Curava la febbre dei pastori, ma il vero obiettivo del Varnelli era correggere il caffè
Foto per gentile concessione dell'azienda Varnelli

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Curava la febbre dei pastori, ma il vero obiettivo del Varnelli era correggere il caffè

Un’azienda di famiglia con 150 anni. Il Varnelli è religione nelle Marche e scalda la pancia al gusto di anice nel resto d’Italia.
Andrea Strafile
Rome, IT

Il Varnelli è secco, non ti lascia in bocca quella nota dolciastra che potrebbe dare invece una sambuca. Il che lo rende perfetto per correggere il caffè.

Ogni anno, il primo giorno di scuola al liceo, era scandito da un rituale comune da farsi prima di entrare alla prima ora.

Ci si incontrava al bar di fiducia accanto alla scuola e con fare sospetto si ordinava a bassa voce una decina di caffè corretti, chiaramente sicuri che i signori ben vestiti accanto ci stavano guardando di soppiatto giudicando questi giovani che sarebbero stati la rovina del futuro. Si brindava, come con uno shottino, e si buttava giù quel caffè bollente che con l’alcol al sapore di anice ti riscaldava lo stomaco, ti dava nuova fiducia nel mondo e ti faceva sentire una persona vissuta.

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Calendario Varnelli 1948. Per gentile concessione di Varnelli.

Per quella goccia abbondante di correzione, il barista prendeva dallo scaffale una bottiglia con l’etichetta verde e la scritta in rosso bella grande che diceva semplicemente VARNELLI”. L’anice secco speciale.

A differenza degli altri liquori o distillati al sapore di anice, il Varnelli è secco, non ti lascia in bocca quella nota dolciastra che potrebbe dare invece una sambuca. Il che lo rende perfetto per correggere il caffè.

Importato da Sparta, in Grecia, dai veneziani, nel 1687, il mistrà ha fatto il suo tempo prima che i veneziani se ne stufassero dopo l’avvento dei francesi e degli austriaci. Si beveva con un’aggiunta di acqua e i mali della giornata scomparivano in un attimo. Una volta decaduto dall’uso comune, il mistrà, questo liquore limpido al sapore di anice, è stato riesumato dalle Marche e immesso sul mercato su vasta scala da Antonio Varnelli, che aveva ereditato dal padre la distilleria di famiglia.

Oggi praticamente mistrà e Varnelli sono sinonimi. Non c’è un solo bar nelle Marche dove manchi questa bottiglia. Da usare anche liscio o con seltz, come recitavano le pubblicità degli anni ’50.

Pubblicità degli anni 50. Foto per gentile concessione di Varnelli

Siccome quest’anno cade il 150esimo anniversario della sua nascita, ho pensato fosse doveroso saperne di più di questo liquore della mia adolescenza, svelandone i retroscena, i meriti, le storie, gli aneddoti di una delle aziende italiane di liquori che dopo tutto questo tempo non solo è prosperata, ma non è mai stata posseduta da altri se non dalla famiglia originaria. E ora, a gestire il tutto, ci sono solo donne, di diverse generazioni. Rampanti e tradizionali.

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Quando mi capita di parlare di distillati e liquori, viene quasi sempre fuori che quella tale bottiglia ha una storia incredibile perché serviva come rimedio per curare qualsiasi sorta di malattia. In effetti, come insegnano bene i monaci, non è affatto raro. Tipo il Fernet che serviva per curare il colera, ad esempio.

Per una volta, invece, non è proprio così. Su Wikipedia si legge che il Varnelli era stato inventato per curare la malaria dei pastori. La realtà è che invece questo liquore è stato semplicemente l’estremizzazione di una ricetta in uso da molto tempo in quelle zone mediterranee che pullulano di erbe.

In pratica questa bottiglia è l’esempio di una delle strategie di marketing italiane più riuscite del secolo passato. Poster, auto brandizzate, e la questione del caffè corretto su cui la famiglia ha investito tutte le proprie forze in prima linea. Al telefono la musichetta per l’attesa ti dice in continuazione come il Varnelli nel caffè “più gusto gli dà”; Antonio Varnelli, genio delle vendite, fece scrivere la frase “A farmi preferir basta un assaggio”.

A dire il vero il fondatore della distilleria, Girolamo Varnelli, era seriamente un erborista, profondo conoscitore delle erbe medicinali. Nel 1868 ha fondato la sua azienda sui Monti Sibillini – oggi Parco Nazionale - e si è servito delle conoscenze sulle erbe apprese anche in ambiti monastici per creare l’Amaro Sibilla, il primo prodotto dell’azienda, che fu pensato da Girolamo come antimalarico e antifebbrile per i pastori che compivano la transumanza tra i Monti Sibillini e la Maremma. Nel nome della genziana. Ovviamente non c’è stata una sola volta in cui non abbia consultato medici e scienziati per essere certo della validità del prodotto.

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Girolamo Varnelli

Questo amaro, oltre ai suoi poteri medicamentosi, è stato il primo prodotto della prima azienda a possedere una licenza per trasformazione di alcolici nelle Marche. Quindi, perchè lo sappiate, Varnelli è la prima azienda delle Marche a vendere alcol trasformato con la sua licenza UTF N.1. Giusto per aumentare l'alone di leggenda.

Se pure ormai l’amaro non serva più a scopo medicinale, ma è un fine pasto o usato nei cocktail in tutto il mondo fin dai primi anni del ‘900, il vero protagonista dell’azienda di Muccia, in provincia di Macerata, è il mistrà all’anice, l’anice secco speciale. Ovviamente con una ricetta segreta.

Varnelli per cocktail

Quando ho sentito la signora Orietta Maria Varnelli, una delle donne di famiglia a gestire il tutto, ho provato a farmela dire, ma niente da fare. Il mistrà lo fanno tutti, ma quello che fanno loro è speciale. Complici il gusto, ma anche una voglia di farsi conoscere fuori dal comune per quei tempi.

“Papà (Girolamo Varnelli, ndr.) era completamente convinto di riuscire a ottenere quello che voleva. Un po' perché conosceva profondamente il prodotto all’anice, un po' perché sapeva quali potenzialità avesse. La correzione del caffè è sempre stata un punto fisso e ci teneva a educare le persone. Ricordo che anni fa, nel bar-pizzeria che porta il nostro nome, era solito andarci in orario di lavoro, o dopo, per correggere personalmente gli espressi delle persone.

Velina da incarto di inizio '900 con la Sibilla Appenninica dell'artista Adolfo de Carolis

Il luogo, Pievebovigliana, da quanto traspare, non è per la famiglia Varnelli un posto con una fabbrica volto a produrre profitti. C’è un legame, da sempre, che inevitabilmente li porta a essere un po' un faro della comunità. Parte attiva della comunità. Come una grandissima famiglia.

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E c’è l’amore per tutte le fasi della lavorazione. In prima persona.

“C’è una foto vecchia, sempre di mio padre, in cui è seduto sul cofano di una macchina brandizzata”, mi dice. “Stava partendo per i monti per andare a prendere personalmente la genziana”.

Una di quelle foto sgranate, con uomini duri che fissano l’obiettivo come prima di una spedizione importante.

A quanto pare, il Varnelli all’anice, non è quel liquore che fa andare in visibilio i marchigiani tutti, è roba seria. A parte i viaggi che ha compiuto soprattutto all’inizio con l’amaro Sibilla già negli anni ’20 in USA, usato nella mixology anche più contemporanea oltreoceano, la chicca tutta italiana è che sembra essere stato il liquore preferito addirittura da Pavarotti. Non il nocino delle sue terre, ma la freschezza tutta all’anice.

“Non l’abbiamo conosciuto di persona noi sorelle, purtroppo. Però più di una volta parlando con Zucchero, abbiamo saputo di serate in Italia e all’estero dove il nostro Varnelli era sempre presente. Naturalmente è un grandissimo onore sapere di aver dato forza a un personaggio come Pavarotti”.

Al vertice, da ormai molti anni, ci sono solamente donne. Le tre sorelle e la madre, la dottoressa farmacista Elda. Un’azienda vecchia come l’Italia con a capo solo elementi femminili è un bel faro da mostrare, soprattutto in un mondo, come quello degli alcolici dove, penso, ci sia un’attenzione tutta maschile.

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Siamo cresciute con un padre che non ha mai detto di volere dei maschi. È stato tutta la vita a lavorare insieme a nostra madre, si accendevano a vicenda e dopo la sua morte abbiamo fatto tutto come ci ha insegnato. Mi sorprendono sempre i frequenti studi volti ad analizzare il "fenomeno" dell'imprenditoria femminile: credo sia tempo di andare oltre, basta assumere in modo strumentale un modello come "norma", basta con i generi.”

Nel 2016 ero a letto, era notte. Sopra la testa avevo la libreria, in un attimo ero coperto di libri. La terra ha tremato nel centro Italia, ha tremato tanto forte che ballava casa mia a centinaia di chilometri. In quell’anno, in quel momento, sempre, l’azienda Varnelli era lì, proprio accanto all’epicentro. “Quella del terremoto è stata un disastro”, continua Orietta. “ma, come ho sempre detto, siamo una comunità, una famiglia. Il sisma ha drammaticamente compromesso il racconto di vita di ognuno. Un generale, doloroso disorientamento permane, ma la comunità ha dimostrato fino dalla prima ora di reagire con virtuose energie e lucida tenacia. Per noi e per la nostra azienda familiare il legame con il territorio è un valore profondo e identitario, coltivato con orgoglio d'appartenenza, nella consapevolezza che vivere e lavorare alle pendici dei Monti Sibillini rappresenta un privilegio, non è una cosa che si butta via. Lavoreremo, aiuteremo, verremo aiutati.”

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I diritti dei lavoratori sono dalla seconda generazione una priorità. Così come allora, anche oggi, in una sinergia dove ci si prende per avere il prodotto perfetto.

Con la sua scritta rossa non ci si confonde. Con le etichette liberty degli artisti che realizzavano le pubblicità negli anni ’50 e anche prima non si sbaglia. Mezzo cucchiaino di liquore nel caffè bollente. Le temperature diverse, la pancia che si riscalda.

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