Salute

Mi sono trasferito all'estero per cambiare, ma non mi sono mai sentito così solo

Dopo essermi trasferito da Milano a Rotterdam, il mio umore è colato a picco. Era possibile che una persona relativamente privilegiata come me fosse depressa per quello?
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Tutte le foto per gentile concessione dell'autore.

Nel 2016 facevo il freelancer a Milano, vivevo con il mio ragazzo americano che aveva il permesso di soggiorno scaduto e insieme non avevamo abbastanza soldi per un altro mese d’affitto, ma ne avevamo abbastanza per un treno di sola andata. Sua sorella ci avrebbe ospitati in Olanda, che era l'unico paese in cui la nostra relazione era riconosciuta come legittima senza matrimonio. In questo modo lui avrebbe ottenuto tutti i privilegi di cittadino europeo attraverso di me e, non essendo costretto a tornarsene oltreoceano, sarebbe stato più facile restare insieme.

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Così, nel giro di pochi giorni, pensammo di trasferirci. Quello che sapevo sull’Olanda era quello che sanno tutti: mulini, cannabis e tulipani. Ma non potevo immaginare che lo shock culturale, cioè quelle sensazioni di ansia e smarrimento che tutti proviamo a vari livelli nel trasferirci in un paese diverso, sarebbe durato più del dovuto e avrebbe influito sulla mia salute mentale.

Il primo ricordo della nuova vita a Rotterdam è l’aver dormito più di dodici ore al giorno per due mesi. Ogni giorno sembrava vacanza, mi ripetevo ossessivamente che prima o poi sarebbe finita e sarei ritornato. Cercavo lavoro, preparavo una colazione abbondante, mi stendevo sul letto a fare scrolling infinito, giravo per il centro, postavo un paio foto su Instagram per mostrare l’evidente differenza con la cultura italiana, e poi rientravo. Mi sentivo spossato e assonnato, pensavo, a causa del grigiore del Nord Europa. La sera, quando le luci della città sono soffuse e l’acqua del fiume Mosa diventa nera come inchiostro, mi sembrava di vivere in un sogno. Avevo perso l’energia che avevo a Milano, quella che ti fa correre sulle scale della metro anche quando hai letto che arriverà tra tre minuti.

Senza accorgermene sono andato avanti a lungo, sopprimendo ogni pensiero che mi risultasse troppo triste. Finché un giorno mi ritrovai sul punto più alto del ponte Erasmus in preda al panico e ansimante. Ero terrorizzato dal fatto che mi potesse succedere qualsiasi cosa in qualsiasi momento, e che nessuno avrebbe potuto aiutarmi (e se ci avesse provato, poi, in che lingua lo avrebbe fatto?!). Mi sentivo solo. Non riuscivo ad avere nessun tipo di relazione approfondita, tranne che con altri expat che come me si lamentavano di non conoscere nessuna parola di olandese e di quanto fosse una lingua inutile.

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Quando per lavoro cominciai a frequentare Amsterdam—una città con una cultura più internazionale e l’inglese parlato tranquillamente—le cose iniziarono a girare per il verso giusto, anche se il senso di inadeguatezza ogni tanto riemergeva. Ma è stato solo quando un anno dopo capitai sul TEDxMed in cui lo scrittore Andrew Solomon recita “I felt a funeral in my brain” di Emily Dickinson—che descrive con estrema lucidità i sintomi della depressione—che capii che dovevo confrontarmi con me stesso.

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Foto dell'autore.

Cercai “depressione” su Google e cliccai su uno dei primi risultati: nove sintomi di depressione. Li riconoscevo tutti, compreso quello dell’aumento di peso, che era la cosa più evidente e allo specchio mi faceva sembrare un estraneo. Passai il resto della giornata in preda a due sentimenti: sollievo e pena. Ero sollevato perché avevo trovato una possibile risposta, e in pena perché l’idea di essere depresso bastava a gettarmi di nuovo nell’abisso. Ne uscivo e ci ricadevo. Sul diario annotai quella che mi sembrava l’espressione perfetta per descrivere il sentimento generale di quegli anni: “annegare, come acqua che si chiude sopra la mia testa.”

Lo psicologo di famiglia a cui poi mi rivolsi confermò: soffrivo di ansia e depressione, ma trattandosi di un caso che definì “transitorio e gestibile”, col tempo e un po’ di lavoro su me stesso i pensieri intrusivi si fecero sempre meno presenti.

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Ora, a una certa distanza, mi chiedo: è possibile che una persona relativamente privilegiata come me, senza difficoltà a emigrare in un altro paese, con un tetto sulla testa e in compagnia, sia diventata depressa perché incapace di trovarsi in un altro paese? Ho deciso di parlarne con il professor Jean-Marc Dewaele dell’università Birkbeck di Londra, che ricerca gli effetti del multiculturalismo sulla salute mentale.

“No, è possibile il contrario,” ha risposto Dewaele. “È possibile che fossi già predisposto verso la depressione e che questa sia emersa durante i mesi dello shock culturale. Quando ti trasferisci in un nuovo paese devi abituarti a vivere una nuova vita, conoscere una nuova lingua, confrontarti con un’altra burocrazia e giurisdizione, capire cosa è accettabile e cosa non lo è. Inoltre il processo di deculturazione è un processo stressante.” Dewaele mi ha spiegato che, al contrario dell’acculturazione, la deculturazione è un fenomeno che vede la graduale perdita della dimestichezza con la lingua madre e la propria cultura d’origine.

“La maggior parte della letteratura scientifica parla degli effetti negativi che questo processo può avere sulla salute mentale: può causare elevati picchi di ansia, isolamento e alienazione, la sensazione generale di sentirsi inadeguati e la paura di venire percepiti sempre come stranieri non integrati. Allo stesso tempo, quanto torniamo nel nostro paese d’origine magari abbiamo dimenticato le abitudini condivise, se per esempio è accettabile o no entrare in casa con le scarpe.” Ogni volta che rientravo in Italia mi accorgevo di queste “perdite”, che per me avevano un’accezione esclusivamente negativa ed erano legate ai vari pensieri intrusivi. D’altra parte, non avevo intenzione di tornare stabilmente perché avrebbe significato rinunciare alla mia carriera e alla mia relazione.

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“Ma ci sono anche degli effetti positivi che si manifestano più tardi,” continua Dewaele. “Il te che ha lasciato l’Italia, è diverso dal te di oggi che vive in Olanda: è più maturo, ha più autocontrollo e una maggiore autostima. Il fatto che ti confronti quotidianamente con più lingue rende il tuo profilo culturale più interessante. In sociologia questo fenomeno viene chiamato identità culturale terza. Cioè hai sviluppato una cultura non solo italiana, o solo americana, o solo olandese, ma un misto di tutt’e tre, che è unica, inscindibile dalla tua esperienza.”

Non avevo mai pensato di guardare alla mia esperienza da un’altra prospettiva. Forse perché sono convinto che l’Olanda non sia il posto in cui voglio passare il resto della mia vita, anche se ha permesso alla mia relazione di continuare e maturare.

Trasferirti in un paese di cui conosci poco più di niente è una scommessa: ne sei consapevole, ma viverla è diverso da come te la immaginavi, e questo può avere ricadute anche sulla salute mentale. Lo spirito di avventura viene spesso sostituito dall’inadeguatezza e dalla sensazione di “non trovare il proprio posto.”

Sinceramente, dopo la diagnosi avrei voluto ancora poltrire a letto. Invece accettare il fallimento e non forzare le cose mi ha rimesso lentamente in moto. Oggi mi sveglio e so che ho un altro obiettivo: trovare un posto migliore in cui so per certo mi sentirei più a mio agio—tornare in Italia? trasferirmi negli Stati Uniti? Probabilmente sì.

Non tutto è cambiato ovviamente, soltanto io. Mi capita ancora che qualcuno agganci il telefono nel mezzo di una conversazione perché non conosco la lingua dei lunghi suoni gutturali, e spesso comunicare resta per me come quando pensi di gridare mentre dormi ma emetti suoni soffocati e sinistri. Ora però insisto. Imparare a riconoscere queste paure e averne consapevolezza, in fondo, è il primo passo per vivere un cambiamento lontani da casa.

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