Triglie alla livornese
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Cibo

La storia di questo piatto toscano è la storia degli ebrei italiani

Le triglie alla maniera di Mosè romane sono diventate negli anni un piatto tipico toscano: le triglie alla livornese. E la loro storia è quella del popolo ebraico italiano.
Alla ricerca di piatti e ricette dimenticate in giro per l'Italia.

Oggi lo conosciamo come Triglie alla Livornese, in precedenza era noto come “triglie alla mosaica” – vale a dire alla maniera di Mosè – e come detto nasce nel ghetto di Roma

Le storie di alcuni piatti possono portarci molto lontano nel tempo svelando connessioni inaspettate tra le traiettorie di popoli e quelle dei sapori che alcune culture, spostandosi, portano con sé. E questi sapori sono destinati a contaminare i luoghi e le ricette di quanto incontreranno nel loro cammino lungo le pieghe della storia. Qui scriverò una di queste storie, che ha portato un piatto povero proveniente dal Ghetto di Roma e dall’antichissima tradizione gastronomica degli ebrei italiani, a influenzarne un altro, molto più noto, che associamo a un’altra zona e a un’altra cultura, sia sociale che gastronomica.

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La ricetta originaria è un piatto fatto con un pesce un tempo considerato molto umile. Oggi lo conosciamo come Triglie alla Livornese, in precedenza era noto come Triglie alla mosaica – vale a dire alla maniera di Mosè – e come detto nasce nel ghetto di Roma. È il caso di ricordare che il nostro è il solo paese – Israele escluso – in grado di vantare una storia di permanenza ebraica, per quanto liminale, ininterrotta. La Comunità ebraica di Roma è infatti la più antica d’Europa, nella Città Eterna è registrata la presenza di ebrei a partire dal secondo secolo avanti Cristo. Ai primi se ne aggiunsero molti dopo il 63 d.C., arrivati al seguito del condottiero Pompeo, conquistatore della Giudea. Durante l’Impero Romano la comunità ebraica cittadina diventò uno dei principali centri ebraici della diaspora.

In seguito però le cose erano destinate a cambiare, e le condizioni degli ebrei a Roma e nello Stato pontificio peggiorarono progressivamente, culminando in alcune “feste” al centro delle quali c’erano dei “giochi” – che si tenevano ogni anno in Piazza Navona e a Monte Testaccio – durante i quali il divertimento dei cristiani consisteva in un tipico “scherzo” da tirare ai malcapitati ebrei che venissero incontrati per strada. Il più crudele di questi “giochi” prevedeva che un ebreo, preferibilmente un vecchio, venisse infilato in una botte piena di chiodi infissi verso l’interno, botte che veniva fatta rotolare per le strade, causando immancabilmente la morte del pover’uomo all’interno. Per evitare di fare questa fine gli ebrei, sin dal 1312, cominciarono a pagare una ingente tassa, a favore di tutte le comunità dello Stato pontificio.

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Il Ghetto era allora di fatto la zona più degradata della città, e non per niente fu lì che sin dal Medioevo venne installato il mercato del pesce.

Sembra che la stia prendendo larga, ma prima di arrivare alle ricette è in questo caso importante conosce gli antefatti storici alla base di migrazioni popolari, che hanno finito per contaminare sapori altrimenti lontani. Col passare dei secoli la situazione degli ebrei romani non era destinata a migliorare. Il 12 luglio 1555 Papa Paolo IV con la bolla Cum nimis absurdum decise di revocare tutti i diritti fin lì concessi agli ebrei, ordinando al contempo l’istituzione del ghetto, allora battezzato, con una grazia aderente all’eleganza dell’operazione, “serraglio degli ebrei”. La decisione di metterlo dove lo vediamo ancora oggi, nel Rione Sant’Angelo, accanto al Teatro di Marcello, si doveva al fatto che quella zona era considerata malsana nonché soggetta a inondazioni. Di sera i cancelli di cui era stato prontamente dotato il Ghetto venivano chiusi per poi essere riaperti all’alba del giorno dopo. Oltre all’obbligo di risiedere nel Ghetto, gli ebrei, come prescritto dal paragrafo tre della bolla, dovevano portare un distintivo che li rendesse identificabili: per gli uomini si trattava di un berretto, mentre le donne avevano più scelta, l’importante era che questi segni fossero di “colore glauco” (glauci coloris), ovvero giallo paglierino: vi ricorda qualcosa? Agli ebrei era vietato qualunque tipo di commercio, eccetto quello degli stracci e dei vestiti usati.

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Oggi le triglie forse non ci sembrerebbero un pesce di scarto, ma un tempo erano ritenute di infimo livello

Il Ghetto era allora di fatto la zona più degradata della città, e non per niente fu lì che sin dal Medioevo venne installato il mercato del pesce, del resto il Tevere era a un passo, così come il porto fluviale di Ripa Grande, dove approdavano delle barche provenienti da Ostia. Stiamo finalmente arrivando alla prima delle nostre ricette, perché la disponibilità di pesce (per quanto di scarto) fece allora nascere diverse e ottime ricette, tra le migliori della tradizione culinaria romana.

Si tratta di piatti di recupero, basati sugli scarti che si potevano rimediare nei pressi della Chiesa di Sant’Angelo in Pescheria, dove le donne ebree andavano a raccogliere ciò che il resto della popolazione lasciava lì: teste, lische o altre parti di pesce, le meno nobili. C’era un modo preciso per stabilire cosa potessero prelevare gli ebrei da quel mucchio: sulla parte destra del porticato di Sant’Angelo è murata una lapide lunga 113 centimetri, riportante un’iscrizione latina che sancisce l’obbligo di consegnare ai Conservatori dell’Urbe la testa e il corpo, fino alla prima pinna (usque ad primas pinnas inclusive), di ogni pesce più lungo della lapide stessa.

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La Chiesa di Sant'Angelo in Pescheria. Foto di Pufui PcPifpef, via Wikipedia CC

Ben presto fu chiaro che il modo migliore di utilizzare il poco che rimaneva era cuocerlo in una sorta di zuppa, mettendo il tutto dunque in acqua, insieme alle verdure più facilmente reperibili: aglio, cipolle e prezzemolo, e poi ai pinoli (grande classico della cucina romana-giudia), all’uva passa e all’aceto, cioè il vino andato a male nelle taverne. La presenza di pinoli e uva passa non deve ingannarvi: i primi a Roma abbondavano per la grande presenza di pini marittimi, che del resto ci sono ancora; e la seconda gli ebrei ce l’avevano sempre, perché era usanza verso settembre-ottobre, durante lo Rosh Ha-Shanah (il Capodanno ebraico), appendere i grappoli d’uva alla finestra per farli appassire e, quindi, poterli usare come dolce cheap durante tutto l’inverno.

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Questo pugno di ingredienti è alla base di due piatti storici della cucina romana-giudia, piatti che possiamo trovare ancor oggi nelle trattorie dalle parti del Portico di Ottavia: il brodo di pesce con fagioli e ritagli di pasta, e le triglie alla mosaica, di cui parlavamo all’inizio. Oggi le triglie forse non ci sembrerebbero un pesce di scarto, ma un tempo erano ritenute di infimo livello. Già che vi avevo promesso la storia di una ricetta, ora trascrivo quella che era la ricetta delle triglie alla mosaica così come veniva preparata nel Ghetto di Roma nel XVII secolo, ma se siete interessati a vedere come finisce questa storia non fermatevi alla lettura di questa ricetta:

Ingredienti per le Triglie alla Mosaica

triglie
pomodoro a cubetti
aglio
olio d’oliva
aceto di vino bianco
sale
pepe nero
zucchero
prezzemolo

Preparazione

1. In una padella fate un soffritto con aglio e olio.
2. Aggiungete i pomodori tagliati a cubetti.
3. Unite lo zucchero e condite con sale e pepe.
4. Fate sobbollire il sugo una decina di minuti, quindi aggiungete le triglie.
5. Irroratele con l’aceto e fate cuocere il tutto altri 15-20 minuti, senza toccare le triglie che si sfaldano facilmente.
6. Quando le triglie sono cotte, aggiungete il prezzemolo tritato. Servitele tiepide.

Nonostante alcune episodiche scaramucce, gli ebrei a Livorno godevano di grande libertà, si pensi ad esempio al fatto che la città fu l’unica in Europa a non conoscere mai l’istituzione di un ghetto chiuso

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Come detto, la vita delle comunità ebraica nello Stato Pontificio era molto dura, fu questo il motivo che spinse molte famiglie a trasferirsi in Toscana, e in particolare a Livorno, individuata dai Medici come nuovo e principale porto del Granducato. Lì la comunità ebraica prosperò, anche grazie alle possibilità che la città cominciò a offrire a partire dal XVI secolo. Allora vigeva infatti una norma del Granduca di Toscana che favoriva l’immigrazione, rendendo Livorno una meta ideale per chi altrove fosse discriminato per ragioni etniche o religiose, era inoltre favorita la pacifica convivenza tra le diverse minoranze che andarono ad abitare la città, rendendo il porto una destinazione ideale per tante minoranze, lì indicate col termine “Nazioni”. Nel giro di poco tempo la “Nazione Ebrea” divenne la più numerosa e la più importante dal punto di vista economico.

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Nonostante alcune episodiche scaramucce, gli ebrei a Livorno godevano di grande libertà, si pensi ad esempio al fatto che la città fu l’unica in Europa a non conoscere mai l’istituzione di un ghetto chiuso, benché gli ebrei vivessero in una zona abbastanza circoscritta, raccolta attorno alla sinagoga, nel quartiere che veniva chiamato “i quattro canti degli ebrei”.

Fu così che gli ebrei romani sciamarono a Livorno, prosperando e portando con sé i segreti delle loro ricette, ed è proprio a partire da queste, cui finalmente c’era modo di aggiungere elementi più sostanziosi, che, secondo alcuni, si deve la nascita di quello che poi sarebbe diventato il cacciucco. In particolare l’evoluzione sarebbe partita dal brodo di pesce con fagioli e ritagli di pasta. L’antico brodo potè arricchirsi di pesce, e a quel punto riuscì a fare a meno di ritagli di pasta e fagioli.

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Un’evoluzione analoga subì la ricetta delle triglie alla mosaica, che per diventare “livornesi” si spogliarono dell’uva passa e dei pinoli, mentre l’aceto finalmente tornò a essere vino bianco. A chiamarle “triglie alla livornese” fu Pellegrino Artusi nel La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene. E come nel caso del cacciucco (la cui origine è dibattuta ma che pare comunque si debba al maelstrom di culture diverse che la città fu in grado di intercettare) la storia delle triglie alla livornese è indissolubilmente legata all’apporto della comunità ebraica, che influenzò la cultura culinaria locale in modo ancor oggi tangibile: ne resta infatti traccia nell’uso del pomodoro.

Ricetta delle triglie alla livornese ai primi del 1800

Ingredienti:

triglie
pomodori (un tempo erano usati i “Super D”, una varietà di piccoli perini molto dolci e oggi rarissimi, o anche il “Reif rosso”, che in Toscana si trova ancora. In ogni caso vanno bene i Perini da sugo, così come i pomodori ramati, se molto maturi)
aglio
prezzemolo
olio d’oliva
vino bianco
sale
pepe

Preparazione:

1. Lavate le triglie, squamatele e sventratele.
2. Preparate i pomodori incidendone il dorso e facendoli sbollentare per qualche minuto, quindi pelateli e tagliateli in cubetti.
3. Tritate finemente l’aglio e il prezzemolo.
4. In una padella capiente fare scaldare l’olio extravergine e soffriggere il trito di aglio e prezzemolo, cui dopo un po’ unirete la polpa di pomodoro. A questo punto salate leggermente e lasciare cuocere 10 minuti.
5. Passati i 10 minuti aggiungete le triglie adagiandole delicatamente in padella. Lasciatele cuocere 5 minuti muovendo di tanto in tanto la padella per evitare che si attacchino. Girandole fate attenzione a non romperle.
6. Sfumate col vino bianco e proseguite la cottura per ulteriori 15 minuti.

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