FYI.

This story is over 5 years old.

Cibo

Ora che Grom è stata ceduta a una multinazionale possiamo finalmente smettere di parlarne

Ieri è arrivata la notizia dell'acquisizione di Grom da parte della multinazionale Unilever. La notizia in sé non è particolarmente rilevante, eppure per molti Grom sembra essere un'ossessione.

Immagine via Flickr/

MANYBITS

Come certo avrete sentito anche voi, ieri è arrivata la notizia dell'acquisizione di Grom da parte della multinazionale anglo-olandese Unilever, già proprietaria tra gli altri dei marchi Algida e Magnum. "Riteniamo che Unilever, con la quale condividiamo la cura della qualità e della filiera agricola, sia il partner giusto per fare un ulteriore passo in avanti e portare i nostri prodotti in nuovi Paesi," ha detto Federico Grom stesso, annunciando l'acquisizione, mentre Unilever ha garantito che il marchio rimarrà autonomo e continuerà a essere gestito dai due fondatori.

Pubblicità

Nonostante il grande dibattito sull'"artigianalità" del gelato di Grom si fosse concluso solo poco tempo fa tra l'isteria generale, le opinioni sull'acquisizione sono in breve tornate a occupare l'Internet, un po' come se quella per la "questione Grom" fosse un'ossessione costante interrotta soltanto dallo scorrere dei fatti di cronaca. E se le razioni più comuni sono state di indignazione per "un altro pezzo di made in Italy che finisce in mani straniere," stavolta molti commentatori hanno cercato di minimizzare la cosa ripescando proprio la questione della non-artigianalità.

In effetti, hanno ragione: scandalizzarsi per il fatto che da oggi Grom sarà di proprietà di una delle più grandi multinazionali del mondo non ha molto senso, esattamente come non aveva molto senso scandalizzarsi quando l'azienda è stata costretta a rimuovere la dicitura "artigianale" dai suoi prodotti. Perché quei prodotti da parecchio tempo non sono più artigianali: il processo di produzione è in tutto e per tutto industriale, e le miscele dei gelati di Grom vengono prodotte, pastorizzate, congelate e poi mantecate direttamente nei punti vendita. Insomma, con la vendita della società a Unilever non cambia il prodotto, ma solo la capacità di distribuirlo.

Del resto, dalla maggior parte dei clienti di Grom la pretesa "artigianalità" del gelato era già percepita più come un semplice elemento estetico e comunicativo che non come un'effettiva qualità dell'alimento. Anche perché nessuno è così ingenuo da pensare che un'azienda che vende gelato in oltre 30 paesi diversi riesca a farlo senza utilizzare un modello di produzione su scala industriale—semplicemente, non può esistere qualcosa di artigianale con quei volumi di vendita.

Pubblicità

Se aggiungiamo a tutto questo discorso le motivazioni economiche che soggiaciono alla cessione della società—i bilanci continuamente in perdita e i debiti che si accumulavano tanto da spingere nel 2011 i due fondatori a cedere il cinque percento della società a Illy, continuando nel frattempo a cercare un partner che aiutasse l'azienda a crescere sul mercato internazionale—la scelta di vendere è perfettamente comprensibile.

La cosa veramente interessante, allora, è piuttosto quello che significa questa vendita per l'immaginario e per la retorica alla cui costruzione la stessa Grom contribuito fin da subito—dai primi elogi di Martinetti per l'allora sindaco di Firenze e rottamatore Matteo Renzi.

Probabilmente vi ricorderete di quel divertente siparietto di qualche mese fa in cui Renzi aveva mangiato un gelato di Grom a Palazzo Chigi, di fronte a una folla di giornalisti, per replicare a una copertina dell'Economist che lo criticava. Ecco, quel caso—un vero e proprio product placement istituzionale—era stato piuttosto emblematico della simbiosi esistente tra Grom e la personificazione istituzionale della retorica completamente sganciata dalla realtà su cui si fondava il successo dell'azienda. Ovviamente Grom era solo una delle tante aziende coinvolte in un rapporto del genere, ma certo era una delle più rappresentative.

Perché per quanto ormai sia piuttosto chiaro che non è così, c'è stato un periodo—neanche troppo breve—in cui tutte le storie sull'"italianità," l'"artigianalità" e il "gelato fatto come una volta" che sono state fin dall'inizio il marchio di fabbrica di Grom non erano percepite come una strategia di marketing. Si sono rivelate tali solo quando la retorica ad esse sottesa ha cominciato a logorarsi, e la diffida da parte del Codacons a utilizzare la dicitura "artigianale" è stata il colpo di grazia.

Ma a parte questo e senza voler politicizzare troppo quello che in fin dei conti, artigianale o meno, resta un semplice gelato, Grom e Martinetti sono due persone che hanno avviato un'azienda, sono riusciti a farne un marchio dall'immagine molto forte spacciandosi per una piccola storia di successo artigianale e adesso, proprio quando arrivano le prime vere difficoltà economiche e allo stesso tempo le caratteristiche che fino ad oggi hanno sempre fatto la forza di quel marchio cominciano a scricchiolare, vendono tutto (pur mantenendo il controllo della società) e fanno un sacco di soldi.

Se adesso—com'era successo quando si era rivelata la vera natura non artigianale del gelato di Grom—molte persone si sentono "tradite" è solo perché da questa operazione ci hanno guadagnato tutte le parti coinvolte: sia Grom, la parte che ci ha fatto materialmente i soldi, sia tutti gli altri soggetti—imprenditoriali o istituzionali che siano—a cui fa comodo continuare a pompare la retorica del Made in Italy.

Ma se si guarda veramente al prodotto, al marchio e al percorso imprenditoriale, era quasi inevitabile che Grom finisse così. E infatti, il risultato finale di questa cessione è stato quello di svelare una volta per tutte questi meccanismi retorici e commerciali, mettendo fine all'ossessivo dibattito su cosa rappresenti veramente Grom.

Segui Mattia su Twitter