Cultura

Com'è passare dall'idea per un libro a pubblicarlo davvero, spiegato da chi lo ha fatto

Irene Graziosi ha da poco pubblicato il suo primo romanzo per E/O, Il profilo dell’altra. Abbiamo parlato di manoscritti, case editrici e agenti letterari.
Niccolò Carradori
Florence, IT
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Foto per gentile concessione dell'intervistata.

Stando ai dati diffusi da AIE (Associazione italiana editori) nel 2021 nel nostro paese sono stati acquistati 5,4 milioni di libri di narrativa italiana, del totale di 115,6 milioni venduti. Il 13% in più rispetto al 2020. Se siete degli aspiranti scrittori con una buona dose di ambizione, però, questi dati non devono trarvi in inganno: gli esordienti pubblicati dalle case editrici che riescono ad avere una diffusione decente sono comunque qualche decina ogni anno, e un singolo romanziere che riesce a vendere più di 3000 copie in genere dovrebbe stappare una bottiglia di vino molto costosa. 

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L’editoria “seria”, il mondo delle case editrici note al pubblico, rimane una realtà insulare, chiusa, a cui è difficile accedere nonostante la mole di manoscritti che inondano le caselle mail degli editor. Perché, internet o non internet, scrivere e pubblicare un romanzo rimane un desiderio quanto mai diffuso.

Ma cosa si prova davvero a scrivere e pubblicare un libro? Come si comportano le case editrici? È effettivamente uno di quei riti intellettuali che ti cambia? Si dà il caso che una vecchia collaboratrice di VICE in questo momento sia una delle persone più adatte per spiegare l’ingresso nel mondo dell’editoria. 

Irene Graziosi ha da poco pubblicato il suo primo romanzo per E/O, ora disponibile anche in audiolibro. Il profilo dell’altra è la storia dell’incontro tra Maia, una 26enne piena di cinismo e anedonia, e Gloria, una famosa influencer di 18 anni che le chiede di diventare sua autrice. Oltre a essere scritto molto bene—e a mostrare l’ecosistema degli influencer e dell’attivismo patinato su Instagram con lo sguardo di chi l’ha visto da vicino [Irene è stata per alcuni anni l’autrice di Sofia Viscardi, e del canale Venti]—il libro è anche un perfetto caso studio per le dinamiche dell’editoria.

Ho deciso quindi di chiamare Irene, per farmi spiegare come è arrivata dall’idea per un libro alla pubblicazione.

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Il libro di Irene Graziosi.

VICE: Ciao Irene. In questi ultimi mesi sei stata presa dal tour di presentazioni. Come è andata? 
Irene Graziosi:
Mi piace, ma è faticoso: i treni, le pubbliche relazioni, le cene. Il fatto che torni a casa solo per un giorno e lo passi a fare lavatrici. Poi c’è anche questa cosa: ho terminato il manoscritto quasi due anni fa (poi ci sono stati i vari editing e le correzioni) e da allora mi sento molto cambiata, quindi è strano parlare tanto di una cosa che percepisci lontana nel tempo. 

Ecco, torniamo all’inizio. Come è nato questo romanzo e come ti sei mossa per trovare una casa editrice? O sono stati loro a proportelo?
No, nessuno me lo ha proposto [ride]! Quando ho conosciuto Sofia mi ero da poco laureata, ero molto ingenua, ed entrare nel mondo “delle influencer” dall’interno fu piuttosto sorprendente. Oggi probabilmente se entrassi, che ne so, nel mondo della moda, non mi stupirebbe il fatto che abbia anche un lato oscuro. Ma allora ne fui colpita, quindi buttai giù 30 pagine con l’abbozzo di una storia ambientata in quel mondo e cominciai a mandarlo a persone che lavoravano in case editrici e che avevo conosciuto scrivendo su varie riviste o appunto lavorando con Sofia Viscardi su Venti. E dopo un po’ di tempo mi ha contattata Eva Ferri, editor di E/O, chiedendomi di farlo con loro. 

Ti ho domandato se fossero stati loro perché è un’opinione abbastanza diffusa che per esordire oggi in Italia sia un po’ complesso mandare manoscritti in giro, e che spesso è molto meglio farsi conoscere scrivendo su riviste letterarie e non. Perché poi sono gli editor a contattarti per chiederti se hai qualcosa nel cassetto…
Hai ragione. Infatti io consiglio sempre—a quelli che mi chiedono cosa fare se si vuole scrivere—di cominciare dalle riviste. Un po’ perché è come dici tu, e un po’ perché comunque avere anche altro da fare è sano. Quante persone campano solo scrivendo romanzi in Italia? Forse una manciata? Poi è stato proprio grazie agli articoli sulle riviste che sono stata contattata da quella che ora è la mia agente letteraria. 

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Torniamo all’iter di pubblicazione: E/O quindi si dimostra interessata. A quel punto ti hanno dato una scadenza per il resto del romanzo? Come hai gestito il fatto di dover trovare anche tempo per scrivere seriamente, oltre al lavoro?
Me ne hanno data una molto blanda. Perché comunque eravamo d’accordo che non avremmo firmato alcun contratto fino a che non avessi in mano qualcosa di solido. Il primo periodo è stato molto deprimente. Continuavo a leggere queste interviste che Vanni Santoni aveva fatto ad alcuni scrittori sul loro metodo di lavoro, per farmi ispirare, ma ognuno seguiva un percorso diverso. Gli uomini dicevano “mi sveglio presto al mattino”, le donne “ho 60 figli, scrivo nel weekend.” Quindi a un certo punto ho capito che dovevo semplicemente fare quello che mi sentivo, lavorando al libro quando mi veniva spontaneo.

Ho letto in un’intervista che ti ci sono volute tre stesure prima di trovare il tono giusto…
Sì. Nella prima la protagonista aveva una voce troppo simile alla mia e non riuscivo ad andare avanti. Nella seconda ho provato la terza persona, ma non mi girava nemmeno quella. Durante la pandemia, in un momento in cui odiavo tutti e tutto, di colpo mi è venuta la voce di Maia (la protagonista) e ho capito subito che funzionava. Forse è proprio perché stavo passando un momento di quel tipo che è venuta fuori così stronza [ride]. 

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Com’è effettivamente scrivere un romanzo? Cosa provi mentre ci lavori?
Ci sono state diverse fasi. La prima, come ti ho detto, piuttosto deprimente. Una volta che ho trovato la strada giusta, però, sono stata come risucchiata dal romanzo: passavo quasi tutto il mio tempo ad immaginarmi come vivevano i protagonisti, cosa pensavano, cercando di sfruttare al meglio le ore a disposizione che avevo per lavorarci, quando avevo ben chiaro cosa scrivere. Ricordo che c’erano queste giornate in cui, dopo ore al computer, uscivo col mio ragazzo per comprare le sigarette, e lo tartassavo di domande sui vocaboli migliori dai da usare per dire questa o quella specifica cosa. “Come si dice quando una persona…?”. Poi c’è stata tutta la parte dell’editing, molto diversa ma anche molto bella.

Una volta ho letto in un saggio di Zadie Smith che esistono due tipi di scrittori: i macropianificatori, che immaginano ogni parte del libro prima di scrivere, e i microgestori, che compongono la trama via via che scrivono. Tu che tipo sei?
Sicuramente non una macropianificatrice, ma non vado nemmeno di puro intuito. Alla fine ho trovato un metodo mio: pensare e ripensare a una determinata scena del romanzo per giorni, mentre facevo la spesa o mi lavavo i denti, e poi sedermi di fronte al computer quando era il momento, per buttare giù l’intreccio. Ho scoperto che poi, portata a termine quella parte della trama, i presupposti per pensare al prosieguo c’erano sempre. Quindi ho continuato così: riflettere su come le cose potevano andare, e poi sedermi a scrivere quando avevo ben chiara la situazione. E poi devo dire che a un certo punto i personaggi vanno da sé. Non ho saputo fino all’ultimo come sarebbe finito il romanzo. 

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Qual è la parte più piacevole della scrittura, secondo te?
Io avevo molta paura a inventarmi la trama, perché magari sarebbe venuta uno schifo. Invece ho scoperto che è la parte più naturale: le scene totalmente immaginate del libro sono quelle fluite più rapidamente e più soddisfacenti. È stata quella la scoperta piacevole.

Parliamo invece delle cose non inventate. Tu hai descritto in modo piuttosto duro una realtà a cui hai tutt’ora accesso, che riguarda il tuo lavoro. Non avevi paura che qualcuno si incazzasse? 
Non mi interessava. Alla fine raccontare una storia è dare una versione delle cose, che può anche comprendere le mie opinioni oppure le può gonfiare, distorcere a seconda del personaggio e via dicendo. E poi cosa dovrebbe succedere se qualcuno si incazzasse? Mentre scrivevo il mio rapporto coi social è totalmente cambiato: mal sopporto internet, mal sopporto Instagram. Mi interessava mostrare quanto fosse finto quel mondo. Con tutti quei termini e concetti banali e retorici, che le persone ripetono a pappardella solo perché li vedono ovunque e vogliono sentirsi accettate. 

Mi dicevi prima che ti è piaciuta molto la fase dell’editing. Perché? 
È stata forse la parte più bella, perché è un lavoro di distanziamento dal testo e ti permette di vederne le ingenuità. Molti si immaginano la scena dell’autore che soffre ad ogni taglio dell’editor, io invece avevo il problema contrario. Gli dicevo “ti prego questo tagliamolo!” e lui “no dai tienilo.”

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Quando hai finito il libro cosa hai provato?
È stato meraviglioso. Dall’ultima correzione di bozze fino alla pubblicazione ho finalmente avuto la mente sgombra, dopo un sacco di tempo. 

Come vivi le critiche? 
Alcune sono incredibilmente divertenti. Su Dagospia un tizio, questo 60enne che ha scritto un libro su internet, mi ha fatto una stroncatura micidiale: l’ho adorata. In generale dipende da come sto in quel momento: a volte bene, a volte male. Però sono interessata alle critiche acute, argomentate, che danno spunti di riflessione anche a me su quello che ho fatto. 

Hai già qualcosa di nuovo su cui stai lavorando? 
Mah, sì e no. 

Cosa consiglieresti a chi vuole esordire? 
Di non crearsi troppe aspettative, perché scrivere dovrebbe essere una forma di libertà e non un’ansia sociale. Di mandare il materiale alle agenzie letterarie quando hanno in mano qualcosa di concreto, perché sono una prima selezione. E poi di farsi leggere dagli altri, per avere feedback. E se qualcuno ti chiede di essere pagato per pubblicare, stai pur certo che è la strada sbagliata.