Quando tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta nel mio quartiere aprì un ristorante di cucina cinese, quello divenne ben presto un luogo di riferimento per me e la mia famiglia, soprattutto quando la voglia di preparare qualcosa per cena scarseggiava. Entrare dentro i cancelli del China’s Garden, così si chiamava, era per noi un’esperienza che non solo ci permetteva di assaggiare piatti inusuali, ma che si caratterizzava anche da una certa ritualità – i panni caldi per lavarsi le mani, le bacchette, il Sakè a fine pasto – che spezzava magicamente la familiarità della cucina a cui ero abituata, nonostante mia zia giurasse di aver visto dei pacchi di pasta Barilla in cucina.Cucina Etnica negli anni è un termine finito irrimediabilmente per creare un ghetto nel quale confinare la maggior parte delle cucine non occidentali
Secondo l’antropologa alimentare Lucia Galasso, autrice del blog Antropologia Alimentare: «il cibo “etnico” non è altro che il patrimonio alimentare e ecologico di un’etnia. Sappiamo che la definizione stessa di “cultura” è molto ricca e il cibo ne è un aspetto fondamentale. Spesso questo termine viene usato per riconoscere un cibo di provenienza “diversa” innestato in un’altra nazione.»Alcune cucine troppo spesso vengono bollate come fast e senza troppe pretese, incapaci di assurgere a vette di qualità, nonostante sia ben noto che alcuni piatti “etnici” che siamo abituati a mangiare abbiano delle preparazioni lunghe e complesse
Non diremmo mai che il cibo inglese o francese è etnico perché è parte del nostro bacino culturale. Anche se poi è giusto riflettere sul fatto che le stesse cucine europee tra loro hanno delle differenze stridenti.
«C’è un pregiudizio di fondo. Dobbiamo immaginare un contesto centrale da cui si diramano varie vie, più sei vicino al centro e più le cucine lontane da noi vengono immancabilmente riconosciute come “etniche”. Noi non diremmo mai che il cibo inglese o francese è etnico perché è parte del nostro bacino culturale. Anche se poi è giusto riflettere sul fatto che le stesse cucine europee tra loro hanno delle differenze stridenti, pensiamo ad esempio al cavallo che nei paesi anglosassoni è considerato come un pet, un animale domestico, o alle rane e le lumache. Però in questi casi le differenze si riconducono ad un: “cosa si mangia e cosa non si mangia”, senza parlare di culture alimentari»Bisognerebbe lavorare sui termini, è normale che i vocaboli cambino in concomitanza del contesto storico. Il confronto tra cucine è molto stimolante, però non deve mai scadere in appropriazione
La prima con cui parlo è la chef Victoire Gouloubi, originaria del Congo, che vive e lavora in Italia da vent’anni: «Ho notato che qui qualunque cibo non italiano è automaticamente svalutato. Il termine “etnico” è ancora molto popolare, all’estero però l’utilizzo è molto meno diffuso. Ad esempio, anche quando ero ragazza e vivevo in Congo, non ho mai sentito un confratello africano che andava, che ne so, in un ristorante ruandese a dire: “vado a mangiare etnico”.Ho notato che qui qualunque cibo non italiano è automaticamente svalutato. Il termine “etnico” è ancora molto popolare, all’estero però l’utilizzo è molto meno diffuso
Se vai a Pretoria, su Mandela Boulevard, ci sono anche ristoranti italiani, e in quel caso il cibo italiano dovrebbe essere definito come “etnico”, ma se dici a qualcuno qui che la sua tradizione enogastronomica può essere definita “etnica” questo si arrabbia. Io sono cresciuta con il riso, il platano e la manioca, gli italiani con la pasta e i ravioli, quindi? Per me questo è etnico!Ma tutto ciò che è etnico viene bollato come meno caro, approssimativo senza ricerca, ma dietro ogni piatto c’è un passato. Voglio andare a mangiare indiano? Bene, ma devo essere consapevole che sto mangiando una storia. Purtroppo ho come l’impressione che una volta sostituita la parola “etnico” se ne troverà un’altra che sotto sotto sarà sempre un po’ denigratoria.Purtroppo ho come l’impressione che una volta sostituita la parola “etnico” se ne troverà un’altra che sotto sotto sarà sempre un po’ denigratoria.
Garip Siyabend Dunen e Claudio Angelilli hanno aperto una taverna curdo-meticcia a Roma che si chiama Curd Curd Guagliò. Chiedo anche a loro se la definizione di “cucina etnica” è ancora attuale o si dovrebbe passare oltre. Mi dicono: «L’idea della “cucina etnica” è che questa sia legata soprattutto al mondo africano o medio-orientale, e in questa etichetta ci siamo ritrovati perché facciamo cucina curda, meticcia e fusion. Noi però non ci definiamo come “cucina etnica”, sono gli altri che ci definiscono così. La nostra è un’idea di cucina mescolata con altre culture. Secondo me a livello di termini forse si dovrebbe superare la definizione di “etnico”, riportando tutto all’identità della cucina a favore di una prospettiva più geografica che razziale.Nella cultura popolare ed eurocentrica, l’etnico è qualcosa di “diverso” che viene visto come qualcosa di accettabile solo dentro determinati confini culinari. È qualcosa di esotico, curioso, simpatico, un punto di vista un po’ borghese che in luoghi come Torpignattara, dove si trova il nostro ristorante, è in pratica superato perché qui trovi il coatto romano come il bangladese. Le etichetta ci stanno strette e la cucina come la cultura è in continuo movimento - e questo movimento va tutelato. Se poi ci pensi è anche difficile parlare di “cucina etnica” per tutto il nostro paese. Ad esempio come si fa a parlare di “cucina italiana” come cosa unica? Anche quello è uno stereotipo, in generale è difficile segnare un confine preciso per la cucina. E poi perché ci dovremmo definire come “etnici”, dunque propri di una certa tradizione, quando alcuni degli ingredienti tipici della cucina curda non sono reperibili in Italia o comunque se lo sono hanno dei sapori diversi?»Si dovrebbe superare la definizione di “etnico”, riportando tutto all’identità della cucina a favore di una prospettiva più geografica che razziale.
Micaela Giambaco è la chef patrona di Mikachan, taverna giapponese a Infernetto, Roma. «Sin da piccola ho avuto la passione per la cucina e a 19 anni mi sono trasferita in Giappone e lì ho frequentato dei corsi di cucina. Ma io, vivendo la cucina come una forma di cultura, ho cercato sempre di capire e studiare il perché e il come si utilizzavano certi ingredienti.Il termine “etnico”, soprattutto in Italia, viene spesso attribuito alla cucina mediorientale, mentre invece per me con “etnico” si intende quella tradizione enogastronomica propria di un paese e di una cultura, con gli alimenti che rappresentano quel determinato paese. Per questo mi piace lavorare con ingredienti giapponesi per poter rappresentare il paese a cui faccio riferimento. In questo senso la mia è cucina “etnica” in quanto è identitaria, anche se sono onesta, il mio ristorante non è mai stato definito così.Per quanto riguarda il tema dell’appropriazione culturale poi mi rendo conto di essere in una posizione difficile, sono italiana e faccio cucina giapponese però prima di tutto ho molto rispetto per la tradizione, ho imparato da loro e non mi sono né creata una cucina da sola né tanto meno mi sono messa a cambiare i piatti. Oltretutto li rappresento parlando del Giappone, ma io cerco di rispettarla, omaggiarla, facendo anche divulgazione. Poi siamo tanti, ad esempio conosco chef giapponesi che fanno cucina fusion, personalmente credo che ci sia uno spazio per tutti.»Per quanto riguarda il tema dell’appropriazione culturale poi mi rendo conto di essere in una posizione difficile, sono italiana e faccio cucina giapponese però prima di tutto ho molto rispetto per la tradizione, ho imparato da loro e non mi sono né creata una cucina da sola né tanto meno mi sono messa a cambiare i piatti.