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Federico Moccia, ma cosa hai scritto?

L'intervento di ieri dello scrittore sul Corriere della Sera è la sintesi di una narrazione sul femminicidio confusa e dannosa.
Federico Moccia. Foto via Flickr.

Ieri sul Corriere della Sera è comparso un articolo di Federico Moccia intitolato “Femminicidio, la cultura dell’amore e del rispetto contro la violenza”. Nonostante le intenzioni del pezzo—a giudicare dal topic ‘i casi nel 2018’—fossero presumibilmente di offrire un punto di vista sui numerosi casi di femminicidio avvenuti in Italia dall’inizio del 2018 a oggi, il risultato non solo confonde le acque di una conversazione sulla violenza che già in questo paese stentiamo ad avere, ma fa perno su assunti sbagliati e pericolosi.

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A partire del titolo e dal sottotitolo: “la cultura dell’amore” e del “perdono” che Moccia invoca per contrastare il femminicidio non serve a molto, perché la violenza sulle donne dipende da qualcosa di molto più profondamente radicato nella nostra società: è il risultato di un’imposizione di potere, la cui legittimità è percepita come un prodotto culturale e sociale. Legare il femminicidio a una “mancanza di parole” o a una “mancanza d’amore” significa fare un’operazione pericolosissima: cioè ricondurre alla singola relazione, al singolo caso, un problema che è esteso a tutto un sistema socio-culturale che prevede la violenza. E finché non ammetteremo, anche negli articoli di Moccia, che questo sistema socioculturale—sì, il patriarcato—esiste, non riusciremo nemmeno ad approntare gli strumenti necessari a contrastarlo.

Sul passaggio più contestato sui social, “Se un uomo di una certa età decide di uccidere la moglie o la compagna di una vita […] la loro colpevolezza è alla pari,” è arrivata oggi la rettifica dell’autore, che a Giornalettismo ha spiegato che “La colpevolezza si riferisce al fallimento del rapporto: molto spesso un uomo che uccide la donna reputa solo lei colpevole della fine della loro relazione. Invece, questa colpa è condivisa: anche l’uomo deve rendersi conto che il gesto che sta per commettere deriva da un suo comportamento sbagliato. Non era mia intenzione mettere sullo stesso piano l’autore del femminicidio e la vittima.”

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Ora, per rettificare la rettifica: il “fallimento del rapporto”, così come la “gelosia”—definita nell’articolo “una parete senza finestre che finge di proteggere da pericoli esterni chi è nella stanza, ma in realtà lo soffoca perché impedisce la vita”—non sono la causa profonda dell’atto, possono al massimo esserne la miccia momentanea.

Discutere dell’uomo che si sente “fallit[o], si sente sol[o], tradit[o], allora se la prende con la persona amata e cerca di ferirla ancora di più: se la prende con i figli, con l’amore più grande, che poi dovrebbe essere anche il suo,” non solo è dannoso, è offensivo nei confronti delle vittime di violenza. Che non sono vittime innanzitutto in quanto partner di una persona che “non l’ha presa bene,” ma sono vittime in primis in quanto donne.

La domanda che mi aspetto che un articolo sulle statistiche sul femminicidio in Italia—paese dove nel 2016 ogni due giorni almeno una donna è stata uccisa dal proprio partner—si ponga è la seguente: che cosa facciamo noi come società per accorgerci che il problema è il sessismo, ovvero l’entitlement dell’uomo all’uso della violenza su una “entità” che non reputa a lui pari, cioè il "genere-donna"?

Di sicuro non succederà finché ci affideremo a una vaga retorica del “contagio d’amore vero” e della relazione mal riuscita tra singoli.

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