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Foto by Ivan Cortez via Unsplash

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Cibo

Com'è fare il barman in Campania quando hai a che fare con i camorristi

Quando lavori in un territorio in cui la criminalità organizzata convive accanto ad alcuni strati sociali, condividendo anche i luoghi di divertimento, tu che vedi l’umanità passarti davanti, impari​.

Alla fine impari a distinguere chi appartiene a un ecosistema camorrista e chi no. I primi non hanno bisogno di “urlare” la loro presenza. Contano sul fatto di essere riconoscibili. E per questo motivo, molto di rado si lasceranno andare ad atteggiamenti gratuitamente aggressivi.

Sono sempre stato un ragazzo piuttosto vivace: mai troppo affascinato dalla scuola, ma mai così audace da lasciarla; erano gli anni ’90.

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Una certa pretesa di ribellione e di “alternatività”, praticamente la norma del periodo, si tradusse per me nello stazionare per ore in una "Trattoria con Enoteca” del mio quartiere, gestita da un oste che incarnava a perfezione lo stereotipo della categoria: burbero, smargiasso, gran conoscitore dei fatti di strada, autoproclamato professore di vita.

Non posso dire di avere mai propriamente lavorato lì. Quella che veniva affidata a noi giovani scapestrati era una serie di piccole commissioni, favori banali, piccole seccature. Il mio ruolo era spesso quello di versare whisky di tremebonda qualità, in bicchieri di plastica bianca.

Da lì in poi la mia vita è proseguita in un’alternanza di lavori, stavolta veri, sempre nel settore della somministrazione. Percorso che mi ha portato ad aprire il mio primo locale nel 2006 e, durante il quale, ne ho viste parecchie.

Posso cominciare da quel cliente che, convinto che io non rispettassi il giusto ordine di chi stava in fila, ha richiamato la mia attenzione puntandomi una pistola: “Penso che ora sia il turno mio”

Abitando a Napoli, la mia vita professionale si è spesso svolta in quella zona che parte dalla periferia Nord della città e si estende fino alla provincia di Caserta. Una vasta area in cui locali come le discoteche proliferano, anche se parlare solo di queste ultime sarebbe limitante. Ci sono decine di contesti differenti che necessitano di barman disposti a servire centinaia e centinaia di persone nella stessa sera, come concerti, feste di piazza, catering. Ecco: questi contesti, che uniti alle più tradizionali discoteche si definiscono nell’ambiente come “altovendenti”, sono per molti il punto di ingresso nel mondo del bar.

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Parlo di serate in cui difficilmente le presenze scendevano al di sotto delle 1500-2000 persone, con un impegno orario che vi lascio immaginare. Con un mio collega, col quale si lavorava spesso insieme, eravamo soliti dire che se in una giornata sgobbi meno di 12 ore, non puoi dire di aver lavorato: hai fatto un favore al titolare, mica puoi pretendere la paga.

L’evento dove ho visto il maggior numero di persone è stato una grossa manifestazione con dj provenienti da tutto il mondo, con circa 15mila paganti. Anche se non è quello il contesto in cui ho fatto più drink nella mia vita. Quel record personale lo detiene una 12 ore di lavoro ininterrotto che mi ha visto servire poco più di 900 drink. E, come sarebbe lecito aspettarsi con numeri di questa portata, in quanto a clienti mi è capitato davvero di tutto.

Posso cominciare da quel cliente che, convinto che io non rispettassi il giusto ordine di chi stava in fila, ha richiamato la mia attenzione puntandomi una pistola: “Penso che ora sia il turno mio”; oppure quello che, stufo di attendere la fila alla cassa, ha cercato di aggirare il problema offrendo 50 Euro direttamente a me. Tutto, solo, per una bottiglietta d’acqua.

In queste situazioni, i clienti chiedono principalmente miscugli di alcolici che loro ritengono essere particolarmente buoni o indicati per raggiungere l’ebrezza, il tutto accomunato dal filo conduttore della più sfrenata dolcezza. La moda di drink quanto più possibile dolci sembra si sia diffusa, nel corso degli anni, di pari passo con il consumo dell’Mdma, che si dice amplifichi e magnifichi la percezione dei sapori dolci. Da cui molte richieste di drink che mi venivano fatte.

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L’esperienza più surreale credo, però, di averla vissuta un’estate di un po’ di anni fa: un collega mi avverte che sto per servire un cliente conosciuto per essere in odore di malavita. La direzione pretende che sia accontentato in ogni sua richiesta. Giunto al banco in compagnia di due signore, questo cinquantenne a metà tra Tony Montana e il Tomas Milian dei tempi migliori mi squadra e, con un’aria di superiorità degna delle brioche della Regina Maria Antonietta, mi intima: “Adesso versa la vodka nel bicchiere. E fermati solo quando lo dico io.”

Detto, fatto: io inclino la bottiglia e verso. Lui, noncurante, si rigira, continuando a intrattenersi con le signore. Il bicchiere si colma rapidamente, e presto trabocca inondando il banco di vodka, gocciolando giù, verso il pavimento. Solo allora costui si rigira verso il banco, mentre la bottiglia era pressoché terminata. Mi guarda con aria mista di stupore e sdegno, poi afferra il bicchiere, ne svuota un po’ sul banco, mi punta il dito contro ed esprime la sua sentenza: “Si strunz’! Però mi hai fatto divertire.” E se ne va.

Quando lavori in un territorio in cui la criminalità organizzata convive accanto ad alcuni strati sociali, condividendo spazi, luoghi, divertimenti, modi e usi, tu che vedi l’umanità passarti davanti, impari; mentre il tuo lavoro ti porta a scrutare da quella distanza fisicamente rappresentata dal bancone del bar, fai proprio questo: impari.

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Che cosa? A capire. Conoscere facce, atteggiamenti, posture. Impari a distinguere chi effettivamente appartiene a un ecosistema camorrista e chi, invece, lo ostenta solo per imitazione.

I primi non hanno bisogno di “urlare” la loro presenza. Contano sul fatto di essere riconoscibili, a loro modo “già noti.” E per questo motivo, molto di rado si lasceranno andare ad atteggiamenti gratuitamente aggressivi. Questa conoscenza, per quanto amara, ti permette di esercitare il tuo lavoro. Anche in contesti sociali che altri definirebbero “ai margini”.

È impossibile pensare di poter togliere, dalla propria lista professionale, un certo tipo di posti che hanno fama di essere “malfrequentati”. Perché la scelta delle serate a cui partecipare, da parte di questi clienti, non viene quasi mai effettuata solo in base al locale.

Nello specifico tu capisci, tu sai, riconosci e riesci ad evitare tutti i rischi connessi al doverti far spiegare chi o cosa rappresenta quella persona che ti trovi di fronte, al bancone. E il tutto scorre come si trattasse di assoluta normalità. L’intimidazione, per essere tale, non ha bisogno di essere palesata con una pistola.

D’altro canto è impossibile pensare di poter togliere, dalla propria lista professionale, un certo tipo di posti che hanno fama di essere “malfrequentati”. Dire: “Io lì dentro non ci lavorerò mai più”. Perché? Molto semplice: la scelta delle serate cui partecipare, da parte di questi clienti, non viene quasi mai effettuata solo in base al locale. Non esistono strutture o zone ben specifiche che siano predilette da malavitosi o affiliati alla camorra.

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Capitava, talvolta, di assistere a delle vere e proprie “disfide” fra due tavoli a chi ordinava lo Champagne più costoso. Se il primo tavolo ordinava dieci bottiglie, l’altro era pronto a rilanciare con altre dieci e così via.

Ci sono una serie di fattori da considerare, tra cui: popolarità del luogo, possibilità di mettersi in vista, connivenza con gli organizzatori e tante altre piccole cose. In due parole: se un locale ha successo, è impossibile non incontrare un certo tipo di persone, ovunque esso si trovi. L’importante, per loro, è mettersi in mostra. Affermare il proprio ruolo sociale senza aver nemmeno bisogno di ricorrere alla violenza gratuita.

Capitava, talvolta, di assistere a delle vere e proprie “disfide” fra due tavoli a chi ordinava lo Champagne più costoso. Se il primo tavolo ordinava dieci bottiglie, l’altro era pronto a rilanciare con altre dieci e così via. Un giochetto che, per questa gente, si trasforma quasi sempre in spese folli, anche decine di migliaia di Euro a serata.

Non crediate, però, che questi siano gli unici clienti difficili da gestire. Ce ne sono molti altri che meriterebbero quanto meno una menzione. Il più complicato in assoluto è quello fuori contesto, colui che – potremmo dire – non conosce le regole del gioco. In due parole: quello lì che va a ballare una, massimo due volte l’anno, e non conosce il sottobosco di regole non scritte che compone il mondo delle discoteche, come il complicato rapporto tra clienti e buttafuori.

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In generale, negli anni in cui ho lavorato in questi contesti, di violenza ne ho vista tanta. Veramente tanta. Anche se il bancone ce ne ha sempre, più o meno, tenuti fuori, limitandoci al ruolo di spettatori.

Il fattore sicurezza, in questi ambienti, è una criticità. Come tale, ci sono persone che sono in grado di gestirla, altri che la gestiscono meno bene. Spesso questo “meno bene” si accompagna a uno spropositato uso di violenza – stavolta sì! – a danno del cliente. Per quello che vedo oggi, da spettatore, le squadre di sicurezza brave, organizzate e affidabili ci sono e gestiscono bene eventi anche dalla portata molto ampia. Restano ancora delle sacche di picchiatori incalliti che quando gli viene segnalato un cliente dai puntatori laser dei colleghi, prima pestano e poi chiedono perché. Personalmente spero vivamente che questo fenomeno si estingua quanto prima, anche se sono scettico.

A questo punto, immagino, vi starete domandando: e se il cliente è uno di quelli di cui abbiamo parlato prima? L’approccio dei ragazzi della sicurezza rispetto alla criminalità organizzata è molto diverso.

Vi basterà andare a dare un’occhiata ai cestini in cui i ragazzi della sicurezza buttano gli oggetti sequestrati durante i controlli agli ingressi, per contare il numero di lame che vengono trovate addosso ai clienti ogni sera.

Si passano la comunicazione tramite radio di eventuali avventori da prendere con le molle, e spesso i PR della struttura li informano prima di eventuali prenotazioni di tavoli, con cui trattare con specifiche attenzioni. Certo, l’errore può sempre essere dietro l’angolo: durante i miei anni di onorata carriera mi è capitato di vedere più di un addetto alla sicurezza avere la peggio, o doversi nascondere in ogni anfratto del locale pur di sfuggire a soggetti, a volte anche armati, che non erano portatori di buone intenzioni.

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E in generale, negli anni in cui ho lavorato in questi contesti, di violenza ne ho vista tanta. Veramente tanta. Anche se il bancone ce ne ha sempre, più o meno, tenuti fuori, limitandoci al ruolo di spettatori. La battuta che facevo più spesso con i colleghi, quando davanti ai nostri occhi cominciava una rissa, era: “Stasera danno il wrestling in tv.” E comunque, con i dovuti distinguo tra struttura e struttura, vi basterà andare a dare un’occhiata ai cestini in cui i ragazzi della sicurezza buttano gli oggetti sequestrati durante i controlli agli ingressi, per contare il numero di lame che vengono trovate addosso ai clienti ogni sera.

Oggi ho un cocktail bar molto piccolo e curato, dove posso concentrarmi solo sulla qualità dell’offerta e sul rapporto con l’ospite, che nulla ha a che vedere con il cliente usuale delle strutture di massa. Il mio locale conta 14 coperti in sala e 16 all’aperto, capirete che stiamo parlando di tutti altri numeri. Con questo tipo di approccio al lavoro posso dire di sentirmi finalmente a casa mia; parlo con le persone, converso, ho un volume della musica basso, di sottofondo, posso prendermi i miei tempi e restituire all’ospite il senso di una serata in cui si viene per stare bene, non per mettersi in mostra.

Gli altovendenti devono fare volumi, vendite, soldi, senza badare a niente e a nessuno. Questo, dopo un po’, spersonalizza l’operatore del bar, rendendolo una macchinetta, provandolo e fiaccandolo nel buon umore. Ecco, quando sei alle prime armi sopporti la cosa con molta più tenacia, oggi francamente dalla mia professione voglio altro.

D’Altronde, tutto questo lo sto raccontando dietro a un bancone e davanti a un Single Malt, fra altri clienti casuali, in una chiacchierata che ha acquisito i contorni di una serata tra amici. Ecco: ora per me il Bar è tempo che sia questo.

Come raccontato da Dario D’Avino a Enrico Nocera

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