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Com'è tornare a vivere in Italia dopo anni passati all'estero

Sono tantissimi i giovani che vanno a studiare e lavorare all'estero. Ma il mondo là fuori è davvero migliore? Lo abbiamo chiesto a cinque expat che sono tornati.
Niccolò Carradori
Florence, IT
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Angelo, Senay e Vanni. Foto per gentile concessione degli intervistati.

Cervelli in fuga, “generazione cameriere a Londra,” snobbati o che snobbano: negli ultimi vent’anni i giovani che hanno lasciato l’Italia per trasferirsi all’estero sono stati inquadrati in svariate categorie.

Quello che è certo, è che il loro numero continua ad aumentare. Stando all’ultimo rapporto annuale “Italiani nel mondo” della Fondazione Migrantes, nell’ultima decade il numero degli espatri è triplicato (dai 39mila nel 2009, ai 117mila nel 2019, per un totale di 816mila espatri in dieci anni). E il 40,6 percento di questi riguarda persone tra i 18 ai 24 anni. Nel 2018 (ultimo anno preso in analisi dall’ISTAT), però, sono anche rientrati dall’estero 46.824 cittadini italiani.

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Ma cosa sappiamo di questi ultimi, che rientrano magari dopo anni passati nel Regno Unito, negli Stati Uniti o in Cina? Perché hanno deciso di lasciare le loro vite all’estero per far ritorno in questa terra che godiamo così tanto a sminuire? E come hanno deciso di reinventarsi una volta qui? Lo abbiamo chiesto direttamente ad alcuni di loro.

STEFANO, 32 anni
Tornato in Italia dopo dieci anni passati a Londra, oggi lavora nell’azienda agricola dei genitori e sta per sposarsi.

VICE: Ciao Stefano, a 21 anni hai deciso di partire per Londra: cosa non ti piaceva della tua vita in Italia?
Stefano: Nel 2010 vivevo un periodo in cui non trovavo sbocchi, non vedevo opportunità per costruire un futuro in Italia. Quindi, come molti, cercai una soluzione andandomene.

All’inizio, come tanti, hai fatto il cameriere. Come è andata?
Per diversi mesi ho fatto lavoretti per mantenermi. Una volta che hai assorbito meglio la lingua, però, ti si presentano proposte migliori. Sono stato assunto come portiere in un hotel a cinque stelle, dove sono rimasto per nove anni.

Economicamente era un sogno: prendevo uno stipendio normale, ma lavorando in un contesto di lusso, in una città così piena di viaggiatori per affari, il giro delle mance era pazzesco. Difficile immaginare una cosa del genere da noi. Facevo dalle 60 alle 100 sterline di extra ogni giorno. Il che ti permette di goderti davvero Londra, di vivere una vita molto diversa rispetto all’Italia: piena di stimoli, di novità, di esperienze.

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E qui vediamo alla domanda principale: cosa ti ha spinto a tornare?
Lo so che sulla carta sembra assurdo. Quando vivi all’estero inizialmente vedi solo i difetti dell’Italia: l’arretratezza, le mille difficoltà quotidiane. E c’è stato un momento in cui ho pensato “non tornerò più.” Ma alla lunga si fa sentire la qualità della vita.

Londra è cinica, ossessionata dal denaro, e se sei cresciuto nel nostro sistema comincia a sembrarti assurdo che per goderti le cose più semplici tu debba accumulare e spenderne così tanto. Più passava il tempo, più maturavo la voglia di tornare. Per anni non ho avuto il coraggio, ma la situazione che ha vissuto il Regno Unito durante la pandemia—mostrando i lati peggiori di quel sistema—ha dato lo strappo finale.

Com’è stato riabituarsi al nostro stile di vita? Ti manca mai Londra?
Non è stato semplice all’inizio perché, soprattutto in provincia, ti confronti con ritmi di vita più lenti e una mentalità più ristretta. Sono tornato durante l’emergenza, e la situazione è difficile. Ovviamente ci sono cose che mi mancano, ma sono felice di aver fatto questa scelta. Sto lavorando con mio padre nella sua piccola azienda agricola: facciamo l’olio, il miele, alleviamo galline. È una vita che sto cominciando ad apprezzare.

Come vedi il tuo futuro in Italia?
Negli anni a Londra sono riuscito a risparmiare, e ho diversi progetti per il futuro. Se tutto va bene il prossimo anno mi sposerò [con una ragazza italiana conosciuta a Londra]. Con la mia compagna e la mia famiglia stiamo valutando di aprire delle strutture agroricettive. Vedremo.

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SENAYT, 31 anni
Tornata in Italia dopo sei anni a Londra, ha aperto Senny English Club, una scuola per insegnare l’inglese ai bambini.

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VICE: Sei stata a Londra sei anni; com’è l’Italia vista da fuori?
Senayt: Un paese in cui la crescita delle persone è molto rallentata. Ti faccio un esempio: dopo le prime esperienze a Londra ho avuto la fortuna di essere assunta in una struttura di volontariato per bambini, e ho scoperto un mondo. Hanno puntato su di me offrendomi corsi di formazione, e inserendomi in un sistema di crescita professionale. Non ho dovuto fare stage infiniti e accettare condizioni umilianti: mi hanno subito valorizzata.

Perché allora hai deciso di tornare in Italia e di aprire qui la tua scuola?
Perché nonostante tutto l’Italia ha delle potenzialità infinite. È difficile vederlo da dentro, ed è una cosa che crea grande rammarico: se riuscissimo a smettere di autosabotarci, potremmo costruire qualcosa di grandioso.

La qualità della vita, la cultura, l’educazione alle relazioni che ti trasmette l’Italia sono patrimoni importanti. Io avevo un progetto, e volevo metterlo in pratica nel mio paese.

Com’è stato l’impatto con il rientro?
Un po’ scoraggiante. Sono subito andata in comune per informarmi sui passi burocratici necessari, e la responsabile dell’ufficio mi ha detto “ma chi te lo fa fare? Mio figlio è partito per Londra tre mesi fa, perché sei tornata?” Un inizio ottimo, insomma. Poi è stata dura confrontarmi col fatto che niente fosse cambiato: sempre le stesse dinamiche, rapporti, lamentale. Io ero abituata a Londra, dove ogni giorno c’è qualcosa di diverso.

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Come hanno reagito amici e famigliari al tuo ritorno?
Ci sono due tipologie di reazioni: quella dei nazionalisti esultanti—“sapevo che saresti tornata, come si sta qui non si sta da nessuna parte”—e quella dei pessimisti, che dicono “ma che hai fatto? Guadagnavi bene, avevi una vita migliore.” Credo che entrambe abbiano in comune il senso di stasi che si respira in Italia.

Cosa ti ha lasciato questa esperienza che vuoi portare nel tuo futuro?
Il coraggio di rischiare, e di investire su me stessa. Senza lamentarsi, e lavorando sodo. Nella mia scuola, poi, offro ai bambini un metodo educativo innovativo, basato sullo stile britannico: ho un open space suddiviso in varie aree a tema, e i bambini imparano la lingua confrontandosi con problematiche concrete. Un metodo nuovo per l’Italia, e in cui credo molto.

ANGELO, 26 anni
Tornato in Italia l’anno scorso, dopo aver passato due anni a Shanghai, oggi ha aperto un suo locale.

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VICE: Cosa ti aveva spinto a lasciare l’Italia per la Cina?
Angelo: Stavo finendo la triennale in Giurisprudenza, e mi ero accorto che non me la sentivo di continuare. In più, provenendo dalla comunità sino-italiana, sentivo il bisogno di stringere un rapporto più profondo con la Cina, un’esperienza che non fosse limitata a una vacanza per vedere i parenti. Così mi sono messo in contatto con un’azienda che cercava profili italiani, ma con una buona conoscenza della cultura cinese, e sono partito.

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Quali differenze hai notato con la vita di prima?
Abissali. Forse in questo momento la Cina è l’esatto opposto dell’Italia: un’economia giovanissima, in piena crescita, proiettata sempre nel futuro.

È stato difficile ambientarsi? Perché non hai deciso di restare?
Sono stati due anni bellissimi, in cui ho fatto esperienze indimenticabili. Lavorando per le pubbliche relazioni di una grande azienda ho conosciuto persone di tutti i tipi. Shanghai poi è la metropoli del futuro, piena di giovani da tutto il mondo, però ti obbliga a uno stile di vita senza pause: per crescere lavorativamente devi avere una cattiveria positiva e totalizzante che non sento mia.

A me piace lo stile di vita mediterraneo coniugato all’etica del lavoro cinese: sgobbare, ma sapersi anche godere la vita in un modo che non sia bere tutte le sere fino a svenire. Io, poi, sono figlio di immigrati: non volevo rinunciare al mio paese.

Com’è stato tornare?
Bello e difficile allo stesso tempo. Bello perché ho ritrovato tutti quegli aspetti della quotidianità che amavo. Difficile perché tornando noti tutto quello che non funziona. Io venivo da una città in cui se hai uno smartphone in tasca puoi fare di tutto, in modo funzionale e veloce: pagare qualsiasi tipo di consumo, affittare un ombrello fuori dalla metro, prendere un charger portatile per il telefono in sharing. Qui dove vivo in Italia, invece, fai fatica a trovare un ristorante che usi le app di delivery.

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Cosa ti sei portato in Italia di questa esperienza?
La mia attività, e la determinazione nel portare avanti i progetti. In Cina ho notato che, a differenza dell’Italia, i bei locali accoglienti sono distribuiti ovunque. Non solo nel centro della città, ma anche nelle aree industriali. Quindi ne ho aperto uno simile nel distretto in cui da sempre lavorano i miei genitori: un concetto del tempo libero e dell’accoglienza più democratico.

SUSI, 33 anni
È rientrata in Italia da poco, dopo aver lavorato nel turismo e nella ristorazione tra Maldive, Egitto, Zanzibar, Stati Uniti, Australia.

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VICE: Come pensi che sia cambiata la tua mentalità dopo anni passati all’estero?
Susi: È difficile dirlo, perché ogni esperienza mi ha lasciato qualcosa di diverso. Ma in generale direi un senso di apertura verso gli altri, e di fiducia nella vita, che non si respira molto in Italia.

Per il lavoro, per le questioni pratiche, vivere all’estero è più facile: guadagni meglio, trovi facilmente lavoro. Dopo un po’ di tempo però, forse non avendo a che fare con i problemi italiani tutti i giorni, comincia a mancarti la bellezza. Vivere in un luogo magico, circondato dalla natura e dall’arte. Secondo me gli italiani si rendono poco conto della fortuna che hanno.

In tutti questi anni, quindi, hai sempre pensato che saresti tornata?
No, non proprio. In Australia ho avuto sia l’opportunità che la tentazione di restare: avevo aperto questo piccolo servizio di catering, From My Grandmother To You, che offriva la cucina italiana delle nonne. Poi però mio papà ha avuto dei problemi di salute, e ho deciso di tornare.

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Cosa ti dicono amici e conoscenti di questa decisione?
Chi non conosce la mia situazione spesso si mostra sbalordito, ma quando spiego la verità capiscono subito. Ho deciso di mettere gli affetti in cima alla lista delle priorità, e sono felice di averlo fatto.

In futuro ti vedi sempre in Italia?
Ho smesso di pianificare il futuro da molto tempo. Vedremo quello che succederà. Mi sono appena trasferita in una nuova città, e già questo lo vivo come una novità. Ma può darsi anche che mi ricapiterà di ripartire.

VANNI, 35 ANNI
Rientrato in Italia da un anno, dopo aver studiato e lavorato a Los Angeles per 15, oggi si dedica all’arte figurativa e ha un documentario in uscita.

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VICE: Tu hai una storia particolare: hai lasciato l’Italia a 19 anni con una scholarship sportiva della USC, quindi bene o male hai passato la prima metà della vita in Italia, e la seconda negli Stati Uniti…
Vanni: Esatto. In Italia ero un nuotatore, e sono riuscito ad accedere all’università americana gareggiando per loro. La verità però è che per me è stata un po’ una scusa: avevo già in mente di smetterla col nuoto. Volevo andarmene perché in Italia mi sentivo oppresso, e pensavo che fosse proprio il mio paese il problema.

Non lo era?
In realtà poi ho capito che il problema era mio, anche se il sistema italiano un po’ ti costringe a delle scelte. In Italia ero uno sportivo, e quando lo sei qui la tua vita è ben definita. Ma io avevo dei lati del mio carattere che volevo tirare fuori: il college americano, una bolla a sé anche in America, mi ha aiutato moltissimo a disinibirmi. Ho capito che volevo dedicare la mia vita ad altro.

Cosa ti ha spinto allora a tornare in Italia, visto che in America l’industria culturale è molto più florida?
Dopo molte esperienze, sia in un luogo come Los Angeles, sia in Amazzonia con le tribù indigene, ho capito che in Italia qualcosa sta finalmente cambiando.

Ti parlo della mia esperienza: è vero che il circuito artistico italiano sembra chiuso. Ma solo se lo osservi nell’ottica classica delle gallerie, ecc ecc. In realtà ci stiamo aprendo a moltissime nuove forme d’arte, e ho trovato che mantenermi facendo l’artista in Italia, circondato da questa cultura, sia bellissimo.

Quindi non è stato un problema riambientarsi?
No, non direi. Una certa mentalità passatista la noto anche io, visto che vengo dalla provincia, ma credo che i lati positivi del vivere in Italia siano maggiori dei difetti. Io ultimamente facevo fatica a relazionarmi con il sistema competitivo americano.

Quindi vedi stabilmente il tuo futuro in Italia?
Ovviamente continuerò a viaggiare, e a mantenere contatti lavorativi all’estero—ma sì, voglio che l’Italia sia la mia base.