Gelato Mokambo cono 70 euro
Tutte le foto di Giuliana Massaro
Cibo

Ho mangiato il cono da 70 euro di questa gelateria nel cuore della Puglia

Zafferano pregiato, burro di pistacchio e una foglia d'oro. Ma la Gelateria Mokambo non dovrebbe essere famosa "solo" per questo cono così lussuoso.
Gianvito Fanelli
Conversano, IT

“Un gelato da stronzi, perché solo gli stronzi fanno tutto questo teatro per un gelato”.

Come fa una gelateria di soli 42 metri quadri, aperta nel 2016 in una città fuori dai circuiti turistici pugliesi e dei “gastrofighetti”, per citare Francesco Martucci, diventare luogo di attrazione per italiani e stranieri che spesso si sobbarcano anche diverse ore di macchina per gustare un “semplice” cono gelato?

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Me lo sono chiesto anch’io un anno e mezzo fa, quando per la prima volta ho varcato la porticina discreta della Gelateria Mokambo di Ruvo di Puglia, in Alta Murgia. La ricordo bene quella prima volta: la lunga attesa per entrare, nonostante davanti a me non ci fosse una fila oceanica; le dimensioni minuscole del punto vendita; il laboratorio a vista, con delle meravigliose mole dedicate a macinare fave di cacao che pubblicità della Lindt scansati.

Quando assaggiai il loro gelato, quindici minuti dopo, capii tutto. 

Un’ora e mezza dopo il mio ingresso al Mokambo, è finalmente giunto il momento di gustare il mio Scettro del Re. Prima un po' di panna, poi un burro di pistacchi di Bronte, gelato allo zafferano, ancora un po' di panna, perfino una foglia d’oro a 24 carati e, infine, la guarnizione.

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​Tutte le foto di Giuliana Massaro

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E, allora, oggi ho deciso di raccontarvi la storia di Mokambo. Voglio farlo in prima persona, facendovi vivere con me l’esperienza del prodotto più iconico di questa gelateria pugliese, quello che ha fatto titoloni sui giornali e polemicone sui social: lo “Scettro del Re”, o, più semplicemente, “il cono da 70 euro”.

La storia del gelato del 1840 e di Mokambo

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Prima di arrivarci, però, permettetemi di partire dalla storia di questa gelateria. Perché è solo conoscendola, ed entrando in contatto con la filosofia, che si può capire come un cono possa arrivare a costare così tanto.

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Raggiungo a Ruvo i fratelli Giuliana e Vincenzo Paparella, che oggi gestiscono l’attività con loro zio Franco Paparella. "Partiamo da un presupposto: noi non ci siamo inventati nulla. Al massimo, abbiamo avuto il merito di riprendere una tradizione famigliare", esordisce Vincenzo.

Luogo chiave della rinascita del Mokambo, perché di rinascita parliamo, è Palazzo Cervone, casa dei genitori di Vincenzo e Giuliana. Nella vecchia biblioteca, anni fa, i due fratelli hanno ritrovato un vecchio taccuino appartenuto a Luigi Marseglia, zio del loro nonno paterno Vincenzo Paparella (sì, ovviamente, suo nipote ha lo stesso nome). In quel taccuino c’erano proprio le ricette utilizzate oggi per preparare il gelato nella Gelateria Mokambo. Secondo quanto mi racconta Vincenzo, che negli ultimi anni si è travestito in Alessandro Barbero scartabellando fra i documenti d’epoca, si tratterebbe delle ricette che Luigi Marseglia aveva imparato da Pascale Scognamillo, primogenito del monsù (pasticciere di corte) del Re Ferdinando II di Borbone. Tra queste ricette, per esempio, c’è anche quella datata 1840 della “cremolada”, che oggi si trova nella lista dei gusti come “Crema del Re” (ci ritorneremo più tardi).

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Luigi Marseglia

Luigi Marseglia è una figura fondamentale, quasi mitologica, in tutta questa storia. “Zio Luigi era nato nel 1889 a Bovino, in provincia di Foggia, ma si era trasferito giovanissimo a Napoli, dove aveva iniziato a lavorare come garzone al Gran Caffè Gambrinus, apprendendo i segreti del mestiere”. Marseglia era poi arrivato a Ruvo nei primi anni ‘10 del novecento dopo esser convolato a seconde nozze con una ruvese, e qui aveva fondato un impero in miniatura: prima aprendo l’albergo, nel 1910 un bar, che aveva chiamato Caffè Gambrinus in onore dei tempi passati, e poi la prima stazione di carburanti nel 1912. Un vero e proprio ecosistema di servizi per soddisfare i diversi commercianti che giungevano in città per acquistare le mandorle, prodotto pregiato del territorio.

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Nel Caffè Gambrinus di Ruvo aveva iniziato a lavorare piccolissimo suo nipote, Vincenzo Paparella senior. Fino ai 18 anni, quando fu chiamato per il servizio di leva e la guerra di Dalmazia. Finita la guerra e tornato a Ruvo a metà degli anni ‘50, Vincenzo pensava di ritrovare il suo posto di lavoro al Gambrinus. Ma, nel frattempo, Marseglia aveva deciso di vendere il bar e di andare in pensione. Il nipote si arrangiò, trovando lavoro al Bar Italia, dove avrebbe lavorato per qualche anno prima di lasciarlo e fondare il Bar Mokambo. Il primo Bar Mokambo, progenitore dell’attuale, aprì il 7 novembre 1967 in corso Carafa. La stessa data che si legge nell’insegna ricamata all’uncinetto nella nuova sede della gelateria.

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Vincenzo che ci mostra una foto dell'antico taccuino

Intanto, erano nati i figli di Vincenzo, Antonio e Francesco Paolo (Franco). A loro sarebbe passata nel 1984 la proprietà del bar vista la morte prematura di Vincenzo a soli 51 anni. I due gestirono il bar assieme fino al 1994, quando Franco decise di aprire un ristorante. Altri quattro anni dopo, quasi improvvisamente, la storia s’interruppe quasi definitivamente: forse per stanchezza e sfiducia davanti all’esplosione del gelato industriale, il papà di Giuliana e Vincenzo decise di abbassare le serrande, lasciando un vuoto nella comunità locale e rischiando di interrompere la storia sul più bello. 

Tenete in considerazione che il gelato al Mokambo costa 4 euro, un prezzo piuttosto alto rispetto alla media e che ha tenuto distanti i clienti locali fino a un paio d'anni fa, quando hanno "capito che è un gelato eccellente."

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Quel vuoto è stato colmato 17 anni dopo, nel 2015, proprio per mano dei suoi figli. Che ai tempi facevano tutt’altro: Vincenzo era sviluppatore per una nota società di consulenza a Roma, mentre Giuliana era al quarto anno di Giurisprudenza. Capire perché abbiano deciso di cambiare vita è facile. “Erano tanti anni che volevo riassaggiare quel gelato che mangiavo da quando ero bambina” - mi dice Giuliana - “Volevo riprovare quella nocciola che sapeva di nocciola, visto che altrove non riuscivo a trovare nulla di paragonabile. Pensa che preferivo mangiare un vero gelato industriale come Carte d'Or che certi gelati fintamente artigianali. La scintilla è scattata quando, sul gruppo Facebook del paese, pubblicarono una foto del vecchio Bar Mokambo: sotto la foto c’erano commenti di altri nostalgici che rivolevano quel gelato alla nocciola."

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Continua Vincenzo: "Abbiamo cominciato a tartassare nostro padre Antonio, ma lui non ne voleva sapere. Così siamo passati a suo fratello, zio Franco, scoprendo che anche lui aveva una mezza idea di rifare il gelato, quello che preparava nel suo ristorante che aveva aperto per fare qualcosa di proprio. Aveva già i macchinari e un localino promettente pronto a essere ristrutturato. Abbiamo iniziato i lavori, senza fretta. Giuliana non aveva mai fatto un gelato prima, io avevo “lavorato” nel bar fino a 13 anni.”

Partendo dal patrimonio ritrovato di ricette di Luigi Marseglia, e dall’esperienza di zio Franco, il Bar Mokambo ha riaperto le sue porte nella veste di “Gelateria Mokambo” per preparare quello che zio Franco stesso - che nel frattempo ci ha raggiunti in laboratorio - definisce “un gelato da stronzi”, “perché solo gli stronzi fanno tutto questo teatro per un gelato”.

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Franco si riferisce al processo e agli ingredienti utilizzati: nessuna base semilavorata, ma materie prime, come la nocciola trilobata del Piemonte IGP, il pistacchio di Bronte DOP e fave di cacao in 36 varietà diverse, tutte trasformate in laboratorio. E che, come nel caso delle fave di cacao, danno vita a una moltitudine di gusti classici, come gli 11 blend differenti di cioccolato, serviti uno per giorno “a sentimento.”

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“Inizialmente, acquistavamo il cioccolato già pronto” - mi racconta - “E anche se era il migliore in commercio, non eravamo soddisfatti, perché c’era il burro di cacao. Noi volevamo il prodotto in purezza, perciò nel 2017 abbiamo deciso di preparare tutto qui, importando direttamente le fave.”

Franco non ha molti peli sulla lingua. Forse è anche una conseguenza della sua movimentata storia personale: è stato pilota d’auto sportive e commerciante prima di diventare ristoratore. “Purtroppo, ora devo anche alzare i prezzi e sorbirmi le rotture di palle della gente, perché il costo delle materie prime è schizzato, per esempio il cacao è raddoppiato. Alla fine riuscirò a guadagnare 70 centesimi a cono, a differenza di chi vende il gelato fatto con basi semilavorate a due euro e ne guadagna almeno 1 e 20." Tenete in considerazione che il gelato al Mokambo costa 4 euro, un prezzo piuttosto alto rispetto alla media e che ha tenuto distanti i clienti locali fino a un paio d'anni fa, quando hanno "capito che è un gelato eccellente." 

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Gli fa eco il nipote, che al Mokambo si occupa di marketing: “Noi forniamo un'esperienza totalmente differente dalle classiche gelaterie. Come avrai notato, non abbiamo un’insegna molto grande né una location sfavillante e centrale, perché c’interessa emozionare col gelato, non col resto”.

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Lo zio Franco con l'autore

Gli chiedo perché, secondo lui, ci sono poche altre gelaterie così: "Chi si prende la briga di usare ancora le uova da galline allevate liberamente a terra e non il brick? O di utilizzare solo latte di masseria (quello del Mokambo proviene dalla Masseria Madonna dell’Assunta di Altamura NdR)? Questo fa la differenza. Pensa che la Crema del Re è una ricetta semplicissima: solo latte, uova e zucchero, ma della migliore qualità, a cui aggiungiamo a rotazione quattro vaniglie pregiate: le “Red Bourbon” e “Black Bourbon” del Madagascar”, la “Red Europe” di Tahiti e la Mexican Seed.”

Il cono da 70 euro

Non vendiamo un semplice cono: ti sequestriamo qui per un'esperienza di un'ora e mezza. Ti raccontiamo la materia prima, la sua storia e poi facciamo insieme la mantecazione

Ma veniamo alla materia prima più pregiata: lo zafferano del famigerato cono da 70 euro.

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Qui aleggia ancora una volta la figura di Luigi Marseglia: la ricetta del gelato allo zafferano è un’altra di quelle presenti nel suo taccuino. Taccuino che vorrei vedere, ma che è custodito in un luogo sicuro, come se fosse la ricetta della Coca-Cola. Vincenzo mi spiega che “quelle poche volte che lo abbiamo aperto, abbiamo quasi rischiato di strappare le pagine per quanto è consumato dagli anni”.

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A preparare il gelato sarà Giuliana che, intanto comincia a raccontarne la genesi nei minimi particolari: “Lo zafferano che usiamo per il nostro "Scettro del Re" viene da Mashhad, nel nord-est dell'Iran, e costa dai 53 ai 60 dollari al grammo. Lo abbiamo scelto, facendo un test alla cieca, perché eccelle nelle tre caratteristiche fondamentali per valutare uno zafferano, quelle che danno il colore, l'aroma, la nota amaricante: le crocine, le picro crocine e il safranale. Per fare il gelato usiamo il sargol, la parte più alta e rossa, ben diversa da quella usata per lo zafferano che troviamo in commercio. Lì viene utilizzata la parte bassa, che in natura è bianca. Per diventare gialla, viene sminuzzata e colorata con la curcuma così da camuffarne la scarsa qualità. Crediamo di mangiare il vero zafferano, ma non è così."

Le chiedo quand’è nata l’idea di riproporre la ricetta di Luigi Marseglia: "Lo abbiamo pensato nel 2017 ed introdotto ad agosto 2018. La reazione dei primi clienti, una coppia, è stata di shock.

Mentre parla la stanza è inondata dal profumo inebriante di zafferano: Giuliana, infatti, ha tirato fuori l'infusione di latte, zucchero, uova e zafferano che aveva iniziato a preparare tre giorni prima (per questo motivo, bisogna prenotarlo). “Non vendiamo un semplice cono: ti sequestriamo qui per un'esperienza di un'ora e mezza. Ti raccontiamo la materia prima, la sua storia e poi facciamo insieme la mantecazione" continua. 

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Giulia versa la miscela nel mantecatore verticale e comincia a mantecare il gelato proprio come si faceva una volta, utilizzando una spatola verticale per staccare il gelato dalle pareti.

Dieci minuti dopo, il gelato è pronto. Ma manca ancora qualcosa: Giuliana comincia ad armeggiare con dello zucchero e un pentolino. “Sto preparando del caramello per realizzare una guarnizione regale. Altrimenti che scettro sarebbe?”

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Mentre è presa dal suo lavoro, riesco a percepire quella passione che l’ha spinta a mollare tutto e riaprire il Mokambo. Le chiedo se ogni tanto non si pente di questa scelta: "No, assolutamente”.

La guarnizione è pronta. Un’ora e mezza dopo il mio ingresso al Mokambo, è finalmente giunto il momento di gustare il mio Scettro del Re. Prima un po' di panna, poi un burro di pistacchi di Bronte, poi il gelato allo zafferano, ancora un po' di panna (“la panna va sempre doppia, o non è”), perfino una foglia d’oro a 24 carati e, infine, la guarnizione.

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Il cono sembra effettivamente uno scettro. Tanto che mi sale subito una certa preoccupazione: non posso farlo cadere. “Non ti preoccupare: se a un cliente cade il gelato, qualsiasi esso sia, lo rifacciamo.”

Vincenzo e Giuliana si raccomandano un’ultima volta prima dell’assaggio: "Dopo averlo mangiato, non andare subito in macchina: potresti sentirti un po’ brillo”.

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Ora che conosco la storia, la provenienza e i possibili effetti collaterali di questo gelato, posso assaggiarlo. Lo azzanno, non distinguendomi certo per un savoir faire da sovrano. Il gusto, al contrario, si confà a caratteristiche decisamente più regali: è delicato, profumato, inebriante. La consistenza è morbida, leggera e setosa. Questo non è un gelato che ti rimane sullo stomaco un minuto dopo averlo mangiato. Lo definirei piacevole, ma non scioccante.

Provo, quindi, a rispondere alla domanda che mi hanno fatto in tanti: “Gianvito, lo rifaresti?” 

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Credo che non sia la domanda giusta da fare. Non è un gelato per cui spenderei due volte 70 euro. Ma non è questo il punto né l’obiettivo: in un'ora e mezza passata insieme a Giuliana, Vincenzo e Franco ho viaggiato fra continenti. Mi sono sentito un po’ un re, come se fossi salito su una piccola macchina del tempo. Ho toccato con mano cosa significa fare il gelato come una volta. E, cosa più importante, ho gustato un prodotto tanto semplice, quanto pregiato.
La domanda giusta è un’altra: quando mi ricapita?

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