Attualità

Una casa per ricominciare

“Questa è una casa rifugio per donne vittime sia della tratta che del maltrattamento”: una giornata in una casa rifugio a Milano.
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Tutte le foto di Ylenia Rosanna De Luca.

Questo articolo è un estratto della rivista digitale gratuita Emersioni – Storie e percorsi dallo sfruttamento all’autonomia realizzata da una redazione di ragazzi e ragazze under 25, guidati dal giornalista Giuliano Battiston. Un’iniziativa promossa da Città Metropolitana di Milano insieme all’agenzia per la trasformazione culturale cheFare e l’organizzazione indipendente di ricerca e trasformazione sociale Codici ricerca e intervento, nell’ambito del progetto Derive e Approdi contro la tratta e il grave sfruttamento di esseri umani.

I nomi usati sono fittizi per proteggere l’identità e la privacy delle ragazze.

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“Ti ritrovi qui da un momento all’altro. Non te l’aspetti neanche. Succede l’aggressione, poi scappi. Io sono scappata in ciabatte, per andare dalla polizia”. Siamo nella stanza di Daniela, che ci racconta la sua storia abbassando il tono della voce. La luce entra soffusa. Alle finestre, delle tende blu “fatte durante il corso di cucito”. Sul davanzale una piantina di basilico. La camera da letto è piccola e ben tenuta, con tre letti e il bagno, simile alle altre camere di questa casa rifugio di Milano. Ci sono sedici posti letto, di cui due liberi per le emergenze. C’è un via vai continuo, perché la violenza non fa pause e ogni settimana c’è almeno una nuova entrata. In questo periodo, qui vivono quattordici ragazze, ma oggi in casa ce ne sono poche. Si rilassano nella sala comune.

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Daniela è una donna di mezza età ed è di Milano. Dei ricci castani le incorniciano il viso. Sorride in modo contagioso. “Io sono qui da 2 settimane, mi trovo bene. È come una grande famiglia”. Appena arrivata le veniva sempre da piangere, racconta, ma ora si concentra sulle cose che può fare. Ha ricevuto un’accoglienza generosa. “Anche a livello psicologico, se ti vedono un po’ giù vengono e ti chiedono se ti va bene il contatto fisico, se ti dà fastidio. Sono state carine” sostiene, riferendosi alle altre ragazze e alla loro solidarietà. Spiega che sono tutte simpatiche e che si ride spesso in casa.

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“Questa è una casa rifugio per donne vittime sia della tratta che del maltrattamento” ci spiega Martina, la responsabile della comunità, subito interrotta da una chiamata. All’altro capo del telefono c’è una donna vittima delle violenze del marito. “Il numero è il 1522 nazionale. Il centro antiviolenza riceve la chiamata dall’ospedale, dalle forze dell’ordine o dalla donna stessa che, come in questo caso, chiede aiuto”. Il telefono squilla di continuo: è parte del lavoro di Martina, reperibile 24 ore al giorno, per tutta la settimana. Ricevuta la chiamata, la procedura prevede poi la valutazione del rischio. Il tentato strangolamento o la minaccia con arma alza al massimo il rischio: la risposta deve essere immediata, provando a convincere la donna a trasferirsi nella casa rifugio. La prima fase è di protezione: la donna non può uscire da sola, deve cambiare numero e cancellare i profili sui social media. Martina racconta che in alcuni casi gli uomini si presentano perfino alla porta della casa rifugio. In questi casi interviene la polizia e la donna viene trasferita in un’altra casa.

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“Lei abita qua in zona e lui la sta cercando, andando in giro in bicicletta. L’altro giorno la figlia l’ha visto qua sotto, lungo il corso. Quindi lei non può uscire, non è che non le permettiamo di farlo, ma se esce se lo trova di fronte”. Martina si riferisce a Daniela, che ha già denunciato il marito due volte, ma i tempi per risolvere il caso per via legale sono “molto complicati”. Il cambio di alloggio è l’unica soluzione, per ora. Daniela sa che quella attuale è una situazione temporanea: spera di trovare una casa in cui vivere con la figlia ventenne e riprendere una vita normale.

Daniela ci racconta la sua giornata e ci mostra la sala: i muri dell’area comune sono di color lilla, alle pareti sono appesi quadri e tabelle e una pianta rampicante pende dall’alto. Le finestre sono ampie. C’è la cucina, il divano e la televisione e una lunga tavolata, dove “fanno i tappi” dalle 9 alle 11 e dalle 14 alle 16. È uno dei lavori manuali in cui sono impiegate le ospiti di questa casa: montare tappi che serviranno agli ospedali. Dopo le 16 ognuna fa quello che vuole: leggere, dormire o scendere nel cortile. Nel cortile ci sono qualche sedia, alcune piante e, su un asse, la scritta “Take your time”. Le donne scendono a prendere aria. “Credo che dall’ambiente si capisca il coinvolgimento di chi lavora qui” spiega Martina, per la quale una buona cura della casa equivale alla cura delle persone che ci vivono.

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Per il pranzo e la cena si cucina a turni. Padre Ambrogio, fondatore della casa rifugio, sceglie cosa cucinare. “Per esempio tira fuori pollo, lo fai la tua maniera: marocchino o brasiliano” ci racconta una delle ragazze. La cucina è internazionale. “L’altro giorno abbiamo mangiato anche pakistano: buono” concorda Daniela. Chiediamo la provenienza alle presenti e giriamo il mondo: Brasile, Milano, Marocco, Nigeria e Pakistan. Alcune di loro sono state vittime della tratta e la coordinatrice ci spiega cosa sia: inizia tutto con una proposta di lavoro da parte di amiche o zie, che promettono di portare una ragazza in Italia a spese loro. “Non ti preoccupare, ti trovo un lavoro e mi restituisci i soldi del viaggio”, dicono in genere. Quanto al lavoro fatto in Italia: solo bugie. In alcuni contesti, per esempio nel caso delle donne nigeriane, prima della partenza si fa un rito vudù o juju con cui un “native doctor”, uno sciamano, fa giurare alla donna di ripagare il debito e di non parlarne con nessuno.   Pena la morte sua o dei familiari. Generalmente, il debito ammonta a 20-30 mila euro. La maggior parte delle ragazze sfruttate sessualmente sono nigeriane. Molte arrivano dall’Europa dell’est: Romania, Ucraina e Albania. Le ragazze transgender e transessuali vengono per lo più dall’America del Sud.

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Barbara è brasiliana, ha le unghie fucsia appena fatte. Sul letto tiene un ritratto che le ha regalato un’amica. Ci sono peluche e piantine. Un crocifisso alla parete. Ci parla della sua compagna di stanza Marlena: entrambe si svegliano alle 6 del mattino e alle 7 vanno nella cappella della fondazione a pregare. Barbara è arrivata due mesi fa dalla comunità per uomini [dove era stata inizialmente portata in assenza di documenti che rispecchiano la sua identità di genere]. Qui nella casa rifugio, Martina le ha comprato una parrucca e dei vestiti nuovi. “Bisogna tenere assieme due livelli: il come sta lei e tutta la parte più concreta, dai documenti alla scuola di italiano, dalla scuola professionalizzante, all’inserimento lavorativo”. Ogni giorno alle 8:15 Barbara prende il treno per Saronno, dove lavora dalle 9 alle 16 in una cooperativa. Punta all’indipendenza. “Piace tantissimo, prima era faticoso adesso normale. Non tanto 450 euro. Meglio lavorare che stare casa a fare niente”.

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Le operatrici gestiscono il cosiddetto “accompagnamento”, assistendo le ragazze anche con la burocrazia. “Abbiamo fatto lo SPID e la richiesta di invalidità. È la cosa più difficile. Se ho difficoltà io, non oso immaginare loro” commenta una tirocinante. L’assistenza deve essere continua, dalle 9 alle 23, sette giorni su sette. Qui operano 4 educatrici, 2 ragazze del servizio civile che rimangono per un anno e 7 tirocinanti che rimangono solo qualche mese, più le volontarie. “Stasera viene una volontaria a coprire la sera. Sennò avrei dovuto fare dalle 9 alle 23” racconta la responsabile. I volontari sono preziosi per garantire una copertura e per Martina ne servirebbero di più: ci chiede di condividere la mail tirocini@fondazionesomaschi.it nel caso qualcuno tra i nostri lettori volesse offrirsi come volontario [e intraprendere un percorso di crescita con la Fondazione]. Sono proprio le volontarie del servizio civile a tenere il corsi d’italiano, il lunedì e il giovedì. Ma ce ne sono molti altri: di yoga, di arte terapia, di danza terapia, di musica, di cucito, di cucina.

“Crediamo molto nelle esperienze belle per ritrovare un senso di bellezza sia interiore che nella relazione con l’altro” afferma Martina prima di tornare a lavoro.