uno dei primi tagli di pasta considerati sicuri). E invece mi sono dovuta scontrare con il fatto che per ora, a sette mesi e mezzo, a lui piacciono più le consistenze cremose delle care vecchie pappe. Che non ho il tempo di cucinare per quando siamo in giro e quindi in vacanza compriamo gli omogenizzati — e gli piacciono parecchio. Che ho l’ansia a dargli la frutta a stick e preferisco schiacciargliela. Che i Plasmon non sono affatto male.

Vederlo scoprire il cibo è bellissimo. Ma devo accettare che sarà un viaggio lungo, e che forse ciò che farò in questi primi mesi non avrà un impatto così forte su come, cosa e quanto mangerà in seguito. L’importante è seguire i consigli della contessa vedova di Mountcashell: ai bambini date quello che volete ma il vino no, per carità, perché lei non ha mai visto “segni più evidenti di debolezza acquisita che nei bambini […] che bevevano vino diverse volte al giorno.” E questa mi sembra una base di buonsenso che possiamo tutti condividere.

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