I biscotti della fortuna cinesi non sono realmente cinesi

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I biscotti della fortuna cinesi non sono realmente cinesi

Ma la dicono lunga sulla storia della cucina cinese in Usa e in Occidente. Mai sottovalutare un biscotto!

Per noi rimane il primo grande amore dopo la cucina italiana. In un ristorante cinese abbiamo cominciato a familiarizzare con i sapori asiatici e i nuovi ingredienti; qui abbiamo iniziato a giocare con le bacchette - e dopo qualche anno abbiamo anche imparato ad usarle. Sono la terza comunità straniera più presente sul suolo italiano, ma forse non li conosciamo davvero abbastanza. Qui a MUNCHIES, allora, abbiamo pensato di dedicare alla cultura gastronomica cinese una settimana a tema in occasione del Capodanno Cinese.

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Benvenuti alla Chinese Week di MUNCHIES Italia.


Ad oggi, o almeno credo, la maggior parte di noi sa che i biscotti della fortuna non possano essere annoverati fra le tradizioni più autentiche della Cina.

Ciò che forse è meno noto, invece, è sia il luogo di provenienza reale di questi biscottini, ritracciabile in una piccola cittadina fuori Kyoto (Giappone), sia l’importanza storica degli stessi, perché rivela molto di come la cucina cinese sia riuscita a conquistare i palati occidentali, dipingendo un quadro impietoso della psiche collettiva americana (vi basti sapere che negli USA ci sono più ristoranti cinesi che McDonald’s).

Il tutto è decisamente impressionante, se consideriamo che si tratta di un biscottino insipido prodotto quasi esclusivamente da una singola fabbrica a Brooklyn.

La chiave di svolta della gastronomia cinese, tra i razionamenti e il desiderio di raggiungere masse sempre più numerose, spinse i ristoratori a creare una cucina abbastanza occidentalizzata da non “insultare” alcun gusto, ma anche abbastanza “esotica” da non risultare presto noiosa.

Partiamo dalle basi di questa storia.

A Fukakusa si trova il Santuario di Fushimi Inari-taisha, uno dei più imponenti nel suo genere di tutto il Giappone. I pellegrini, lì, vanno e vengono incessantemente, anche solo per suonare il celeberrimo paio di campane mentre pregano per ricevere in auspicio buona sorte e salute. Il santuario è anche circondato da diverse panetterie a conduzione familiare, tutte ben felici di vendere i loro omikuji senbei ("biscotti della fortuna") o le loro tsujiura suzu ("campane di buon auspicio"). La forma di tutti questi prodotti dovrebbe ricalcare quella delle campane presenti all’interno del tempio, e ormai funge da souvenir imprescindibile per moltissimi turisti e viaggiatori.

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Inizialmente questi biscottini rimanevano entro i confini di quella regione, senza addentrarsi altrove, neppure nel resto del Giappone. Il corso della loro storia è cambiato significativamente con l’avvento della giornalista del New York Times Jennifer 8. Lee, che nel suo libro The Fortune Cookie Chronicles aveva spiegato come, nel Diciannovesimo secolo, i biscotti della fortuna fossero stati inventati dai giapponesi e portati direttamente a San Francisco da un intraprendente immigrato giapponese di nome Hagiwara.

Hagiwara, che era finito a gestire il Japanese Tea Garden nel Golden Gate Park della città, aveva deciso d’incuriosire i clienti proprio con i senbei, che lui vendeva come biscotti della fortuna giapponesi. Hagiwara, che di professione non era un panettiere, decise di esternalizzare il suo prodotto alla Benkyodo, una piccola panetteria giapponese della Japantown di San Francisco.

I biscotti della fortuna di Hagiwara iniziarono a diventare sempre più popolari fra i clienti, incuriosendo alcuni ristoranti cinesi della zona che, di rimando, iniziarono a comprarli direttamente dalla Benkyodo, sperando di riuscire a farli passare come una prelibatezza più genericamente asiatica. Per la totale associazione fra biscotti della fortuna e Cina, però, si dovranno aspettare gli anni Quaranta.

Arriviamo quindi al 1942. In quell’anno gli Stati Uniti avevano iniziato a combattere contro il Giappone fra le acque del Pacifico e, a causa della guerra, tutto lo staff del Benkyodo fu internato. Tutta la comunità giapponese di San Francisco, così come quelle delle altre città statunitensi, finì nel giro di pochi anni nei “campi di reinsediamento.”

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Allo staff della Benkyodo subentrò un gruppo d’imprenditori ambiziosi cinesi che, complici i risvolti della Seconda Guerra Mondiale, avevano visto la fortuna letteralmente volgere dalla propria parte. Sebbene i cinesi, prima dell’avvento della guerra, fossero l’unica comunità d’immigrati esclusa per legge dal territorio nazionale (per ora, non si sa mai con Trump), con la metà degli anni Quaranta passarono da popolo marginalizzato a diretto alleato contro il fascismo combattuto dagli Stati Uniti d’America. Ma la cosa più importante di cui dobbiamo tenere conto, qui, è che il cibo cinese divenne improvvisamente un’alternativa desiderabile per gli statunitensi, che durante quegli anni soffrivano moltissimo i razionamenti. La cucina cinese, in precedenza apprezzata solo dai bohemien avanguardisti abbastanza coraggiosi d’addentrarsi in una qualsiasi Chinatown, iniziò a raggiungere i palati della massa. Il risultato di tale cambiamento trovò poi riscontro nei giri d’affari, che nella sola Chinatown di San Francisco quadruplicarono tra il 1941 e il 1943.

La chiave di svolta della gastronomia cinese, tra i razionamenti e il desiderio di raggiungere masse sempre più numerose, spinse i ristoratori a creare una cucina abbastanza occidentalizzata da non “insultare” alcun gusto, ma anche abbastanza “esotica” da non risultare presto noiosa.

Tutti questi ammodernamenti includevano anche il biscotto della fortuna. I soldati americani, spediti a combattere il nemico nel Pacifico, tornavano spesso nelle città dai quartieri cinesi estesi e prolifici della costa Ovest, come ad esempio San Francisco o Los Angeles, scoprendovi i biscotti della fortuna. A guerra finita, ritornavano infine nelle proprie case, entrando nei ristoranti cinesi con il desiderio espresso di poter spezzare, a fine pasto, un biscottino della fortuna, credendo fosse una pratica tradizionale di quella cultura. I ristoratori cinesi di tutte quelle località, con un buon grado di perplessità, si ritrovavano a chiamare i parenti nelle grandi città della costa per capire di cosa si trattasse, incoraggiando poi altri ad aprire fabbriche e aziende che li producessero.

Chiamarli “biscotti della fortuna,” però, è fuorviante. Come scoperto dalla giornalista Lee durante un’intervista a coloro che scrivevano le frasi all’interno dei biscottini, la creatività tendeva ad assopirsi presto in questo tipo di lavoro. Dopotutto, oltre all’amore, al lavoro e alla salute, le cose da prevedere non sono poi così tante.

Gli scrittori dietro ai biscotti della fortuna incappavano anche nelle limitazioni culturali, perché gli americani si aspettano sorti davvero ottime. Ci sono clienti che si lamentano tutt’oggi con i ristoratori se la frase trovata non è di proprio gradimento, così come ci sono produttori che per la loro offerta “non di buon auspicio” si ritrovano senza domanda. E tutto ciò è davvero ironico, perché la fragilità con cui si spezzano i biscottini può essere facilmente paragonata a quella dell’ego americano.
In Cina, dove il concetto di chiaroveggenza è molto diffuso, l’idea di prevedere solo buone sorti risulterebbe decisamente impensabile. Le fortune positive si bilanciano con quelle negative e viceversa, e senza le seconde non ci sarebbe spazio per i miglioramenti. Messi all’angolo dalla richiesta esclusiva di positività, agli scrittori dei biscotti della fortuna non rimase che passare ai proverbi cinesi, spesso traducendoli letteralmente. Finiti anche quelli, passarono a tutte quelle frasi-cliché che non offendono nessuno ma, allo stesso tempo, non prevedono nulla. “La felicità è come avere la panica piena,” per esempio, non aiuterà nessuno a capire come risolvere quella brutta situazione con il proprio capo a capire come barcamenarsi nella Brexit. Un altro fattore da tenere in considerazione è la richiesta incessante di novità da parte del pubblico statunitense. I clienti dei ristoranti cinesi negli Usa non vogliono trovare la stessa frase fatta nei biscotti della fortuna, quindi chi li produce deve sfornare frasi sempre diverse. Donald Lau ha scritto le frasi dei biscotti della fortuna prodotti dalla Wonton Foods Inc per trent’anni, arrivando a far stampare, durante il picco della sua carriera, due o tre frasi diverse al giorno. La richiesta così alta lo ha poi portato a soffrire del blocco dello scrittore, a tal punto da dover diminuire le frasi da tre al giorno a tre al mese. Ecco, tutto questo potrebbe spiegare bene perché nessuno è riuscito a reinventare i biscotti della fortuna per venderli su larga scala ai cinesi. Sono troppo americani.