FYI.

This story is over 5 years old.

Macro

Cosa sta succedendo alla borsa cinese?

Negli ultimi 20 giorni, senza che nessuno se ne accorgesse, la borsa cinese ha bruciato 3.900 miliardi di dollari—oltre 15 volte il PIL della Grecia. Cosa succederà adesso che il crollo sembra essersi arrestato?

Foto via Flickr/AK Rockefeller

Questo post fa parte di Macro, la nostra serie su economia, lavoro e finanza personale in collaborazione con Hello bank!

3.900 miliardi di dollari—ecco quanto la borsa di Shanghai, il principale mercato finanziario della Cina, ha bruciato in 20 giorni. Una cifra pari al prodotto interno lordo della Germania e oltre 15 volte quello della Grecia.

Mentre in Europa si litigava e i capi di governo si dividevano sulla sorte di Atene, dall'altra parte del mondo partiva un terremoto di dimensioni mai viste—il peggiore crollo finanziario degli ultimi due decenni, e non ce ne siamo nemmeno accorti. Ora le cose sembrano andare meglio: da giovedì 10 luglio il crollo si è interrotto e lo Shanghai Composite Index—il principale indice azionario della borsa di Shanghai—ha recuperato in soli tre giorni oltre il 10 percento, chiudendo oggi con un attivo del 2,4 percento.

Pubblicità

Questo non vuol dire però che l'economia mondiale non abbia corso dei rischi, o che non ne stia correndo tuttora. Ecco com'è andata e cosa dobbiamo aspettarci.

La sede centrale della Banca Popolare Cinese. Foto via

Wikimedia Commons

Fase 1: il divorzio dalla realtà

Fino a giovedì 12 giugno, in Cina andava tutto bene. L'indice di Shanghai aveva chiuso le contrattazioni in positivo, a indicare che gli acquisti di titoli superavano le ampiamente vendite, per 935 giorni consecutivi. La fiducia era altissima e solo nell'ultimo anno il valore complessivo dei titoli era aumentato del 150 percento, un rialzo pari a circa 6.500 miliardi di dollari che aveva condotto la piazza a un valore totale di quasi 10.000 miliardi.

Il governo cinese invitava i cittadini a giocare in borsa, nelle televisioni di stato si parlava continuamente di quanto fosse facile fare soldi in quel modo e le "success story" si susseguivano senza soluzioni di continuità. Intanto la Banca Popolare Cinese continuava a tagliare i tassi di interesse, per incentivare la speculazione. Così, nel solo mese di maggio del 2015 sono stati aperti circa 12 milioni di conti titoli—più dell'intera popolazione greca. Il numero degli "speculatori"—spesso semplici cittadini appartenenti all'enorme classe media cinese—ha toccato i 90 milioni di persone, superando persino quello degli iscritti al Partito Comunista Cinese.

Tuttavia, come tutte le bolle finanziarie, anche questa allontanava gli andamenti di borsa dalla realtà dell'economia—che non andava così bene come i corsi finanziari suggerivano. Anche se il suo tasso di crescita è ancora altissimo rispetto a quelli a cui siamo abituati in Europa e in Italia, negli ultimi trent'anni l'economia cinese è in netto rallentamento: così, le prospettive di profitto delle imprese nelle quali si investiva erano molto minori rispetto al denaro investito. Un titolo mediano sulle piazze cinese era arrivato a valere 85 volte i suoi guadagni attesi, quattro volte più di quanto accade oggi a Wall Street. Si trattava di un chiaro segnale dell'esistenza di una bolla, che come tutte le bolle era destinata a scoppiare.

Pubblicità

La borsa di Shanghai. Foto

via Flickr/Aaron Goodman

Fase 2: il crollo

Una bolla finanziaria è come una partita al gioco delle sedie musicali. Tutto va bene finché la musica continua a suonare—ovvero, finché il denaro continua a circolare. Quando la musica finisce, bisogna sedersi—ovvero vendere—il prima possibile, e c'è sempre qualcuno che rimane inevitabilmente fregato.

Questo è esattamente quello che è iniziato lo scorso 12 giugno. All'improvviso la fiducia nel fatto che i prezzi sarebbero continuati a salire è crollata, ed è iniziata la corsa alle vendite—dando origine al crollo a cui abbiamo assistito, che ha lasciato il mondo intero con il fiato sospeso. In 20 giorni di contrattazioni, l'indice di Shangai ha perso il 32 percento del suo valore; quello di Shenzhen—il secondo indice cinese, relativo alle imprese più tecnologiche e avanzate—è andato ancora peggio e ha perso il 41 percento. In totale, il mercato cinese ha quindi perso la metà di quanto aveva guadagnato in un intero anno. La volatilità—cioè lo spettro di variazione dei prezzi, una delle principali fonti di vulnerabilità di un mercato—è arrivata ai livelli più alti dal 2008, cinque volte più alta di quella registrata sul principale indice statunitense, lo Standard&Poor's 500.

Uno dei principali motivi del crollo sta nel fatto che la bolla era in realtà guidata dalle cosiddette "margin call," ossia acquisti di titoli con denaro preso a prestito—che è un po' l'equivalente di continuare a correre nel vuoto quando è finita la strada, come faceva Wile E. Coyote. Si tratta di una delle pratiche più rischiose sui mercati. Finché i prezzi salgono il gioco vale la candela, e per ripagare gli interessi sul denaro preso a prestito basterà vendere le azioni acquistate che nel frattempo avranno guadagnato valore. Ma quando i prezzi smettono di salire, inizia il crollo.

Pubblicità

Secondo Credit Suisse, prima del 12 giugno il valore totale dei fondi presi a prestito e investiti sui mercati cinesi si attestava tra i 350 e i 500 miliardi di euro, per un aumento del 500 percento nel giro di appena 12 mesi. Quando la bolla è scoppiata, i broker che avevano prestato denaro hanno immediatamente voluto rientrare dai propri crediti, forzando i piccoli investitori a vendere le proprie azioni per poter ripagare i propri debiti e coprire le perdite inflitte dal crollo. Questo ha ovviamente portato a un circolo vizioso di vendite, che ha generato un panico che fino a giovedì scorso nessuno sembrava in grado di fermare e che stava iniziando a contagiare altri mercati asiatici.

Skyline di Shanghai. Foto

via Flickr/Geee Kay

Fase 3: la ripresa

Attraverso la Chinese Securities Regulatory Commission (CSRC, ossia l'istituto che controlla l'andamento delle borse) il governo di Pechino ha fatto di tutto per impedire il crollo, in un'escalation di interventi che solo giovedì 9 luglio ha portato qualche risultato.

All'inizio, il governo ha tentato di rendere più restrittive le regole sulla concessione dei prestiti, come del resto aveva già iniziato a fare dall'inizio dell'anno. Quando poi si è reso conto che la cosa non poteva funzionare, il governo di Pechino ha subito cambiato strategia.

Il 27 giugno, la Banca Popolare Cinese ha tagliato i tassi di interesse e modificato gli obblighi di riserva, per rendere ancora più facile investire. Mentre il mercato continuava a crollare, il 1 luglio la CSRC ha reso ancora meno restrittive le regole sulla concessione dei prestiti. L'obiettivo era di soffiare nella bolla per sostenere i corsi finanziari, ma neppure questa strategia ha funzionato.

Pubblicità

Così, nei giorni successivi, sono state sospese dalle contrattazioni 1439 compagnie—circa le metà degli indici quotati— congelando di fatto il mercato. Inoltre è stata vietata la vendita di titoli da parte dei principali azionisti delle aziende quotate e bloccate le vendite allo scoperto per interrompere la spirale di panico. Altre misure sono state messe in atto per incentivare gli acquisti: anche su pressioni del governo, un gruppo di 21 broker ha messo in campo una misura da quasi 20 miliardi di euro grazie a fondi della Banca Popolare Cinese, mentre i manager di oltre 25 fondi d'investimento hanno dichiarato che avrebbero comprato azioni con la promessa di non venderle per almeno un anno.

Infine, il governo cinese aperto un'inchiesta per cercare i responsabili del crollo, che potrebbero essere accusati di aver agito contro la patria—non proprio un'accusa simpatica simpatica in un paese come la Cina. La risposta immediata e aggressiva del governo cinese—che avrebbe anche potuto usare le sue enormi riserve in dollari per fare direttamente acquisti se la situazione non fosse migliorata—ha calmato i mercati, che si sono convinti del fatto che il governo non avrebbe mai accettato una continuazione del crollo borsistico. Tra giovedì e lunedì la ripresa è stata netta: sul mercato sono stati iniettati oltre 13 miliardi e Shanghai ha registrato il più grande rialzo in sette anni.

Una statua in onore della rivoluzione cinese. Foto

via Flickr/Benjamin Lyons

Pubblicità

Fase 4: e ora?

Per il governo cinese, un crollo finanziario rappresenta un danno incalcolabile—prima di tutto perché rappresenta uno scricchiolio potenzialmente devastante nella transizione al mercato che ha portato molti cinesi al benessere. Ma non è solo una questione d'immagine: per la prima volta dopo anni il governo ha ammesso che, come risultato di una serie di problemi strutturali, l'economia cinese quest'anno crescerà meno di quanto previsto.

Nel 2015 non si riuscirà a raggiungere quel 7 percento che è l'obiettivo di Pechino e sotto il quale l'economia nazionale, e quindi il paese intero, rischia di diventare ingovernabile—perché si verrebbe a rompere quel patto implicito per cui il Partito Comunista regge le sorti della Cina in cambio di una vertiginosa crescita economica. La vita stessa del governo è legata a doppio filo a questi risultati, e non sono in pochi a sostenere che la carriera politica del primo ministro Li sarebbe destinata a finire precocemente se non dovesse ottenere una crescita del 7 percento nel 2015.

In questo senso, un crollo finanziario sostenuto non farebbe che aumentare le vulnerabilità del paese—prima di tutto perché i 90 milioni di piccoli investitori sentiranno sul proprio bilancio le perdite di questi giorni, e potrebbero diminuire i propri consumi. Un ulteriore danno sarebbe causato dalla perdita di fiducia nei confronti della borsa, che il governo cerca da anni di stimolare.

Il fronte più delicato è però rappresentato dalle banche, che hanno fatto la loro parte—a volte anche in modo illecito—nel gonfiare la bolla. Un crollo finanziario potrebbe portare perdite rilevanti anche alle banche e quindi avere riverberarsi negativamente sulla cosiddetta "economia reale"—rallentando ulteriormente la crescita economica e portando a problemi sociali, politici ed economici.

La situazione, insomma, è tutt'altro che tranquilla. Nella giornata di oggi, chiusa positivamente, sono ripartite le contrattazioni per 400 dei titoli sospesi, ma il 36 percento circa del mercato è ancora congelato e non è chiaro cosa succederà quando questi titoli torneranno a poter essere oggetto delle contrattazioni. Secondo Bhaskar Laxminarayan, analista di Pictet Wealth Management, "qualsiasi ripresa avrà vita breve: il mercato cinese può crollare ancora di un 15-20 percento rispetto ai livelli attuali." La bolla, insomma, non si sarebbe ancora sgonfiata del tutto.

Segui Nicolò su Twitter