Chef e stress in cucina
Foto by Nick Karvounis via Unsplash

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Cibo

Cosa spinge gli chef ad abbandonare le cucina, secondo chef e psicologi

Come fanno gli chef a lavorare 10 ore al giorno, senza vacanze e senza dormire? E cosa significa essere stressati quando si lavora nell'alta ristorazione?
Andrea Strafile
Rome, IT

Questo post fa parte della Guida di VICE alla salute mentale, realizzata da VICE e MUNCHIES in collaborazione con Progetto Itaca in occasione della Giornata mondiale per la salute mentale.
Puoi vedere tutti gli articoli della serie qui.

“Ho iniziato a interessarmi alla psicologia e alle patologie legate agli chef quando, qualche anno fa, ho visto uno chef lavorare. Stavo lì a guardarlo e continuavo a dirmi che non era umanamente possibile che il suo cervello potesse gestire tutte quelle cose insieme e imparare a dei ritmi così veloci. Tutto questo per diverse ore al giorno.” Antonio Cerasa è uno psicologo neuroscienziato ricercatore al CNR. Collabora attivamente da diversi anni con la Federazione Italiana Cuochi, con cui ha da poco intrapreso un progetto di ricerca. E ha pubblicato un libro dal titolo Diversamente Sano: Liberi di Essere Folli, dove parla ampiamente della condizione degli chef in cucina.

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Lavorare in cucina è stressante, i cuochi lo dicono in tutte le interviste e in tutti i programmi tv. Ma difficilmente si comprendono le ragioni che rendono così "particolare" questo lavoro, almeno fino a quando non ci sono casi che fanno clamore, come quello di Benoit Violier, chef svizzero in cima a tutte le classifiche mondiali che decide di suicidarsi, pare in seguito a una truffa.

Difficile pensare un gesto di questo tipo non sia dovuto anche a un carico di lavoro così intenso. Essere uno chef è come essere un generale. E ci perdonerete il paragone militare, ma non ne esistono di migliori. Non si gestiscono solo imprevisti, si deve vincere tutte le volte. È un mestiere tanto stressante che non è raro vedere chef, anche importanti, abbandonarlo. Ferran Adrià e Marco Pierre White, per dirne due.

Difficilmente noi chef molliamo, ma questo non vuol dire che non abbiamo stress addosso. Anzi, siamo spesso la causa di giovani che lasciano la cucina credendoci dei completi pazzi.

E poi c’è invece chi non molla, anche perché non è facile trovare un lavoro diverso se hai fatto solo il cuoco. Ti avvolge. In condizioni da pazzi, con orari di molto oltre il normale, sfiorando anche le 18 ore, e molto spesso senza tenere conto delle normali festività.

Avere una famiglia e fare lo chef è possibile, ma c'è bisogno di paletti concreti per far convivere le due cose. Recentemente c’è stato il caso di questa famiglia gallese che ha chiesto alla Michelin di riprendersi la stella per avere più tempo da passare coi bambini. Le guide gastronomiche, e la competizione che ne deriva, fomentano lo stress e in certi casi rischiano di inasprire le condizioni di lavoro.

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Per questo articolo, sono partito con l’idea di trovare diverse storie di persone che a un certo punto hanno detto basta e hanno deciso di chiudere definitivamente con la cucina. E invece mi sono imbattuto solo in una sola persona capace di tagliare del tutto ogni legame. La sua storia, però, è molto diversa da quella della maggior parte degli chef. Un ragazzo, laureato, con la passione per la cucina, che ha fatto qualche esperienza in Italia per poi approdare al Noma di Copenaghen, ristorante tra i più importanti al mondo. “Guarda purtroppo non posso dirti nulla. Uno perché c’è una sorta di riservatezza come per i medici, due perché è una ferita ancora fresca e non ne voglio parlare”.

Non so il perché, ma di sicuro qualcosa di grosso deve essere successo.

Parlando con lo chef stellato Gigi Nastri, mi ha fatto capire che non si lascia una cucina per lo stress. Lui l’ha fatto, ma perché non credeva più nel progetto. Lo chef romano ha appena lasciato le due cucine che gestiva per dei progetti oltreoceano di consulenza. Mi racconta: “Mio nonno era cuoco, mio padre pure, in cucina ci sono nato”, mi dice. In effetti molti di loro vengono da famiglie di ristoratori. “Difficilmente noi chef molliamo, ma questo non vuol dire che non abbiamo stress addosso. Anzi, siamo spesso la causa di giovani che lasciano la cucina credendoci dei completi pazzi. Trasferisci il tuo stress a loro a volte, e non sanno come gestirlo quindi decidono di andarsene. Poi sono buddhista, e mi aiutava parecchio a lasciare andare certe cose.”

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Facendo un passo indietro: in generale, chi fa il cuoco, poi lo fa per sempre.

A un certo punto sono crollato, ho passato mesi in ospedale, fino a che non ho conosciuto lui, il mio mental coach

C’è chi si fa aiutare per gestire la mole di lavoro e lo stress che ne deriva e chi invece semplicemente torna a casa e si schianta sul letto qualche ora prima di svegliarsi presto la mattina e ricominciare.

Un altro chef importante - che preferisce rimanere anonimo - mi ha parlato della sua personale esperienza e di come l’affronta. Quando gli ho chiesto se conoscesse qualcuno che va da uno psicologo, pensando già di pescare a vuoto, mi ha risposto: io. “Non direi proprio che sia uno psicologo, è piuttosto un mental coach. Ci sono delle volte che devi smorzare i tuoi livelli di stress diventi completamente pazzo. Non ho vizi, non fumo, non bevo, ho solo la cucina, quindi devo per forza trovare uno sfogo”.

Continua: “Per diverse ragioni ho mollato il mio precedente ristorante in cui avevo dato tutto. All’epoca sono stato io a sceglierlo, perché mi sono reso conto che era una cosa più grande di me. Così sono crollato, ho passato mesi in ospedale, fino a che non ho conosciuto lui.

Il cervello di chi lavora in cucina ha la zona dell’apprendimento più grande di tre volte rispetto a quello di una persona normale.

Stress molto elevati portano scientificamente a dei danni fisici. Spesso si circoscrivono ad alcune precise aree, ma alle volte capita che si presentino in altri punti. “A me è successo con le orecchie. Non ci sentivo bene. Ho scoperto che era il mio meccanismo di difesa quando ero a pezzi.” Lui sta combattendo la cosa con l’omeopatia, e pare gli stia riuscendo, altrimenti ci sono farmaci.

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In assenza di una diagnosi o di un consulto, il problema è che spesso per mitigare lo stress da lavoro, i cuochi fanno ricorso a sostanze stupefacenti e alcool. Nella prima categoria regina di tutte è la cocaina, che scorre da decenni a fiumi nelle cucine, così da farti lavorare come un toro senza sentire la stanchezza, nella seconda beh, una sbronza aiuta a dimenticare.

L'anno scorso Gordon Ramsey ha dichiarato in un’intervista come quello della coca nelle cucine sia un problema enorme. Dal cliente che chiede soufflè con la droga dentro, ai cuochi che si fanno di pasticche e sniffano per non sentire le 16 ore di lavoro. A leggere sembra quasi che in Italia non succeda, ma è una cosa solo taciuta, il problema è anche qui da noi, soprattutto per i più giovani.

Dicevamo: il dottor Cerasa, dopo aver visto quanto lavora uno cuoco nelle grandi cucine, ha deciso che proprio l’ambiente degli chef sarebbe stata la sua materia di ricerca. È riuscito ad accedere a un database di 18.000 iscritti, della FIC, e a proporre dei questionari per capire cosa comporti lavorare molto tempo in cucina e soprattutto che tipo di stress veniva raggiunto.

“Di base sappiamo che l’attività intensiva che compiono modifica il loro cervello. Alcuni lavori, chiamate “super-attività” determinano delle richieste che il cervello non potrebbe soddisfare. Come i musicisti, per esempio o, nel nostro caso, i cuochi. La cosa non è correlata direttamente allo stress. Il cervello di chi lavora in cucina ha la zona dell’apprendimento più grande di tre volte rispetto a quello di una persona normale. Ma è chiaro che l’attività intensa, unita alle altre cose che deve gestire uno chef porta a una condizione di stress”, mi dice cercando di farmi capire.

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“I tipi di stress sono due: adattivo, che riguarda la sfera di attività frenetiche ma gestibili potenzialmente; maladattivo, che invece è quello che porta a problemi organici, a malattie, perché si spinge il corpo e la mente oltre le proprie capacità”. Il dottor Cerasa continua: “Secondo una ricerca di Stanford, questo tipo di stress maladattivo porta all’allontanamento dalla famiglia, a mancanza di sicurezza e al non avere controllo del proprio lavoro. I giornalisti subito l’hanno associato agli chef, ma è solo in linea teorica. Noi stiamo provando a dimostrarlo”.

Lo stress maladattivo in pratica è così forte da essere capace di sviluppare vere e proprie patologie. Oltre ai problemi di postura e ossei, molte delle malattie colpiscono l’apparato digerente, stomaco e intestino. “L’apparato digerente è il primo che si ribella alla condizione di stress”.

Mentre si sta diffondendo un aiuto psicologico in alcuni ristoranti come El Celler De Can Roca, che ha assunto una psicologa una volta a settimana, e in alcuni locali si cerca di alleggerire il carico di lavoro con dei turni molto più sostenibili, iniziano a nascere associazioni che cercano di tutelare la salute mentale dei cuochi. In Inghilterra, per esempio, due anni fa è nato, grazie all’ Associazione professionale cuochi italiani del Regno Unito un supporto psicologico nel pomeriggio, quando si stacca dal lavoro. In un’intervista Carmelo Carnevale, presidente dell’associazione, spiega come sia necessario, dato che lavorano per 16 ore ininterrotte, spesso e volentieri. E dormono una manciata di ore prima di ricominciare.

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“È praticamente impossibile che riescano a fare delle sedute da uno psicologo”, mi dice invece il Segretario Generale della FIC Salvatore Bruno. “Non hanno il tempo, il tempo in cucina non esiste, non si hanno orologi. E poi ci sono i turni che magari si raddoppiano e la situazione degli stagionali o dei catering, che concentrano in un tempo limitato ogni briciolo di energia. Con questi ritmi abbiamo visto, da alcune visite convenzionate che abbiamo fatto fare ai nostri affiliati che l’85/90% di chi lavora in questo settore ha problemi di postura già a 35 anni”.

La passione è la base per fare lo chef, e la passione non si spegne nonostante lo stress. Per questo motivo gli chef che ho sentito, dalla ragazza in brigata a quello navigato, alla fine possono aver mollato un po' la presa, ma non lasciano mai davvero.

Una chef - anche lei preferisce rimanere anonima - prima faceva panini gourmet. Per prendersi una pausa dalla ripetitività, ha deciso di stare in cassa e si è re-inamorata di quello che faceva entrando nella brigata di Massimo Bottura. “Non ho mai staccato dalla cucina, se l’ho fatto è successo davvero per un mese. E comunque secondo me lavorare in un posto piccolo, magari da soli, magari con pochi strumenti, è molto peggio. Da Bottura, ma penso in un tre stelle in generale, era più facile perché ognuno aveva il suo compito. Tutti facevano le cose assegnate e la squadra non si inceppava mai. Quindi sì, ti stressi, ma l’ambiente è molto più armonioso, stai meglio.”

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Non ho mai mollato, non ho mai pensato di mollare e non ho mai visto nessuno farlo. Lavoro in cucina da quando ho 12 anni, ho imparato a gestire tutte le situazioni

Non ci sono solo casi limite e negativi: Eugenio Boer, che da poco ha aperto il suo ristorante a Milano Bu:r, che si è definito una persona instressabile. "Non ho mai mollato, non ho mai pensato di mollare e non ho mai visto nessuno farlo. Lavoro in cucina da quando ho 12 anni, ho imparato a gestire tutte le situazioni. Non solo non riesco a stressarmi - perché quando sei concentratissimo non lo senti nemmeno -, ma sono quello che durante il servizio se gli animi si scaldano, abbasso i livelli di stress degli altri. Ho lavorato un po' ovunque nel mondo, dall'Italia all'Asia passando per la Francia e se ti dicono che una cucina è più dura di un'altra non è vero. In Francia fu molto dura, ma è la stessa cosa in Italia in certi ristoranti, non c'è differenza."

Ha chiuso la telefonata dicendomi come ha ricavato due porzioni di primi da una sola smembrando tutti i tortellini e rifacendoli a tempo di record. Questo significa avere i nervi saldi.

Ci sono anche casi come quello di David Chang, chef e personaggio televisivo statunitense, che qualche mese fa nel suo podcast numero 18 si riallaccia alla morte dell'amico Anthony Bourdain per parlare di malattie mentali e cucina. "Vi chiedo scusa perché questo non sarà uno dei miei soliti podcast", comincia. E per 24 minuti con voce seria e grave racconta di Bourdain, dei suoi colleghi che hanno dichiarato di aver avuto problemi a causa del loro lavoro (come Chris Cosentino, che ha fatto outing in un video sulla sua salute mentale), del sistema sanitario americano e, soprattutto, di se stesso. Racconta della sua depressione, che lo accompagna da una vita, e di come sia riuscito a tenerla a bada da quando ha aperto il suo ristorante Momofuku Noodle Bar. " Momofuku è stata la mia terapia, il mio mettermi in gioco ogni giorno come se non ce ne fossero altri". La storia di Chang è positiva, simile a quella di Eugenio Boer, per cui il lavoro in sé non è lo stress, anzi, una soluzione a una malattia pregressa.

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Difficilmente gli chef abbandonano le cucine dunque, perché, come mi ha detto il dottor Cerasa, sono amati. Sono rispettati. Sono apprezzati. E puoi avere tutta l’ansia per le guide e lo stress per il servizio del mondo, ma quando hai l’adrenalina per ore, tutti i giorni ed esci dalla cucina per stringere mani come un artista raffinato e la tua brigata ti ascolta e rispetta i ruoli, non puoi più farne a meno.

Questo non toglie, però, che cercare aiuto - chiedendo un parere a uno psicologo o a un mental coach - quando i ritmi diventano insostenibili sia la scelta più salubre possibile.


Progetto Itaca è un’associazione di volontari per la salute mentale. Se hai bisogno di aiuto o vuoi entrare in contatto con loro, chiama il numero verde 800 274 274 (02 29007166 da cellulare) o scrivi una mail a info@progettoitaca.org.

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