Bao Bar Baby Bao Roma
Tutte le foto di Andrea Di Lorenzo per gentile concessione di Baby Bao e Cultivar Studio
Cibo

A Roma ha aperto un nuovo locale che fa Bao che spaccano

Non sono bao tradizionali, anche perché i ragazzi che ci lavorano sono italiani. Ma Baby Bao a Roma propone cibi di ispirazione asiatica che vi faranno salivare.
Andrea Strafile
Rome, IT

I bao qui sono riempiti con le ricette più porche e perverse che vi possano venire in mente. Uno su tutti? Il bao farcito con un intero granchio imperiale, gigantesco, fritto e cosparso di salsa.

Trastevere è una delle zone più turistiche di Roma e si può riassumere così: “Aó aó, Carbonara, Amatriciana, shottini a un euro.” La tradizione e il turismo regnano sovrani e mettono in ombra anche i pochi locali che lavorano bene.

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Ecco perché in questo senso l’apertura di Baby Bao, un bao bar sui generis a Roma, non è solo la nascita di un posto che al quartiere serviva come il pane, ma anche uno schiaffo in faccia (vivaddio) alle solite pastasciutte romane, che in mancanza di turisti sicuramente stanno soffrendo.

Un unicum in realtà non solo a Trastevere, ma nel centro tutto, dove gli acchiappini e le carbonare si moltiplicano vertiginosamente.

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I bao, per chi non lo sapesse, non sono altro che panini cotti al vapore, a forma di grossa lingua (è la prima metafora che mi è venuta in mente, scusate) che accolgono qualsiasi cosa vi venga in mente. In sostanza sono parecchio versatili e instagrammabili, con il contrasto tra un panino che sembra una nuvola e un ripieno tipo pulled pork, che gronda salsa e unto.

A Milano grazie alla grande comunità cinese, bao bar di livello se ne incontrano già tanti, a Roma non c’è evidentemente la stessa spinta e si ripiega su format e patti più tradizionali.

Capire perché Baby Bao, un localino minuscolo che fa angolo con una piazzetta microscopica, a pochi mesi dall’apertura sia già una delle mete già preferite di molti romani è facile: Milano ha la sua via Paolo Sarpi, Parigi il suo Boutique yam ‘Tcha e Londra il suo Bao London: alla capitale un posto così mancava proprio.

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“Dopo un’esperienza ormai conclusa con un ristorante di matrice asiatica, che avevo aperto insieme ad altri soci,” mi dice Marco Del Vescovo, il proprietario, “ho capito che avrei dovuto aprire un locale ancora più mirato.” Prosegue: “Per creare Baby Bao ci sono voluti quattro anni, in cui ci siamo dedicati non solo alla scelta di cosa avremmo offerto, ma soprattutto a come avremmo dovuto comunicarlo.”

Certo aprire un locale in tempi di pandemia non è cosa facile. E infatti uno degli aspetti che mi ha colpito di più di questo Bao Bar, inizialmente, è stato il delivery. Mentre molti si concentravano sul portare a casa quasi tutti i piatti del proprio menu, in formato gavetta in rigoroso materiale riciclabile, perdendo spesso in calore e quindi in qualità, da Baby Bao hanno pensato a piatti da rigenerare a casa, con delle istruzioni a prova di imbecille. Se ci aggiungiamo che per farti rinvenire i bao alla perfezione ti vendono anche, a prezzo ridicolo, una vaporiera con il loro logo, capirete perché ormai i loro bao fanno parte della mia alimentazione quotidiana.

Il fatto di dover rigenerare ha anche un altro vantaggio del quale, se di mestiere fate i ristoratori, potete riconoscere subito la vantaggiosità: volendo possono portare la cena anche nel pomeriggio.

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Gli Shumai di Baby Bao


Non aspettatevi i bao tradizionali cinesi pieni di carne di maiale e cavolo cinese. Pensateli più come a contenitori che racchiudono un’anima dai sapori asiatici ma volutamente fusion e pop (lo so che è un termine stantio dal 2010, ma provate voi a descrivere in altro modo quelle cosette cicciose dai colori sgargianti).

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“Da quando ho iniziato a cucinare, il cibo asiatico è quello che mi piace di più. Per capirci è quello che mi piace cucinare anche quando non lavoro,” mi racconta Andrea Massari, lo chef di Baby Bao. “Ho fatto esperienze in stellati come il Pagliaccio a Roma (dove l’influenza asiatica si sente parecchio, ndr), ma quando sono stato a Sydney ero sempre a Chinatown, per esempio. Così come qui a Roma mi piace scovare tutti i locali gestiti da proprietari asiatici per conoscere il più possibile prodotti e piatti e poi rifarli a modo mio. Per imparare a fare i bao ho chiesto aiuto ad alcuni ristoratori cinesi di Roma e mi sono guardato alcuni video. Ho imparato da autodidatta.”

Mentre in molti locali in tutta Italia spesso il pane dei bao o dei baozi viene comprato, Andrea si fa a mano tutti i giorni quasi tutto, ramen compresi. E ha capito che il segreto per far venire una sorta di dipendenza è di riempirli con le ricette più porche e perverse che vi possano venire in mente. Uno su tutti? Il bao farcito con un intero granchio imperiale, gigantesco, fritto e cosparso di salsa.

O il baozi con pollo sfilacciato il cui fondo viene ristretto per farci una salsa un po’ agrumata in cui pucciare senza pietà il raviolone stesso. E ancora gli shumai (ravioli aperti di origine vietnamita) fatti con impasto al nero di seppia e ripieni di crema ai piselli. Se pensate che un baozi, un bao, una scodella di ramen, una porzione di shumai e due differenti tipologie di mochi sarebbero stati troppi, la prima volta che ci sono entrati mi sono andati giù tutti, in una splendida imitazione di Homer Simpson che si ingozza a profusione.

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“Ho pensato che la tradizione a tutti i costi per le vie del centro deve morire”

“I Mochi sono una delle pochissime cose che compriamo. Ma vengono da un negozio specializzato e autentico in piazza Vittorio [la Chinatown romana, NdR].” Il processo per fare i mochi, quei tondini simil-Tamagotchi, soffici come le guance di un neonato (non trovavo un termine per descriverne la texture ma pare sia normale), è abbastanza un casino. Per darvi un’idea del metodo tradizionale è bene guardarvi questo video stupefacente. E quindi Andrea li compra e li farcisce a modo suo, quindi non solo la tradizionale marmellata di fagioli giapponese. “A esempio addento un mochi ripieno di crema pasticciera che mi fa uscire lacrime di meraviglia.

Per non lasciare niente al caso, Marco ha pensato bene anche di affidarsi a un esperto sommelier di sakè: quindi tutto questo cibo può essere innaffiato da lattine e bottigliette di sakè tra i migliori disponibili sul mercato e, diciamoci la verità, difficili da trovare in città.

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Il Bao con Granchio Imperiale di Baby Bao

Il logo del bebè con la lingua di fuori è stato spammato così tanto che in poco più di un mese prendersi un bao a Roma fa già rima con Baby Bao. Che non è solo un locale ma, vedendoci lungo, un marchio registrato pronto a moltiplicarsi in format dalle classiche shopper e magliette e, si spera, in altri locali. La potenza della comunicazione in un ristorante è ormai tanto punto di forza quanto i bao grondanti di salsa.

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Uscito da quella porta mi sono fatto una passeggiata tra i vicoli di Trastevere barcollando felice. Un acchiappino svogliato mi fa: “Italian food, carbonara, cacio e pepe. Venga Venga.”

E ho pensato che la tradizione a tutti i costi per le vie del centro non sempre è positiva come vorremmo credere, e forse deve morire.

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