Quando un libro fa storia
Tutte le immagini per gentile concessione de L'Ippocampo
Cibo

In questo libro ci sono i 240 piatti che hanno cambiato la storia

Il libro appena edito da Phaidon ci fa riconsiderare molto di quello che abbiamo sempre dato per scontato sulla cucina, ovvero l'importanza di alcuni piatti nella nostra cultura.
Giorgia Cannarella
Bologna, IT

“Negli anni Settanta era più facile essere entusiasta di un piatto. Forse perché ce n’erano meno”

Lo sapevate che l’Insalata alla caprese è nata in onore del futurista Filippo Marinetti? Che nel IV secolo il sushi si faceva con pesce salato e fermentato dal sapore acido? E che la pizza con l’ananas è originaria del Canada?

Nell’overdose contemporanea di libri di cucina - ricettari di vincitori di reality show, spaventosi manuali di dieta paleo, biografie autocelebrative di chef - è raro trovare un libro che si abbia davvero voglia di leggere. Un libro da godersi fino all’ultima riga, meravigliandosi, imparando e soprattutto divertendosi. È il caso di Quando un piatto fa storia (448 pagine, Phaidon-L’Ippocampo): 240 piatti d’autore degli ultimi trecento anni, scelti da alcuni dei critici gastronomici, food writer ed esperti più importanti del mondo.

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Sì, c’è anche il Toast all’avocado, e siamo nel 1993 in Australia

Si parte dal 1686 con il gelato di Procopio Cutò, che lo fece conoscere al pubblico in Francia, e si finisce con le Animelle in tempura in alga nori di Christophe Pelé del 2019 (sempre in Francia).

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Cover Quando un piatto fa storia

Un ripasso di storia della cucina pieno di aneddoti succosi, ma al tempo stesso un ricettario - perché sì, in fondo ci sono le ricette, e alcune sono pure abbastanza facili. In definitiva un libro dal costo non basso (39,90 euro), ma che ha tutte le potenzialità per diventare un must have sulle librerie degli appassionati di gastronomia.

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Pizza Margherita, 1889 by Raffaele Esposito della Pizzeria di Pietro e Basta così

Quindi non aspettatevi solo piatti come l’Oliva sferica di Ferran e Albert Adrià (2005) o il Porridge di lumache di Heston Blumenthal (2003): ci sono anche il Big Mac (1967) o il Soufflé al Grand Marnier (1962). La pizza che nella sua versione Margherita viene fatta risalire al 1889 alla Pizzeria di Pietro di Raffaele Esposito. E così sfogliare il libro diventa l’occasione per riflettere su come nascano le mode (sì, c’è anche il Toast all’avocado e siamo nel 1993 in Australia) e come faccia un piatto a diventare celebre in tutto il mondo.

Ovviamente i criteri di scelta dei piatti sono soggettivi e noi possiamo o meno dissentire sull’iconicità o l’importanza per la storia della cucina del Baked Alaska (1867 - lo vedete in copertina), ma anche questo interrogarsi porta con sé un interessante spunto di riflessione e ci fa stanare il nostro eurocentrismo, che ci induce sempre a giudicare con aria di superiorità la cucina statunitense o a considerare quella asiatica come un magma indistinto di salsa di soia e noodles.

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La parte croccante della lasagna di Massimo Bottura 1995

“Ora non esistono quasi più chef davvero innovatori. Siamo nel pieno della generazione Instagram dove vince il sembrare e non l’essere”

È estremamente interessante osservare l’evoluzione della cucina d’autore stricto sensu, familiarizzando con nomi come Michel Bras (lo sapevate che ha inventato lui il Tortino al cioccolato dal cuore morbido nel 1981?) o Alice Waters, Alain Passard o David Kinch. Prima che vi scatti il campanilismo, sì, ci sono diversi nomi italiani: Massimo Bottura, Riccardo Camanini, Davide Scabin, Antonia Klugmann, Enrico Crippa, Massimiliano Alajmo, Fulvio Pierangelini. E ovviamente Gualtiero Marchesi.

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Viene inevitabile, sfogliando le pagine, porsi una domanda. Mentre tracciamo un filo rosso tra il Raviolo Aperto di Marchesi e la rivisitazione artistica della cucina italiana di Massimo Bottura, non possiamo fare a meno di chiederci se in un mondo saturo di guide, premi, menu degustazioni e stelle Michelin ci sia ancora spazio per la vera innovazione. Un’insalata francese degli anni Settanta condiziona generazioni di chef, l’essenzialismo nordico di René Redzepi viene copia-incollato in migliaia di ristoranti in tutto il mondo, perfino ogni scelta nell’impiattamento è stata vista con decenni di anticipo… e ora?

Ne abbiamo parlato con uno degli autori, Andrea Petrini: “Ora non esistono quasi più chef davvero innovatori. Siamo nel pieno della generazione Instagram dove vince il sembrare e non l’essere. Si sono perse le basi, le radici, la coscienza e la sedimentazione delle storia,” enuncia lapidario. “Il mondo che dieci anni fa poteva davvero essere definito come pieno di innovatori è stato lost in translation. Quelli che consideriamo avanguardisti guardano solo indietro. La cucina, piaccia o non piaccia, è entrata a pieno titolo nel lifestyle. Abbiamo guardato agli chef come a dei vati e loro si sono rivelati dei bottegai.”

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Cronut by Dominique Ansel, 2013

“Non dico che dovevano tutti proporre i rigatoni della nonna ma almeno cercare di capire dove va il mondo.”

Il Covid-19 ha provocato una crisi senza precedenti nel mondo della ristorazione. Ma Petrini non è molto ottimista sulla reazione dell’alta ristorazione: “Il mercato è cambiato. Punto. Se ne devono rendere conto. Siamo tutti più poveri. Non viaggiamo più. I giornalisti lobbisti che giravano da un continente all’altro su aerei pagati dall’ufficio del turismo sono stati licenziati. Gli chef devono reinventarsi e puntare sulla clientela locale. E invece i fine dining cos’hanno fatto? Hanno giocato in difensiva. Hanno continuato a proporre le stesse cose, magari alzando pure i prezzi! Bastava guardare il loro Instagram nel pieno della pandemia: pubblicavano foto di piatti esprimendosi con la stessa retorica. Ci sono state poche eccezioni, tipo il Noma che ha creato un’hamburgeria. Non dico che dovevano tutti proporre i rigatoni della nonna ma almeno cercare di capire dove va il mondo.” 

E quindi? Non ci rimane un barlume di ottimismo sull’evoluzione dell’alta cucina? No, dice Petrini. Però lui al ristorante continuerà ad andarci comunque. “La possibilità di essere sorpreso sono sempre più remote ma continuo a sperare. Alla fine è ancora una questione di tempi. Era facile essere entusiasta di un film negli anni Settanta. Forse perché c’erano meno film. E adesso ci sono meno piatti. È più difficile trovare qualcosa di inaspettato.”

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