Cacio e pepe tour roma
Tutte le foto di Andrea Di Lorenzo. Collage by Munchies Italia.
Cibo

Il mio tour insaziabile delle migliori cacio e pepe di Roma

La cacio e pepe non è il primo romano più ordinato. Sembra facile da fare, ma è molto più facile sbagliare. Così siamo andati a trovare chi la fa come si deve.
I nostri insani food tour in tutta Italia, alla ricerca del cibo di strada migliore o ricette iconiche senza tempo.

La cacio e pepe ha l’unicità di saper dichiarare la sua identità nel nome, un nome pungente, un po’ greve, ma leggibile.

Era un giorno di caldo torrido quello in cui ho pensato per la prima volta di girare Roma per capire quale motivo spingesse così tante persone a mangiare un enorme piatto di pasta salatissimo con milioni di gradi. Parlo della pasta cacio e pepe, naturalmente. Grazie al cielo, per fare questo tour ho aspettato temperature più miti.  

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La cacio e pepe, come molte altre cose a Roma, è avvolta da un alone di mistero: uno dei tanti è come si fa a smaltirla senza abbondanti tinozze d’acqua e come cucinarla senza renderla un ammasso di pasta. Incuriosita, ho anche chiesto ad amici buongustai cosa pensassero della cacio e pepe, e le risposte sono state cose tipo: “Non la ordino mai”; “Preferisco altri primi romani”; “È troppo pesante”; E, infine, il più classico dei commenti: “È più facile farla male che bene.”

Alla ricerca di questa verità, io e il buon Andrea Di Lorenzo con la sua macchina fotografica, ci siamo incamminati tra i sampietrini di Roma per interrogare alcuni ristoranti che ne preparano la ricetta. 

La cacio e pepe con la menta: Da Sora Lella

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I tonnarelli cacio e pepe da Sora Lella.

La giornata comincia in uno dei più bei luoghi della città: l’Isola Tiberina. Lasciandosi alle spalle il quartiere ebraico, si approda sull’isola attraversando il ponte Fabricio e la prima cosa che si incontra è l’insegna elegante della Trattoria Sora Lella. Dentro Elena Trabalza risponde al telefono alle richieste più disparate: un tavolo last minute per pranzo, una prenotazione per un gruppo di 100 persone. Con i fratelli Renato, Mauro e Simone Trabalza gestisce la trattoria che era stata di Nonna Elena Fabrizi, in arte Sora Lella, ostessa, cuoca e attrice di successo–nonché sorella dell’attore Aldo Fabrizi–, prima passata al papà Aldo e poi a loro. Di recente è uscito anche un libro con le ricette di Sora Lella e dei nipoti, Annamo Bene. La Cucina Romana di Sora Lella (Giunti Editore, 224 p.).

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Quella di Sora Lella, però, non è oggi una trattoria romanaccia, ma un posto sospeso sull’isola e proteso sul fiume, intimo e accogliente, dove trovano spazio le foto di famiglia con le dediche, la cucina di nonna Lella, ma anche quella di Renato Trabalza, che sta attento anche alla provenienza di tutti gli ingredienti. 

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Gli interni di Sora Lella.

La cacio e pepe qui ha un segreto così geniale da farti chiede “perché non c’ho pensato io???.” Ed è quella originale della Sora Lella, che per smorzare la sapidità del condimento la serviva con menta fresca per pulire la bocca: due fogliette in cima e un po’ di foglie tagliuzzate (non tritate) in mezzo.
Il secondo asso nella manica è il mix di pepi dal mondo che Renato Trabalza compra e macina nella sua cucina. Verranno tostati in padella prima di mischiarsi ai tonnarelli. Mangiarli sul Ponte Fabricio mentre i passanti ti guardano con l’acquolina in bocca non ha prezzo. Un signore mi ferma per farci una foto. “Hai mai mangiato dalla Sora Lella?” gli chiedo. “No, però ce devo andà.”

Cacio e pepe tour roma sora lella

L'autrice con uno sconosciuto che passava di là.

La cacio e pepe primordiale: Flavio al Velavevodetto

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La cacio e pepe al tovagliolo di Flavio al Velavevodetto.

A Testaccio la cacio e pepe è un’istituzione. I ristoranti che la preparano nel quartiere sono parecchi e tutti molto conosciuti, sia dai romani, sia dai turisti. Letteralmente sotto il Monte dei Cocci, una collina artificiale alta 36 metri che i romani crearono accatastando più di 50 milioni di anfore, c’è Flavio al Velavevodetto. Il padrone di casa, Flavio De Maio, è uomo di grande esperienza e cultura gastronomica che ha aperto questo ristorante nel 2009.

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Flavio De Maio ci porta nella sua grande cucina, dove c’è una teglia gigante con le sue famose polpette di bollito pronte per la frittura.
A noi però interessa la cacio e pepe, per cui partiamo da un foglio di carta oleata ricolmo di tonnarelli freschi, lunghissimi, da immergere in acqua bollente. Dalla dispensa tira fuori un ciotolone ricolmo di quello che lui chiama pastone, un mix di pecorino, acqua fredda, pepe e olio che viene frullato con il mixer e messo in disparte fino al momento di versarne qualche cucchiaiata in una ciotola con la pasta appena scolata e l’acqua di cottura. 

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Flavio De Maio tira su i tonnarelli dal bollitore.

A quel punto “me la vedo io col forchettone” dice Flavio. La crema si scioglie a suon di gomito, i tonnarelli si avvolgono gli uni agli altri, si aggiunge un filo d’olio, ancora un po’ di pepe e via nel piatto. “La cacio e pepe si può fare in un sacco di modi, è una questione di tecnica. Sono piatti che vivono di equilibrio e la pasta in bianco non perdona, se sbagli qualcosa, cara mia, non si aggiusta,” mi spiega.

Fermiamoci un attimo per un chiarimento: a chi chiedesse la vera origine o la ricetta autentica della cacio e pepe, risponderei con una frase rubata a Flavio De Maio: “La cucina romana non può essere codificata.” E infatti qualunque cuoco e oste vi spiegherà che per anni le osterie sono state nelle mani di famiglie che si sono tramandate le ricette oralmente, aggiungendo e togliendo a piacimento qualche ingrediente o facendo a occhio per le quantità. Sempre lo chef Flavio: “Se dicessi a un cliente ‘vuoi un po’ di tonnarelli formaggio e pepe?’ non se li mangerebbe.” Questo a testimoniare che questa pasta ha l’unicità di saper dichiarare la sua identità nel nome, un nome pungente, un po’ greve, ma leggibile.

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La cacio e pepe classica di Flavio al Velavevodetto.

Proprio all’origine della cacio e pepe è dedicata una parte importante del mio incontro con Flavio. “Per me la versione primaria della cacio e pepe è quella che Salvatore Tassa del ristorante Colline Ciociare fa al tovagliolo (sono spaghetti buttati in un panno di lino, cosparsi a più riprese con manciate di pepe e pecorino, senza mantecatura a fuoco, ndr.), col pepe che ti pizzica in gola, che quando la mangi tossisci e c’hai subito bisogno di un bicchiere di vino, quella che la gente si portava in campagna per fare merenda.”

Con il favore dello chef Tassa, Flavio ha ricreato anche questa cacio e pepe contadina, che infatti arriva con un fazzoletto bianco appallottolato, che apre sul tavolo mostrando una pasta che tanto somigliante alla cacio e pepe cui siamo abituati non è. “Adesso parliamo un po’, perché questa si deve freddare” mi dice. Esattamente, una cacio e pepe fredda. “Deve essere asciutta” dice Flavio. Per mangiarla, rigorosamente con le mani, si comincia dall’esterno e si arriva sempre più al centro: è incredibile. Il tonnarello non perde robustezza, il pepe pizzica e la crema si rapprende. Bisogna bere qualcosa prima dell’ultimo boccone, poi si passa ai saluti.

La cacio e pepe con (più) parmigiano: Roscioli

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L'autrice che sta per addentare la cacio e pepe di Roscioli. Comincia a essere provata.

Roscioli non avrebbe bisogno di presentazioni. Il suo nome è famoso tra i romani almeno come quello di Trilussa e Papa Francesco. Entro nella Salumeria Roscioli di Via dei Giubbonari quando il pranzo è già al secondo turno. Qui le ricette della famiglia Roscioli sono prese in mano dallo chef Fabrizio Di Stefano. “Io penso che ogni cuciniere abbia la sua mano,” mi dice mentre parliamo di pepe e tonnarelli, fatti a mano ogni santo giorno. “Ma quindi come si fa mandare giù 110 grammi di pasta?” chiedo io. “Si fa che te fai il giro di tutti i monumenti di Roma,” mi risponde.

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La cacio e pepe della famiglia Roscioli è preparata con una miscela di pepi appositamente realizzata in Francia, che comprende pepe nero di Sarawak, pepe nero Phu Quoc e pepe bianco affumicato. Il risultato, vi stupirà come ha stupito me, è di grandissimo equilibrio e delicatezza, merito dei 2/3 di parmigiano a fronte di 1/3 di pecorino.
“I formaggi li prendiamo direttamente dal nostro banco,” mi dice Fabrizio Di Stefano. “C’è sono il parmigiano 24 mesi e il 36 mesi, la qualità è assoluta.”

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L'insegna neon dentro Roscioli che inneggia al pane e salame.

Finisci il piatto che quasi potresti mangiarne un altro. Fortunatamente al tavolo di Roscioli non manca mai la pizza bianca alla pala del loro forno vicino, con cui è eretico ma imperativo fare una sontuosa scarpetta.

La cacio e pepe più famosa: Felice a Testaccio

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La cacio e pepe di Felice a Testaccio, mantecata forte al tavolo.

Torniamo a Testaccio, per entrare nel posto più famoso a Roma per la sua pasta cacio e pepe. Lo conoscono pure i muri: Felice a Testaccio. Il locale fu aperto da Felice Trivelloni nel 1936. La leggenda narra che la fama della cacio e pepe sia nata perché il lunedì Felice faceva i capellini in brodo e i suoi amici erano soliti prendere questo piatto e mangiarlo in più tempi, lasciando i capellini per ultimi, ormai completamente asciutti. Quindi aggiungevano parmigiano, pepe, mischiavano gli ingredienti nel piatto e via di forchetta. In effetti il vero marchio di fabbrica della casa è uno: la mantecatura al tavolo.

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Lo chef Jacopo Caira aggiunge il formaggio prima della mantecatura al tavolo.

Oddio, che sia una mantecatura e non un gioco di prestigio non è facile da dire. Lo chef Jacopo Caira segue la cucina di Felice con il compito affatto semplice di portarne avanti la tradizione, dando da mangiare a tantissime persone, anche 500 al giorno tra pranzo e cena.
“Ma come fanno le persone a mangiare tutta questa pasta?”.

La mia domanda cade nel vuoto, mentre un cameriere prende il piatto appena uscito dalla cucina, con i tonnarelli ricoperti da uno strato di formaggi grattugiati, e fa roteare forchetta e cucchiaio per creare la famosa cremina. Dentro il piatto ci sono la bellezza di 180 grammi di tonnarelli “lunghi un metro,” dice lo chef. “La gente fa a cazzotti per assaggiarla.”

Felice testaccio cacio e pepe

Ancora una volta la magia della mantecatura al tavolo di Felice a Testaccio.

Il gusto è incisivo, non tanto per il pepe, quanto per il pecorino: qui ce ne sono 2/3, mentre 1/3 è di parmigiano. Per creare la crema si aggiunge l’acqua calda, rigorosamente sciapa. Questo dettaglio spiega perché salato sì, ma senza effetti collaterali.

La cacio e pepe dei giovani cuochi: Osteria dei Tre

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Il giovane cuoco Andrea Laici mentre ci cucina la cacio e pepe.

Per la prossima visita lasciamo i quartieri storici e ci spingiamo in zone più periferiche. Di storia ce n’è ancora: per esempio il grande acquedotto che solca Via Palmiro Togliatti. Al quartiere Alessandrino nel 2018 tre ragazzi, allora ventenni, hanno aperto un locale, Osteria dei Tre.

Sono Lorenzo Di Gialluca, Andrea Laici e Lorenzo Casale. Il primo lavora in sala, gli altri due in cucina. E siccome è un’osteria, qui si fa cucina romana, la pizza bassa e scrocchiarella, il vino laziale e la cacio e pepe. Ma se non ci sono anni di tradizione alle spalle, le ricette della nonna e l’insegna storica, come si fa?
“Ho studiato” mi dice Andrea Laici. “E sì, anche i social aiutano.”

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La cacio e pepe dei ragazzi di Osteria dei Tre.

La cacio e pepe qui è realizzata con pecorino romano DOP, lavorata a freddo con olio, acqua e pepe, quindi tonnarelli e acqua di cottura.
“A Roma ognuno ha le sue fisse sulle ricette,” mi spiega Andrea Laici. “Sembra che alcune cose siano intoccabili.”

I tonnarelli sono un tema importante, perché quasi tutte le insegne –Roscioli è un’eccezione– li comprano altrove e non li fanno in casa. “Noi li prendiamo da un pastificio. Io credo che bisogna anche saper comprare, oltre che saper fare.” Del resto, come mi confermano, certe cose richiederebbero un tempo e delle risorse che molti ristoranti non hanno, magari per garantirsi un risultato comunque mediocre. Questa cacio e pepe, per la cronaca, non era mediocre affatto.

La pizza alla cacio e pepe: da Sbanco

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L'autrice mentre addenta la pizza cacio e pepe, ormai assai provata.

A testimonianza del fatto che la cacio e pepe è un concetto, non una prescrizione, i romani hanno saputo fornirne numerose declinazioni. E se il binomio tonnarello-cacio sembra inossidabile, fuori dai primi si può spaziare a piacimento. Una delle ricette più memorabili di Stefano Callegari, imprenditore, pizzaiolo e inventore del Trapizzino, è la sua pizza cacio e pepe. Con le solite cremine? Anche no.

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Il ghiaccio che si è sciolto per fare la pizza cacio e pepe di Sbanco.

Questa cacio e pepe è un’invenzione più sofisticata, “una genialata,” la definisce Alessio Muscas, che ha lavorato con lui per anni e che gestisce la pizza da Sbanco, dove si possono assaggiare alcune delle ricette più famose di Callegari. 

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Per la pizza cacio e pepe originale viene preparato l’impasto di base e steso senza condimenti. Sopra vi si adagiano dei cubetti di ghiaccio, poi la pizza va in cottura dentro il forno a legna, dove i cubetti sciogliendosi svolgono il ruolo dell’acqua di mantecatura di una normale cacio e pepe. La pizza viene tirata fuori ricoperta di pecorino grattugiato, olio d’oliva e pepe macinato, tagliata a spicchi e servita al tavolo. 

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Andrea Muscas mentre ci prepara la pizza cacio e pepe.

Andrebbe presa magari come antipasto da condividere, perché di fatto non è una pizza come un’altra: il pepe arriva direttamente in gola fino a farti venire le guance rosse, il pecorino è cremosissimo sulla base, più consistente sulla superficie. Il problema è che, per quanto sia prorompente, non si riesce a smettere di mangiarla.

La cacio e pepe panata e fritta: 180 grammi

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Il Sanpietrino di 180 grammi con i tonnarelli cacio e pepe.

L’ultima tappa di questa impegnativa giornata si è tenuta nel quartiere di Centocelle.  Le luci della pizzeria 180grammi illuminano la strada a giorno. Dentro il forno cuoce pizze e la friggitrice ribolle d’olio. Jacopo Mercuro è un pizzaiolo e maestro di fritture e il suo sampietrino ripieno di tonnarelli cacio e pepe qui è il secondo fritto più venduto dopo il supplì, classico irrinunciabile per un romano in pizzeria.

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Ma cos’è questo sampietrino? Il nome dice tutto: una mattonella quadrata, fritta e ripiena. Di qualunque cosa, come si è visto anche nelle ultime puntate di Masterchef.

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Di sicuro ci stanno benissimo i tonnarelli cacio e pepe, cucinati dal cuoco di 180grammi, Simone Ballicu, che prepara poi una panatura molto croccante con farina, acqua e corn flakes sbriciolati. “I tonnarelli per il ripieno vengono cotti in una finta salsa cacio e pepe tutta pecorino,” mi dicono. “La cottura verrà ultimata poi con i quattro minuti di friggitrice,” mi dice Jacopo Mercuro.

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Jacopo Mercuro, Simone Ballicu e l'autrice che finisce il suo tour di cacio e pepe.

Esterno dorato, interno grondante: il sampietrino viene servito al piatto come antipasto da tagliare a metà e mordere. Anche qui il pepe picchia duro: c’è sia dentro, sia spolverato sopra. Per asciugare la bocca mi viene offerto un fritto ripieno di minestrone. E penso che sono le prime verdure addentate in questa infinita giornata.

Ma almeno sulla cacio e pepe mi sono dovuta ricredere. 

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