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Tecnologia

I sacchetti biodegradabili aiuteranno davvero a ridurre l'impatto ambientale?

Un'indagine scientifica.

Non c’è dubbio che l’entrata in vigore del decreto Mezzogiorno, e in particolare del suo articolo 9-bis, sia stata oggetto di controversie popolari e politiche. Questa legge di conversione vieta l’uso della plastica per gli shopper ultraleggeri destinati all’imballaggio di alimenti sfusi (frutta, verdura, pane, formaggio ecc.) e impone la loro sostituzione con sacchetti biodegradabili, compostabili e provenienti almeno per il 40% da materie prime rinnovabili (percentuale che salirà al 60% entro il 2021).

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Il provvedimento rappresenta l’applicazione formale della direttiva europea 2015/720 e fa infuriare i consumatori perché vieta di distribuire gli shopper gratuitamente, imponendo nei supermercati un addebito di alcuni centesimi computato automaticamente in cassa. È inoltre vietato riutilizzare gli shopper allo stesso scopo o portarsi sacchetti usati da casa per imbustare gli alimenti sfusi, in ottemperanza alle norme igienico-sanitarie vigenti. Il Ministero della Salute ha in seguito dichiarato che è possibile portarsi il sacchetto da casa, ma solo se monouso. Quest’ultimo aspetto sembra in contrasto con lo scopo dichiarato della legge, ossia disincentivare gli sprechi.

Ma questo decreto sarà efficace in termini ecologici? Premettendo che la risposta dipende da molti fattori e probabilmente sarà evidente solo sul lungo termine, analizziamo alcuni di questi e il modo in cui possono avere un impatto ecologico.

Usare bioplastiche presenta diversi vantaggi rispetto al tradizionale sacchetto di plastica: sono materiali biodegradabili, e nell’ipotesi (purtroppo realistica) che i sacchetti vengano dispersi in quantità rilevanti nell’ambiente, si decompongono completamente entro poche settimane. Il materiale più usato per questi sacchetti è il MaterBi©, brevettato e prodotto dalla novarese Novamont; è essenzialmente composto da amido di mais e quindi proviene per il 100% da materie prime rinnovabili. La plastica tradizionale, oltre a richiedere circa un secolo per la decomposizione, si ricava dal petrolio: non rinnovabile, oggetto di lobbying e scontri internazionali e inquinante sin dall’estrazione. Inoltre, le plastiche possono essere riciclate, ma solo per un numero finito di cicli, dopo i quali diventano comunque rifiuti.

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L’indicazione esplicita del prezzo, oltre a limitare l’uso di sacchetti a quelli effettivamente necessari, ha anche lo scopo di "avvertire" il consumatore che si tratta di un materiale diverso rispetto alle plastiche, che va smaltito differentemente. L’aggravio sul singolo (che copre solo una frazione del costo sostenuto dagli esercenti) realisticamente si situa al di sotto dei 15 euro annui. Se da un lato sarebbe corretto fornire un’alternativa gratuita al consumatore, l’impatto ecologico della non riutilizzabilità è un falso problema, dato che nessuno prima di questo provvedimento si portava i sacchetti da casa per frutta e verdura, pertanto il volume di sacchetti utilizzati, mal che vada, resterà invariato (con l'aggiunta che questi saranno biodegradabili).

Tuttavia ci sono alcuni aspetti che i promotori della legge non hanno tenuto in adeguata considerazione. L’obbligo di pagamento era solo una delle possibili opzioni della direttiva europea – la più vessatoria per il consumatore, applicata in Italia senza un’adeguata campagna informativa (come testimonia la confusione di questi giorni). Anzi, la direttiva prevedeva sì la messa in atto di iniziative volte a ridurre il volume di plastica circolante, ma i sacchetti ultraleggeri potevano anche rimanere esclusi dal provvedimento legislativo dato che il loro impatto ecologico è inferiore rispetto ad altri inquinanti.

Il provvedimento sembra tanto più contradditorio in quanto non è stato accompagnato da una congrua riduzione delle plastiche negli altri imballaggi. Inoltre, per poter riutilizzare lo shopper come contenitore per i rifiuti organici, occorre fare attenzione a posizionare l’etichetta (non biodegradabile a causa della presenza di colla e inchiostro) sul manico, poiché è impossibile staccarla senza rompere lo shopper. Se è vero che psicologicamente i consumatori potrebbero, per principio, aumentare l’acquisto di prodotti preconfezionati, con imballaggi più inquinanti, va anche detto che chi fa attenzione ai centesimi del sacchetto noterà anche che gli alimenti pre-imballati sono più costosi.

Infine, le questioni di sostenibilità ambientale e sociale non svaniscono del tutto. “Il MaterBi© è prodotto a partire da coltivazioni di mais, e non bisogna sottovalutare l’impatto ambientale che queste coltivazioni possono avere, a partire dal luogo della semina fino al tipo di fertilizzante usato” sottolinea Stefano Bertacchi, ricercatore biotecnologo dell’Università di Milano Bicocca. “Inoltre, a qualcuno può sembrare iniquo sottrarre materiale alimentare che potrebbe essere utilizzato per sfamare chi si trova in condizioni di scarsità di cibo. Purtroppo trasformare le biomasse non commestibili è più difficile rispetto all’amido, il che fa aumentare i costi di produzione e rende le altre bioplastiche poco competitive sul mercato.”

Se l’azienda Novamont si trova dunque in condizione di vantaggio competitivo è perché ha scelto di brevettare una bioplastica che, oltre a soddisfare requisiti ecologici stringenti, beneficia di un processo “naturale” di polimerizzazione che le rende adatte per gli shopper e, nel settore, tra i meno costosi. Il decreto può comunque incentivare la competizione in questo ramo. Le accuse di favoritismo nei confronti della presunta ”amica” di Renzi Catia Bastioli, amministratore delegato di Novamont, si dimostrano poco consistenti se si considera che il anche gli shopper biodegradabili in uso alla cassa, introdotti quando di Renzi ancora non si parlava, sono fatti di MaterBi©. La scelta di questo materiale per l’imballaggio di alimenti sfusi sembra dunque dettata da motivi di continuità piuttosto che da favoritismi.

L’alternativa di usare sacchetti di carta, proposta da alcuni commercianti, non è invece percorribile in tutte le situazioni. “È molto voluminosa, quindi gli eventuali costi di trasporto del materiale imballato in carta lievitano” spiega un responsabile marketing di una piccola catena che ha chiesto di rimanere anonimo. “È meno resistente delle bioplastiche, specialmente per il trasporto di cibi umidi; soprattutto, oltre a non essere trasparente non può essere sondata al tatto, e questo specialmente nelle grandi distribuzioni può portare a dei veri e propri furti. Ci sono persone che nel sacchetto di carta insieme alla frutta nascondono oggetti leggeri ma costosi come rasoi o batterie. Noi possiamo permettercelo perché abbiamo volumi molto ridotti, ma per le grandi catene forse non è una strada percorribile”.