personale ristoranti dopo covid
Illustrazione di Lorenzo Matteucci 
Cibo

Cinque persone che hanno lasciato la ristorazione dopo il Covid ci hanno spiegato perché

Dopo la pandemia tutti i ristoratori lamentano la mancanza di personale. Abbiamo parlato con chi ha abbandonato il settore, chiedendo le motivazioni.
Andrea Strafile
Rome, IT
LM
illustrazioni di Lorenzo Matteucci

Gli imprenditori dovrebbero capire che è sostenibile rinunciare a qualche guadagno per fare vivere decentemente i lavoratori. Anche perché la nuova generazione di cuochi sarà ancora meno disposta ad accettare un sistema così obsoleto e con così pochi diritti.

“Manca il personale!” Se hai mai parlato con un ristoratore negli ultimi mesi ti avrà detto almeno una volta che i clienti sono tornati a mangiare, ma mancano le persone che lavorano in sala o in cucina. “Nessuno vuole fare più questo mestiere”, dicono.

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In Italia, ma non solo in Italia, sono in molti ad aver appeso grembiuli e divise da cuochi per poi uscire dai locali senza essere intenzionati a tornarci. E l’epidemia di Covid è una delle massime cause.

Nel rapporto della FIPE (Federazione Italiana Pubblici Esercizi, NdR), ormai di maggio 2021 si sottolinea come non solo—e questo potrebbe apparire alquanto scontato—la ristorazione e l’ospitalità in generale siano stati i settori più colpiti ma che, dall’inizio della pandemia, ristoranti e locali abbiano perso circa il 97,5% di cali del fatturato. E voi direte: grazie, non ci voleva una laurea in statistica per capire che sarebbe andata così.

Ma lasciando stare un attimo i soldi persi, c’è l’altro grande problema del personale che se ne va e non ha intenzione di tornare. In questo anno e mezzo di pandemia hanno perso o hanno deciso di rinunciare a un lavoro in sala, dietro i banconi o nelle cucine, 514.000 persone, sempre secondo la FIPE. A fronte di un aumento dal 2013 al 2019 dell’impiego con 245.000 posti di lavoro creati.

Se ci pensate si tratta di uno stop epocale: chi lavora nella ristorazione, lo vedremo meglio nelle interviste qui sotto, ha deciso di salvaguardare vita privata e salute mentale, non accontentandosi di lavorare tante, troppe ore per uno stipendio striminzito.

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Abbiamo chiesto direttamente a chi dopo il Covid ha deciso di mollare, il perché e se gli manca spadellare in cucina o servire a tavola.

Eleonora*, maître

I lavoratori nella ristorazione sono come dei criceti: finché stanno sulla ruota non devono fare altro che girare in gabbia. Poi ti fermi, scendi dalla ruota e capisci che c’è molto altro.

Eleonora ha 42 anni e lavora in sala da una dozzina. Da qualche mese ha deciso di mollare le mura del ristorante in cui lavorava e di fare l’agente di commercio nel mondo del vino. “Diciamo che nel periodo in cui siamo stati chiusi ho annusato la libertà,” mi dice al telefono. “I lavoratori nella ristorazione sono come dei criceti: finché stanno sulla ruota non devono fare altro che girare in gabbia. Poi ti fermi, scendi dalla ruota e capisci che c’è molto altro. Infine, quando abbiamo riaperto, risali su quella ruota. Ma avevo capito molte cose nel frattempo.”
Nello specifico, i problemi per Eleonora sono stati di natura personale. “Esci, riscopri gli aperitivi, gli amici: tutte cose che ti rendi conto aver abbandonato per anni. Di fatto in questo lavoro fai 13 ore al giorno pagate, al più alto dei livelli, circa 7 euro l’ora. Ma chi me lo faceva fare di continuare una vita così?”

E finisce: “Tanti sono andati via perché i proprietari non anticipavano la cassa integrazione. Ne conosco diversi andati a lavorare da Amazon, per esempio. Se fai il confronto, in un posto del genere ti spacchi la schiena per 8 ore al giorno a 1300 euro al mese. In un ristorante magari prendi un centinaio di euro in più, ma lavori molte più ore.”

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Franco Aliberti, chef

Si lavora 12 ore al giorno, i pasti sono consumati in piedi prima del servizio come delle bestie e la mancanza di voglia di investire degli imprenditori in maggiore personale di fatto lascia poche persone a fare il lavoro a discapito di pesanti ripercussioni fisiche, economiche e mentali.

Franco Aliberti è uno chef che ha fatto dello scarto zero e della sostenibilità la sua firma. Ha lavorato in passato in ristoranti importanti, ma in queste settimane si è parlato di lui per la decisione di abbandonare i progetti appena partiti di Anima e Vertigo a Milano, sotto la direzione chef stellato Enrico Bartolini. Se ne è parlato molto perché lo chef Bartolini ha dichiarato in diverse interviste di essere molto deluso dalla decisione di Aliberti di lasciare il ristorante; in alcuni articoli dice addirittura di essersi sentito “sedotto e abbandonato.”

Franco ha spiegato che ha deciso di lasciare quella cucina per motivi personali e per stare insieme alla sua famiglia. “Siamo nel 2021: non riuscire a far coincidere lavoro con vita professionale è assurdo, bisogna vivere,” mi spiega al telefono .

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”Ovviamente con una nuova apertura sapevo che c’erano da fare sacrifici, ma a un certo punto mi sono fermato a riflettere e ho deciso di dedicarmi alla famiglia, dopo anni passati nelle cucine.” Come mi spiega lo chef Aliberti, il Covid li ha fatti riappropriare di un tempo che non conoscevano più. “Quello stop ha influito sulla mia salute mentale e sociale e mi ha fatto riflettere: ci sono ancora troppi problemi. Si lavora 12 ore al giorno, i pasti sono consumati in piedi prima del servizio come delle bestie e la mancanza di voglia di investire degli imprenditori in maggiore personale di fatto lascia poche persone a fare il lavoro a discapito di pesanti ripercussioni fisiche, economiche e mentali.”

Sui costi del lavoro troppo elevati, da parte degli imprenditori, specifica: “Gli imprenditori dovrebbero capire che è sostenibile rinunciare a qualche guadagno per fare vivere decentemente i lavoratori. Si può chiudere un giorno in più, rinunciare ai pranzi. Anche perché la nuova generazione di cuochi sarà ancora meno disposta ad accettare un sistema così obsoleto e con così pochi diritti.”

Gli chiedo se ha intenzione di tornare a dirigere un ristorante, ma mi risponde sinceramente che per il momento vuole dedicarsi ad altri progetti e non vuole tornare in cucina.

Rossella*, pasticciera e cuoca

Il gioco lo conoscono tutti: una piccola parte viene messa in busta paga e il resto viene dato in contanti. Quindi di fatto a più di 30 anni ho pochissimi contributi per la pensione

Rossella è una mia amica; da quando la conosco ha sempre lavorato in cucina. Negli ultimi cinque anni si è divisa tra cucina e preparazioni di pasticceria, che è il suo vero campo diciamo. Da un mese ha deciso di mollare, anche se non è ancora del tutto convinta. “Dove lavoravo non c’era praticamente personale: già da prima del Covid i proprietari erano di quelli che dicevano come fosse sufficiente quel numero di persone in una cucina che serve 70 coperti a sera. Ho scapocciato e me ne sono andata.” Uno dei problemi di cui ho parlato con Rossella, ma che è un grosso problema diffuso, è quello degli stipendi in nero o per metà in nero. “Il gioco lo conoscono tutti: una piccola parte viene messa in busta paga e il resto viene dato in contanti. Quindi di fatto a più di 30 anni ho pochissimi contributi per la pensione,” mi dice. “Diciamo che il lavoro duro lo posso accettare, ma durante questo periodo di apri-chiudi e di incertezze, la parte economica è l’argomento su cui ho riflettuto di più.”

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Secondo un’indagine di Restworld, sarebbero più di 500.000 le persone che lavorano in nero—o parzialmente in nero—in Italia nella ristorazione. Il 54% ha parlato apertamente di irregolarità nel ricevere soldi. “Al momento sto vivendo con la disoccupazione. Lo prendo come un periodo per pensare, non sono sicura di volerla lasciare del tutto. Ho sempre fatto solo questo da quando ho 18 anni, però così ho capito che non vale il gioco. Devo trovare un posto che sia giusto.”

Riccardo Manferdini, gestore

Con il Covid abbiamo dovuto chiudere il locale di cui gestivo sala e cantina a Bologna e ho capito di non volermici più ributtare

Riccardo mi ha contattato invece su Instagram, quando ero alla ricerca di persone da intervistare. Ha 29 anni e in cucina ci è nato, visto che suo padre era uno chef e la compagna del padre aveva un ristorante. “Mi ha sempre affascinato e appassionato lavorare in cucina e nei locali,” mi dice al telefono con accento emiliano. “Ho iniziato facendo la gavetta mentre ero al liceo e all’università ho continuato. Con il Covid abbiamo dovuto chiudere il locale di cui gestivo sala e cantina a Bologna e ho capito di non volermici più ributtare,” mi dice Riccardo. Ora lavora in un ufficio e si è ripreso il suo tempo: “Devo dire che non è mai stata una questione di soldi per me. È davvero il tempo la cosa che ti riprendi in mano. Così, dopo il periodo in cui prendevo la disoccupazione, ho trovato un lavoro d’ufficio.”

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Continua: “Però se posso dire la mia è un sistema che crea competizione a volte un po’ scorretta: oltre agli orari massacranti e spesso le paghe non adeguate, c’è anche il problema che tanti posti vengono aperti da persone senza un vero know how, che giocano a ribasso e costringono gli altri a farlo. È una concorrenza scorretta.” Oggi, oltre che in ufficio, per non rinunciare del tutto al mondo della cucina, Riccardo aiuta anche la sua fidanzata, che ha una bottega di alimentari. “Sfogo la mia passione in questo modo qui e almeno la aiuto.”

Sara*, cameriera

Per tutto il tempo che ho fatto la cameriera succedeva spesso che i colleghi scherzassero o minimizzassero il mio sentirmi donna. E a volte anche i clienti lo facevano.

Il caso di abbandono della ristorazione di Sara—mi ha contattato anche lei su Instagram—non è direttamente legato al Covid, ma alla discriminazione da parte di clienti e colleghi solo perché persona transgender. “Ho 26 anni e da circa tre lavoro come cameriera, per fare due soldi durante l’università,” mi racconta. “Non mi piace e ho cambiato diversi posti. Ora però, dopo essere stata ferma molto con la pandemia ho deciso di smettere. Me ne hanno dette di tutte.” Il lavoro di sala è spesso il più bistrattato e vive ancora dell’idea secondo cui non è un vero lavoro, ma un rimpiazzo in attesa di altro.

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E si crea una spirale in cui sono vere entrambe le cose: che sia solo un cliché; che effettivamente tanti che hanno lasciato la ristorazione lo abbiano fatto senza troppi scrupoli perché era un lavoro di ripiego. Tornando a Sara: “Per tutto il tempo che ho fatto la cameriera succedeva spesso che i colleghi scherzassero o minimizzassero il mio sentirmi donna. E a volte anche i clienti lo facevano. Pure questo secondo me è un aspetto che noi più giovani teniamo in considerazione se dobbiamo scegliere di fare un lavoro così impegnativo.”

Insomma il Covid è stata una piaga, certo. Ma potrebbe rappresentare l’inizio di una rivoluzione sistemica di cui la ristorazione ha un gran bisogno.

*I cognomi sono stati omessi per questioni di privacy e per volontà degli intervistati

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