Festa maiale Calabria
Foto di Rosario Curia per Munchies Italia

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Cibo

Perché l'uccisione del maiale in Calabria è un rito ancora così importante

Saltavo la festa del maiale da 10 anni. Quest'anno sono sceso nella mia città d'origine, Cosenza, e non me la sono fatta sfuggire.

Una volta da calabrese era perfettamente ovvio che tutti sapessero che generalmente a inizio anno “si fa il maiale”.

Attorno ai primi d’agosto dell’anno scorso ricevo una notifica di WhatsApp che dice “Sei stato aggiunto al gruppo ‘[emoji con naso di maiale] 09/02/19’”. Il primo messaggio della chat suggerisce che non dobbiamo prendere impegni per il nove di febbraio, il “giorno del maiale”. Non ho un’agenda così lunga quindi funziona.

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Nel cosentino, nel catanzarese, nel reggino, in Calabria e qua e là in Italia, esiste da secoli un rito che prevede da sempre questa stessa procedura meno Whatsapp: una famiglia sceglie una data dei primi mesi dell’anno, prepara un maiale per circa tre giorni, lo “veglia” davanti a un pentolone per la notte, lo mangia con le persone più care.

Alcuni la chiamano “maialatura” ma è un termine che onestamente da calabrese non ho mai sentito, o quadara, o caddara in base alle zone. Altri pensano risalga addirittura ad antiche abitudini della Magna Grecia; altri ancora a secoli più recenti. È sicuro però che si tratti di un una tradizione che rimanda a tempi modesti in cui quasi ogni famiglia ambiva ad avere almeno un maiale che rappresentasse la sola, vera e arcinota ricchezza.

Si faceva attenzione a non sprecarne nulla, lo si sfruttava tutto l’anno come fonte proteica facile da conservare e lavorare, e lo si preparava nelle settimane più fredde per rendere più semplice la manipolazione e la conservazione delle carni.

 Festa uccisione Maiale Rosario-Curia

Foto Rosario Curia

Da qui la nascita di questa specie di festa tra dicembre e febbraio estesa ad amici e parenti, durante la quale si consumava il maiale quasi nella sua totalità e si preparavano le parti che nei mesi successivi sarebbero state sfruttate per gli insaccati — salsiccia, soppressata, capocollo, pancetta, 'Nduja.

Questa cosa si fa ancora oggi: allevandone uno, o comprandolo, o semplicemente prendendo quello che serve dal macellaio. E una volta da calabrese era perfettamente ovvio che tutti sapessero che generalmente a inizio anno “si fa il maiale”. Ma questo rituale gastronomico folk, sebbene sia radicato in molte altre parti d'Italia, inizia a scomparire, e per questo, penso, meglio partecipare.

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Maialetti-Rosario Curia

Quindi mi tengo libero per il nove di febbraio, per il “maiale” di questo vecchio amico, per un evento che diserto da più di dieci anni. Dopo aver confermato la mia presenza chiedo già ad agosto di poter seguire tutta la giostra dall’inizio alla fine. A fine dicembre sono in una porcilaia a sud di Cosenza per scegliere un maiale.

Peppino-l_allevatore Rosario-Curia

Peppino, l'allevatore.

allevatori maiali cosenza

L'autore a tavola con gli allevatori

Peppino è un contadino che è esattamente come dovremmo immaginarci i contadini di oggi: cioè come quelli di una volta, con gli stessi cicli lavorativi e le stesse abitudini, ma con un cappello da baseball della Wurth.

Lui e sua moglie ci accolgono in un capanno per metà cucina “vecchia Calabria”, per metà spazio adibito al dissanguamento dei maiali. Il loro essere genuini è — giuro — direttamente proporzionale alla genuinità del salame che ci offrono e del vino del posto che ci versano da vecchie bottiglie di Cora — un amaro la cui etichetta è fatta per immalinconire padri e nonni.

Mentre beviamo e ci vengono preparate delle colazioni — il pane fresco con la salsiccia — si decide quando il maiale verrà consegnato. Peppino annota tutto su un calendario a muro scrivendo a penna.

Mi spiegano che un tempo si stendeva il maiale su una specie di panca a liste perché il sangue potesse scivolare per terra.

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Peppino segna sul calendario

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Scrofa

Spostandoci verso le stalle per la scelta mi soffermo su una specie di lettino che immagino essere stato l’ultimo giorno per diverse creature. Immagino bene: quindi se siete impressionabili andate direttamente alla parte con le foto dei piatti cucinati.

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La panca per uccidere il maiale

La panca

Mi spiegano che un tempo si stendeva il maiale su una specie di panca a liste perché il sangue potesse scivolare per terra. Lo si legava per le zampe e lì lo si sgozzava col cosiddetto “scannaturu”, un coltellaccio, da orecchio a orecchio — a quanto pare esisteva anche una specie di formula propiziatoria da far recitare a chi teneva in mano la lama: “E mo jett’ o sang”.

Con una carrucola poi lo si sollevava dalle zampe posteriori e lo si lasciava appeso a dei ganci a perdere il sangue — che se raccolto in tempo e agitato per evitare la creazione di coaguli poteva diventare sanguinaccio, un composto dolce cotto in pentola con cioccolato e altri ingredienti che cambiano da zona a zona.

Tutto questo — però — “una volta, oggi non si può più fare”. Adesso per legge è necessario l’utilizzo di pistole a proiettile captivo per lo stordimento, così com’è obbligatorio il successivo controllo delle carni da parte dell’ASL.

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Peppino con sua moglie controlla i maiali.

Dopo aver fatto un giro nella fattoria e domandato quanto costasse una gallina — 15 euro — Peppino ci porta a vedere i suoi maiali.

Ci sono i piccoli, le mamme e una “tripla” con altri tre che mi sono sembrati giganteschi. Non avevo mai visto un maiale dal vivo e non credevo fossero così enormi. “Più o meno pesano sui 280 chili,” mi spiega Peppino.

Il porcile è pulitissimo, gli occhi dei maiali fanno impressione — stesso motivo: non li avevo mai visti. “Di solito si scelgono quelli più grandi e con meno grasso, ma dipende dai gusti. Ovviamente è impossibile non abbiano grasso, per quanto sono grandi. Ma è meglio se sono in forma.”

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Ce n’è uno in formissima. Peppino marca il prescelto sopra la schiena con una bomboletta rossa. È brutto da dire, ma lo rivedrò a febbraio in una pentola di rame.

Il maiale viene ucciso più o meno tre giorni prima del pranzo, e da lì in poi comincia ad essere lavorato

Se quella della selezione può sembrare una normalissima, macabra compravendita, il rito della veglia — settimane dopo — ha sicuramente qualcosa di più letterario.

Innanzitutto il maiale viene ucciso più o meno tre giorni prima del pranzo, e da lì in poi comincia ad essere lavorato: si devono radere le setole con grossi coltelli, acqua bollente, se serve anche dei normalissimi rasoi; si deve sfasciarlo; lo si divide in parti e conservato in grosse bacinelle piene d’acqua: quella con coda, naso, orecchie, zampe, muso; quella col cuoiu (la cotica); e quelle con le costine, col filetto e con le frittole — che sarebbero le tre carni.

Più guardo il pentolone ripieno delle carni molli del maiale più mi sembra uno stufato di tofu.

La sera prima, quella della veglia propriamente detta, è quella in cui si prepara la quadara. È un pentolone di rame o alluminio nel quale si lasciano a bollire per tutta la notte le parti molli, alle quali poi si aggiungono quelle meno nobili.

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La Quadara. Foto di Vincenzo Marino.

È necessario trascorrere la notte a mescolare il contenuto del pentolone avendo premura di farlo costantemente ed evitando che il grasso si accalchi sulle sue pareti. Più guardo il contenuto della della quadara più mi sembra uno stufato di tofu.

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Per tradizione — o almeno per come è arrivata in queste zone — il padrone di casa costruisce una piccola croce con due rametti d’ulivo e la mette sulla maniglia della quadara per buon auspicio. Così:

Croce-sulla-quadara Vincenzo Marino Munchies

La croce sulla Quadara. Foto Vincenzo Marino

Ad ogni modo sono le tre, mi trovo su una collina in provincia di Cosenza e sto mescolando una quadara con un mestolone di legno insieme ad altri quattro o cinque amici. Sul pavimento frittole e costine stanno prendendo acqua per conservarsi al naturale.

Il mio compito è stare attento a mescolare bene il pentolone quando è il mio turno, perché ha dentro tipo 15 litri d’acqua e probabilmente una dozzina di chili di maiale, e seguire il ritmo concentrico di questo melmone trascinante non è facile — ma neppure così essenziale.

Si potrebbe dire che il mio contributo è più o meno nullo, cosa che mi fa pensare a un vecchio modo di dire che ho letto documentandomi sulla cosa: alle persone inutili si diceva qualcosa tipo “reggi la coda del maiale” mentre lo si sgozzava. La coda è innocua e lo sono anche io.

“Mina ari lati, ammacca u grassu”, picchia sui bordi e rompi il grasso, ci viene detto prima di lasciarci la quadara in consegna. I cubetti cominciano a sciogliersi dopo qualche ora: i pezzi più superficiali del grasso, una specie di schiumetta mista a pezzetti di carne, è la parte di quadara che diventerà scarafuagli — cioè quello che risale in superficie dalla lunga cottura.

Quadara calabria

Foto Vincenzo Marino

È simile a quella cosa che a Napoli chiamano “cicoli”, e altrove “ciccioli” o “sfrizzoli” in base alle varianti. La versione cosentina è molto più soddisfacente da pronunciare e si serve sopra al pane abbrustolito con un po’ d’olio e del peperoncino.

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Mangiamo pane con caciocavallo, proviamo il vino del giorno dopo — ovviamente delle vigne intorno, un misto di Gaglioppo e Magliocco locali. Mescoliamo fino all’alba, penso di aver sbagliato abbigliamento perché forse puzzo di cotenna. Andiamo a dormire per le sei.

È tutto più buono di quanto ricordassi o forse è il fatto che vivo a Milano da anni e sotto casa fanno i macaron di sushi.

Scarafuagli

Scarafuagli. Foto Rosario Curia

Capisci che è il giorno del “maiale” e tu sei coinvolto quando sei in piedi davanti al buffet degli antipasti, hai il bicchierino da osteria in mano e stai mangiando diverse polpette che sanno di carne-carne-carne.

Hanno il sapore di quell’odore di grasso animale della sera prima ma in senso buono — provengono dallo stesso animale: DUH. Sulla tavola delle entrée ci sono gli scarafuagli, dei pipazzi gaddri — una varietà di peperoni da soffriggere e rendere croccanti — e gelatina di parti di testa di maiale che per ovvi motivi di tempo non è di quel maiale, ma insomma siamo in tema.

Gelatina-Rosario-Curia

Altra cosa che ti fa capire che sei a un “maiale” è il fatto che lo stesso a volte condivide il ruolo principale con l’inaspettato protagonismo della verza. Almeno qui.

Più maiale c’è, più verza c’è. E più arrivano piatti a base di verza, più mi convinco che in tempi molto antichi — e ricchi di acciacchi gastrointestinali — alcuni nostri saggissimi avi abbiano capito che è meglio cominciare, o comunque proseguire, con abbondanti dosi di cose verdi. O comunque che sono semplicemente due sapori che stanno bene insieme.

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Peccato che anche nella verza ci siano scarafuagli. È tutto più buono di quanto ricordassi o forse è il fatto che vivo a Milano da anni e sotto casa fanno i macaron di sushi.

La verza è il primo piatto che arriva a tavola — o “tavole”, perché sono tre o quattro per più di cento invitati — e accompagnerà quasi tutte le portate. Mi prometto invano di non strafare. La seconda verza che arriva è china, ripiena: si prende la foglia sbollentata, la si riempie di trito di maiale, pecorino e po’ di prezzemolo. Poi tutto in forno a legna.

Verza China
Carni Rosario-Curia

Carni

Ma appunto, alla verdura vanno accompagnate le carni-carni. Ci sono muso, naso, orecchie, cotiche e le nostre frittule — qui la parte che comprende il cuoiu, il grasso, e la carne vera e propria. Tutte cose che ho sempre fatto finta di mangiare.

Il cuoiu, in particolare, è il classico piatto da “grandi”: più sei vecchio più ti piacciono cose come queste, o come la trippa. Non è scienza, è un dato empirico personale: a noi ragazzi piacciono i broccoli di rapa e salsiccia.

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Salsiccia in Pentola.

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Broccoli di Rapa e salsiccia più fegato.

I broccoli di rapa e salsiccia sono grossomodo i “salsiccia e friarielli” napoletani, ma Cosenza ci piace pensare sia un piatto solo nostro e che le cime di rapa non si trovino nei supermercati del Nord. Comunque sia è una delle cose che preferisco di più nella vita e a me sta bene così.

Ovviamente anche questo piatto non include pezzi del maiale di dicembre essendo composto dalla salsiccia — e quindi da un insaccato. Ma non esiste che a Cosenza ci sia una tavola imbandita a festa e questo piatto non passi da mano a mano.

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La cosa comunque viene farcita da pezzi di fegato del nostro, quindi il problema neanche si pone.

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L'autore che brinda

La signora Iolanda, la cuoca, si prende un momento di pausa. “Li ho contati,” ci minaccia parlando dei pezzetti di salsiccia che stiamo fotografando mentre cuociono all’aperto. “Se ne mancano vengo a prendervi.”

“Sto cucinando dalle sette, e sono le due del pomeriggio. Siamo arrivati alle due del venerdì…” La sua famiglia le dà una mano. A quel punto mi passa davanti una teglia random di patate della Sila fritte nella sugna e un piattone di soffritto di tre carni con un po’ di costine e i classici sottaceti. Poi basta.

Invece no. Insieme ai classici dolci c’è della ricotta vaccina con una spolverata di caffè e variante con leccata di miele di fichi — la ricotta, del posto, è stata fatta esclusivamente per l’occasione e portata in dono da alcuni invitati come stimanza.

A quel punto è usanza di alcuni degli ospiti lanciare una specie di gara alcolica: non è una tradizione, i greci non c’entrano nulla, ma vale la pena assistere a vecchie effimere rivalità e personaggi mitologici in grado di spostare letteralmente l’epiglottide per buttar giù il vino prima degli altri. Mi guardo bene dal partecipare.

Sono quasi le otto, torno a casa dei miei in città e non ceno. Il gruppo Whatsapp cambia nome in “Waiting for 2020 [emoji naso di maiale]”.

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