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Giugno 1978, Alpicella, Varazze. Cerchio di massaggio al primo Festival Pop "Corpo Natura." Tutte le foto per gentile concessione di Italo Bertolasi.
Cultura

Foto inedite degli 'hippie italiani' e dei loro viaggi mentali e fisici

Dagli anni Settanta, Italo Bertolasi ha fotografato il movimento underground italiano, la "ribellione dei corpi," e i suoi "hippie trail."
Vincenzo Ligresti
Milan, IT

Alla fine della seconda metà degli anni Sessanta, in via Gian Battista Vico, nei pressi del carcere milanese di San Vittore, un gruppo di ragazze e ragazzi sulla ventina fonda una comune in un grande appartamento abbandonato. Lo stesso succede in altre parti d’Italia e d’Europa: è la primavera dei movimenti e della controcultura underground trainata dall’arrivo della Beat Generation, che negli Stati Uniti aveva trovato le sue massime espressioni nell’avversione alla guerra in Vietnam e negli hippie di Woodstock.

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In sostanza, la riluttanza verso le norme di una società conservatrice e sessuofoba fa scaturire nelle nuove generazioni la voglia di sperimentare con l’amore, le arti, i viaggi mentali e fisici alla ricerca di un “Oriente” in realtà poco conosciuto.

“È proibito proibire. Fate l’amore non fate la guerra. Godetevela senza Freni.” “Il padrone ha bisogno di te, tu non hai bisogno di lui. La fantasia al potere.” “Ci sono state solo due rivoluzioni mondiali. Una nel 1848. La seconda nel 1968. Entrambe hanno fallito. Entrambe hanno cambiato il mondo.” Questi sono alcuni slogan del tempo che si leggono nei libri fotografici autoprodotti Angeli Nudi e Il Mio Io Selvatico di Italo Bertolasi (classe 1946, fotografo, scrittore, bodyworker, viaggiatore), che intorno ai vent’anni si trasferisce proprio nella comune di Via Vico, che userà in realtà più come base di ritorno dai suoi lunghissimi viaggi.

Italo, infatti, è uno dei primi italiani a iniziare il “suo pellegrinaggio in Oriente,” detto in gergo hippie trail. Che però nel suo caso non è mai davvero finito: dalla fine degli anni Sessanta in poi—oltre a documentare comuni, Pop Festival, manifestazioni, corpi nudi tra i boschi—Italo viaggia e racconta la vita e la cultura sciamanica dei popoli dell'Hindu Kush (tra Afghanistan e Pakistan), di Himalaya (Nepal), Cina e Giappone.

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Per vicissitudini che probabilmente definirebbe “karmiche,” ho conosciuto Italo e ci siamo fatti una lunga chiacchierata. Qui sotto trovate un sunto di una vita con aneddoti piuttosto incredibili—e anche se convenzionalmente il movimento finisce nel ‘78, un po’ come l’esperimento della comune di via Vico, lui sembra a tratti ancora lì.

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25/26 settembre, 1971. Festival di Ballabio. Make up prima delle danze. Tutte le foto per gentile concessione di Italo Bertolasi.

L’intervista è stata editata per questione di spazio e chiarezza.

VICE: Ciao Italo, partiamo dal principio. Mi racconteresti un po’ come e quando ti sei avvicinato alla cultura underground?
Italo Bertolasi:
Be’, diciamo che la mia generazione ci è caduta dentro. Negli anni Sessanta e Settanta, se eri giovane e curioso, attento alla politica e alle arti, era impossibile sfuggire a quel clima di ribellione che si respirava. Il mondo in cui eravamo cresciuti era terribile: frigido, sessuofobo, patriarcale, in cui la chiesa imperava. 

Era un movimento quasi mondiale, un’onda arrivata anche grazie a testi—alcuni tradotti da Fernanda Pivano—come Siddharta, L’Urlo, Sulla Strada di Jack Kerouac, di cui si conosce l’aspetto “etilico-drogato,” ma che in realtà era un grande spiritualista e ha contribuito a farmi diventare un viaggiatore.

Diciamo che intorno al Sessantotto c’è stato un passaggio intermedio: sei “scappato” nel pieno dei tuoi 20 anni a Milano.
La fuga è uno dei grandi temi del viaggio. Provenivo dal Sud Tirolo, in Alto Adige, un posto con famiglie conservatrici e regole rigide. Andare a Milano, dipingermi le scarpe di vernice rossa e farmi crescere i capelli, per me è stato l’inizio di un cambiamento profondo. Ho incontrato la mia amica Dinni Cesoni, iniziato a vivere insieme a lei e altri ragazzi nella nostra comune urbana di via Vico, dove si metteva quello che si aveva a disposizione di tutti, e a frequentare il quartiere di Brera.

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hippie italiani

“Noi e loro nell’isola della cultura underground a Brera.” Primavera 1972, Milano.

Brera—oggi uno dei quartieri più posh di Milano—era proprio in quegli anni il “centro” del movimento. Com’era all’epoca?
Era una specie di “sala d’aeroporto,” dove arrivavano ragazzi e ragazze fin dalla Sicilia, sostavano ore, qualche settimana, venivano accolti nelle comuni. Ci trovavi artisti, pittori, modelle dell’accademia di Belle Arti, gli anarchici, i musicisti, ma anche gli spacciatori, le iconiche prostitute di via Fiori Chiari, i ladri che vendevano cose sottobanco, come le macchine fotografiche. 

C’era anche un grosso controllo: Brera alla fine era un “ghetto”, dove arrivavano i poliziotti a fare ogni tanto i fogli di via. Ma anche sociologi, antropologi e giornalisti, perché eravamo molto trendy. “Capelli lunghi, amore libero, sex, drugs and rock & roll.” Tutte cose che attiravano i “mosconi”, che poi quasi sempre ne parlavano male.   

Quindi la tua prima macchina fotografica l’hai comprata a Brera?
La primissima qualche anno prima. Verso i 14 anni mi ero appassionato a una rivista, si chiamava Ferrania e raccontava la fotografia italiana in bianco e nero e a colori. Producevano anche macchinette di plastica e pellicole, relativamente economiche. Ho iniziato così, povero ma alla grande. 

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Poi, quando sono arrivato a Milano, dove ho potuto osservare i più grandi—Berengo Gardin, Aldo Ballo, Ugo Mulas—ho comprato la mia primissima macchina americana. Si chiamava Topcon, e aveva una cosa fantastica: una specie di mirino che potevi togliere dalla macchina, grazie al quale riuscivi a fotografare senza dare nell’occhio.

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1975/1977, Comune anarchica "Il Fabbricone," Milano.

Eppure foto dell’epoca—a parte le solite di Parco Lambro e dei Festival—non ce ne sono moltissime. Per dire, della tua comune non c’è mezza foto.
Perché all’epoca c’era un sentire strano: fotografare era considerato da coglioni. Nel senso che venivi accusato di essere uno che guardava e non faceva. La fotografia ricordava ancora i ritratti di famiglia, era più da momenti ufficiali. I momenti privati erano considerati da vivere e basta.

C’era anche un po’ una ossessione, giustificata in certi contesti, che le fotografie potessero diventare delle prove. Una volta durante una occupazione studentesca all’Università Statale di Milano, dove frequentavo Filosofia, la polizia mi ha sequestrato la macchina fotografica. Per fortuna, un attimo prima avevamo seppellito i rullini al sicuro.

Da esperienze del genere è poi nato il mio stile fotografico, fatto di muse, pose, natura, primi amori, ribellione del corpo. Questa scelta mi ha allontanato dal cosiddetto professionismo, dove invece spesso si fotografa tutto con molta indecenza e mancanza di rispetto per il sentire dell’altro.

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Mi accennavi al fatto che nella comune urbana in via Vico in realtà ci stavi poco, perché hai iniziato a viaggiare e hai continuato per tutta la vita. Ma partiamo dalle basi: per chi non lo sa, cos’era un “hippie trail”?
Era una fuga dalla vita standard che volevano farci fare. Significava collocare sogni, utopie, visioni in luoghi lontani. Ci riferivamo spesso a un Oriente, decantato in parte da Hermann Hesse, che in effetti non conoscevamo.

Era tutto sperimentale: avevamo grandi energie, ma non sapevamo davvero cosa stessimo facendo. Frequentavo Filosofia, avevo letto Levi-Strauss, ma non era sufficiente. Per alcuni il viaggio ha coinciso con l’esplorazione di culture, per altri entrare in monasteri e convertirsi. Per quanto mi riguarda, durante il mio primo viaggio sono finito a fondare una comune transculturale in Pakistan.

Sciamani. Anni Novanta.

Malang, Sufi e Dervisci nei deserti del Beluchistan, in Pakistan (1980). “Lo sciamanesimo è in crisi. Agli inizi degli anni Novanta ritornando tra i Kafiri dell’ Hindu Kush afgano ho incontrato un solo Dehar. Il loro sciamano. Vent’anni prima ne avevo contati una dozzina. I giovani non salgono più in montagna per diventare “batcha” (re) e “dehar” (sciamani) e per farsi sedurre dalle “suchi”, le bellissime fate custodi dei laghi sacri. In Nepal gli sciamani “Bon Po”, accusati di stregoneria, sono stati decimati dai lama buddisti con una vera e propria caccia ai demoni, alle streghe e ai maghi neri che ricorda la nostra medioevale inquisizione. Nelle alte valli himalayane sopravvivono oggi poche migliaia di guaritori “Jhakri”. Testo tratto da “Il mio io selvatico.”

Come hai preso questa decisione?
È stata una cosa karmika. A Brera passavano anche i viaggiatori, e ho conosciuto Raffaele Favero, batterista de I Profeti, un complesso etno-rock d’avanguardia. Era già stato in Pakistan, dove aveva conosciuto un mistico che lo aveva condotto fino al Waziristan, una zona complicata e impraticabile al confine con l’Afghanistan. Lì gli aveva regalato un pezzo di terra e detto che avrebbe dovuto creare “una comunità composta da tutte le razze e culture.”

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Così è nato il mio primo viaggio—durato quasi due anni, dal ‘69 al ‘70—organizzato coi pochi soldi che avevo. Abbiamo innanzitutto coltivato piante di eucalipto, adatta ai terreni montagnosi e desertici. Poi sono arrivate altre persone, e anche altri italiani. La comune è andata avanti fino a quando non ci siamo scontrati con le nostre imperizie ed è naufragata. Ricordo però quel periodo con grande contentezza: ho pregato e danzato nei deserti, provato un senso di appartenenza e riconoscenza.  

C’è da specificare anche che prima degli anni Settanta Iran, Afghanistan e Pakistan si potevano attraversare senza grosse complicazioni, e nei villaggi si veniva accolti con simpatia. Anni dopo, l’invasione sovietica dell’Afghanistan e la rivoluzione iraniana avrebbero reso per chi voleva tornare tutto un po’ più complesso. L’ultima volta che sono stato in Afghanistan era il 2004, ed era tutto profondamente cambiato.

Ma, quindi, come sei ritornato da quel tuo primissimo viaggio?
Sfasciato. Dopo l’esperienza della comune, mi sono avventurato da solo in India, fino al Kashmir. Mi sono così ammalato di malaria, e poi per un mese circa ho vissuto di elemosina per strada. Sono comunque cose che mi sono capitate in modo “aristocratico”, nel senso che se fossi rimasto a casa mia non mi sarebbe successo niente. Non era la povertà di un mendicante. 

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Il viaggio è terminato con una serie di autostop. È stata davvero un’odissea, che mi ha dato un sacco di forza e fatto tornare alla comune a Milano sfasciato sì, ma anche trasformato e in un certo senso guarito.

Poi ci sono stati tutti gli altri viaggi, stavolta portando sempre con te la macchina fotografica, la mitica Topcon. 
Sì; nel ‘71, dopo essermi imbattuto in una immagine di una donna bellissima che danzava in Paropàmiso. Nella terra dei Kafiri dell’antropologo Fosco Maraini, sono partito proprio per fotografare i Kafiri, una straordinaria popolazione dagli occhi azzurri nel Kafiristan [una regione dell’Hindu Kush].

Poi, al mio ritorno in Italia, sono riuscito a vendere le mie foto a un importante magazine di geografia per parecchi soldi. La notizia ha stupito i miei fratelli e sorelle della comune, che hanno compreso che la fotografia avesse un valore e potesse essere un lavoro. Per anni, le foto mi hanno permesso di continuare a viaggiare.

In seguito c’è stato il Nepal, coi popoli sherpa, le alte cime e i Sufi, che spesso sono anche fabbri, erboristi, risolutori di conflitti. Erano donne e uomini da ammirare, di cui ho sperimentato la competenza e vicinanza.

Poi, ancora, ci sono stati i viaggi in Indonesia, Giappone, California. Sono stato svariate volte in questi luoghi. È un viaggio che non è mai finito, e spero di poter affrontare il prossimo.

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Tra i Kafiri dell'Hindukush, Pakistan, 1990. Tribù Mai islamizzata che resiste in piccole comunità sparse in tre valli del Chitral.

Molte tue foto—scattate dopo gli anni d’oro del movimento underground—mostrano nudi in foreste e cascate, raduni di gente che si spogliano nelle zone più disparate d’Italia, come in Val di Mello. Nei tuoi libri parli di “bagni di foresta,” mi spiegheresti cosa sono e come sono nati?
Tutto parte dal Giappone, dove si venerano da sempre alberi e foreste: nell’82 Tomohide Akiyama, direttore dell’agenzia forestale, conia il termine “Shinrin-yoku” (i bagni di foresta) per descrivere una pratica di immersione meditativa e salutista nella natura, che verrà promossa in un programma di salute pubblica nei boschi di cedri centenari nel villaggio di Akasawa.

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Agosto 1990, Doroyo Olsen, Giappone. Doccia meditativa sotto la cascata Taki No Yu.

In Giappone ho frequentato gruppi di teatro che praticavano con più tecnicismo l’esercizio sciamanico e avuto contatti con la Japan Green Federation [un movimento ecologista fondato negli anni Ottanta]. Per me, studiare e provare i bagni di foresta in Giappone è stato un ritorno alle origini: da bambino correvo e danzavo nudo nei boschi in Alto Adige. Ho trovato della coerenza.

Nel frattempo, i giornali italiani iniziavano a occuparsi del cosiddetto New Age, del mondo mistico e delle persone che avevano frequentato gli sciamani e avevano sperimentato le meditazioni venivano corteggiate. Sono stato tra i primi in Italia, al ritorno dei miei viaggi, a proporre camminate, bagni di foresta e cascate in stile giapponese. 

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Giugno 1986, Val di Mello, Sondrio. Stream Dance, da un filmato di Italo Bertolasi.

Nelle tue foto di nudo le tue modelle e i tuoi modelli sembrano molto a loro agio. 
Quando entri in un ambiente protetto, puoi spogliarti e scoprirti a tuo agio in mezzo alla natura selvaggia. Di qualsiasi forma ed età, il corpo umano è bello e va celebrato.

Ti dirò di più: una volta a Ginostra c’erano due suore in un gruppo organizzato. Me la facevo un po’ sotto perché tutti stavamo nudi, mentre loro erano rimaste in costume.

Poi però, per caso, ho trovato un po’ defilata la più anziana, totalmente nuda su una roccia a godersi il sole. Quando si è accorta della mia presenza mi ha detto: “Devo proprio dirvi che vi ammiro per la vostra purezza.” È il miglior complimento che abbia mai ricevuto. Dobbiamo avere il coraggio, come lo hanno avuto i nostri maestri, di proporre tutte quelle cose che sono etiche ma che vanno contro regole rigide.

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Giugno 1978, Alpicella, Varazze. Cerchio di massaggio al primo Festival Pop "Corpo Natura."

Mettendo in conto che hai dovuto trovare anche il modo di campare e guadagnare, mi sembra però che tu abbia sempre cercato di vivere tutte le tue fasi della vita mediante la lente di libertà del movimento uderground. 
La giovinezza è stratosferica e piena di sogni, poi c’è l’età adulta in cui si fanno le cose che hanno senso e infine c’è la senescenza dove si sclerotizza tutto. Durante questo percorso, l’imprinting di quell’era di sogni, progetti e utopie è rimasto.

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Crescendo, inoltre, si cambia e ci si appassiona a cose diverse. Nel mio caso ho messo un po’ da parte la macchina fotografica. Mi sono messo prima a praticare Watsu—un bodywork in acqua che prima si praticava nudi, ma che adesso è una moda da provare in costume. Poi mi sono dato al volontariato in mezzo ai giovani, sul modello del medico-clown Patch Adams.

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Aprile 1992, Montegrotto Terme, Padova. Water Shiatsu con Harlod Dull.

Chi sta leggendo questo articolo probabilmente aspetta da un po’ il momento in cui racconti anche come si viveva ai tempi d’oro del movimento il rapporto con le sostanze—come le esperienze con LSD che facevate nella vostra comune urbana con una guida—e l’amore libero.
Molti andavano alla ricerca di psichedelici a Kabul o Kathmandu [la capitale del Nepal]. C’era chi finiva nei traffici di droga, chi invece come noi andava verso la psichedelia. Per quanto riguarda l’amore, ammetto che all’inizio era più mostrato che praticato. Non ne sapevamo nulla, non esisteva nessuna educazione sessuale, e in una prima fase ci sono stati anche molti aborti clandestini [la legge 194, che legalizza l’aborto, arriva nel 1978].

A un certo punto, poi, la situazione è stata molto fluida. Sono nati incontri nei momenti di meditazione, lungo i viaggi, ma anche grandi storie d’amore. In generale, cercavamo sempre di tenere la barra alzata. La parola utopia, a nostro modo, voleva dire porsi obiettivi che nessuno prima si era posto.

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A tal proposito, la fine dell’utopia un po’ per convenzione viene fatta coincidere con i disguidi dell’ultimo Parco Lambro, l’arrivo dell’eroina, l’estremismo politico, l’omicidio di Aldo Moro nel ‘78. Anche molti dei luoghi che hai visitato sono cambiati. Pensi che lo spirito underground esista ancora in qualche forma?
Resistono alcune realtà ecologiche. Tutto è ciclico. Ma, poi, li vedi tutti questi ragazzi che manifestano ai Pride o per salvare il pianeta? Sono tutti miei figli, spiritualmente parlando.

Scorri in basso per vedere altre foto.

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Bagno di foresta nei boschi del Cansiglio, tra Veneto e Friuli.

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Ottobre 1977/febbraio 1978, Milano. Centro Sociale “Macondo,” contenitore di arte e ribellione che ha accolto minoranze e poeti come Allen Ginsberg, André Gluksmann.

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Pellegrinaggio al monte Yudono, Yamagata, Giappone. La fila di monaci Yamabushi sale in vetta per celebrare il Mazuri, il festival del monte sacro.

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1975/1977, Comune anarchica "Il Fabbricone," Milano.

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Pratica del "Bagno di foresta,” estate 1980. “Di fronte al ghiacciao del Monte Rosa, purificati dal silenzio, si entra nella quiete di un Buddha.”

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"La meditazione di specchiamento con l'albero." A sinistra nel Parco del Ticino, a destra nell'isola di Big Island, Hawaii, 2010.

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Giappone, Agosto 1984. Pellegrinaggio annuale al vulcano sacro Ontake San, nel cuore delle Alpi Giapponesi.

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26 giugno 1976, Parco Lambro, Milano, "Re Nudo Festival."

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Bali, 1982. Si danza nelle risaie per dar energia alla terra, all'aqua, al sole e al riso sacro e prezioso.

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